Focolaio a New York

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In America l’epidemia di Covid 19 colpisce soprattutto New York con il 35 per cento dei casi e basta pensare a quello che succede in Italia per capire che la situazione è grave. In Italia i focolai più attivi sono comparsi in centri abitati poco densi e relativamente distanti dalle grandi città. New York è la città più densa d’America per popolazione ed è anche la più complessa da gestire per tutta una serie di ragioni. In questo momento lo stato di New York ha circa 26 mila casi, poco sotto i 30 mila della Lombardia – ma il contagio a New York è ancora due settimane indietro rispetto all’Italia. Debora Birx, la coordinatrice del governo americano per la crisi del coronavirus, ha detto lunedì che il tasso d’attacco del virus a New York è cinque volte più alto rispetto alle altre aree colpite negli Stati Uniti – il tasso d’attacco in epidemiologia è la percentuale di soggetti contagiati in una popolazione. I tamponi fatti a New York sono positivi nel 28 per cento dei casi contro l’8 per cento della media nazionale secondo Birx – e comunque non se ne fanno moltissimi, quindi le dimensioni reali del contagio sono più grandi. In Lombardia ci sono 188 casi ogni centomila abitanti, a New York – sempre secondo il dato di due giorni fa – ce ne sono 144 ogni centomila abitanti con punte a Staten Island (172), Manhattan (158) e Queens (158). E’ un quadro che però è già vecchio perché, come diceva ieri il governatore Andrew Cuomo in conferenza stampa dal Javits Center di Manhattan, il numero di contagiati raddoppia ogni tre giorni. “Sta accelerando come un treno ad alta velocità”. Cuomo era furioso: “La gente parla, i politici parlano, mi servono azioni non parole. Dove sono i rifornimenti? Questa è la mia domanda. Dove sono?”. Il governatore è esasperato perché la Fema, l’equivalente federale della Protezione civile, ha promesso di mandare a New York 400 respiratori ma gli esperti dicono che ne serviranno almeno 30 mila – e per far capire a che livello sia l’ansia in città, soltanto lunedì il sindaco Bill De Blasio aveva detto che ne servono 15 mila e già quello era sembrato un numero enorme da raggiungere. “Vogliono una pacca sulla spalla per 400 respiratori? Cosa ci facciamo con 400 ventilatori? Venissero loro a scegliere i 26 mila newyorchesi che moriranno” (era così arrabbiato che ha sbagliato il conto: sarebbero 29.600). Soltanto venerdì scorso Cuomo aveva avvertito che il picco del contagio era a circa un mese e mezzo di distanza, ma ieri ha detto che potrebbe arrivare anche nel giro di due o tre settimane. “Il picco è più alto di quello che pensavamo e arriverà prima di quando pensavamo”. De Blasio ha detto la stessa cosa alla Cnn: “Se non riceviamo i respiratori questa settimana, la gente comincerà a morire. Aprile sarà un mese peggiore di marzo e maggio potrebbe essere ancora peggio”. Code di decine di persone si sono formate davanti agli ospedali cittadini per chiedere l’ammissione alle tende dove si fa la selezione per chi sarà sottoposto al test e chi no. Da lunedì la città è in lockdown, ma l’impressione è che le misure di contenimento siano arrivate in ritardo. Gli esperti dicono che il virus è a New York da “molte settimane” e che adesso – dopo essere stato facilitato dalla struttura stessa della metropoli e dalla vulnerabilità dei suoi abitanti – starebbe emergendo. In questa situazione, Cuomo ha detto di essere in disaccordo completo con il presidente Trump che, incurante del picco in arrivo, vorrebbe che il contenimento finisse entro Pasqua per rimettere in moto l’economia. “Quello che stiamo facendo è insostenibile, fermare l’economia e spendere soldi. Ma se chiedi al popolo americano di scegliere tra la salute pubblica e l’economia non c’è gara, nessuno vuole accelerare l’economia al costo di vite umane. Cos’è, una specie di teoria darwiniana moderna sulla selezione naturale? Se non ce la fai devi metterti da una parte e morire ? Dio ce ne scampi”.

Daniele Raineri – Il Foglio – 25 marzo 2020

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Terzo mondo americano

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Manca ancora un mese e mezzo al picco dei contagi nella città di New York secondo il governatore Andrew Cuomo, ma il sistema ospedaliero della città è già in crisi adesso. Secondo il Wall Street Journal, i grandi ospedali pubblici sono rimasti senza mascherine e abiti protettivi e in alcuni casi hanno già riempito i letti dei reparti di terapia intensiva – con molto anticipo sul grosso della pandemia. Le infermiere raccontano di disposizioni d’emergenza che sanno di disperazione, come per esempio farsi durare una scatola di mascherine per una settimana (andrebbero cambiate di continuo, per non facilitare la trasmissione del virus) e della mancanza di protezioni adeguate. Trattare con i contagiati da Covid-19 è un lavoro complesso che richiede una procedura di sicurezza fatta di maschere di protezione, ambienti sterili, distruzione del materiale infetto e altro, ma è come se il sistema fosse stato colto impreparato. Eppure il primo caso americano di Covid-19 risale a gennaio, nello stesso giorno del primo caso in Corea del sud – che nel frattempo è entrata in una crisi controllata e ne sta uscendo. New York è il focolaio più attivo del virus con circa il 42 per cento di tutti i casi registrati in America – quasi cinquemila – per non parlare degli asintomatici o degli infetti ancora in incubazione che, come sappiamo, possono essere molti di più. C’è anche un problema enorme e a suo modo misterioso di rilevazione: i test vanno a rilento, la nazione più avanzata del mondo è molto indietro con i tamponi – e quindi c’è da pensare che stia sottostimando le dimensioni del contagio. Il numero dei posti di terapia intensiva nell’area di New York è circa tremila, 777 sono già occupati e se la crescita esponenziale continua di questo passo gli altri saranno terminati in dieci giorni nella città che conta più di otto milioni di abitanti. “Stiamo prendendo botte – dice al Wsj Mangala Narasimhan, una dottoressa del Long Island Jewish Medical Center, che fa parte del più grande plesso ospedaliero di New York – Sono quindici anni che lavoro nel reparto di terapia intensiva e non avevo mai visto nulla di simile”.

Il governatore Cuomo dice che nei prossimi giorni serviranno “decine di migliaia di posti in terapia intensiva”. Il Pentagono ha promesso che manderà una nave ospedale, la USNS Comfort, nel porto di New York per aiutare – ma ci vorranno almeno due settimane perché adesso è ancora nella base di Norfolk in manutenzione. Dopo tre giorni in cui la notizia sembrava imminente, ieri lo stato di New York ha detto (“ha detto”, non ha ordinato) a tutti i cittadini di restare a casa e ha detto a tutti i negozi e le attività non essenziali di lasciare i propri lavoratori a casa. La regione va con molto ritardo verso una versione debole dello stato di quarantena imposto in Italia, che a sua volta è una versione debole dello stato di quarantena durato per cinquanta giorni a Wuhan, in Cina. A Wuhan – che è più grande e ha undici milioni di abitanti – il picco dei nuovi casi di contagio è arrivato quando la città era già isolata da un mese. Se il virus dovesse manifestarsi a New York con la stessa potenza che si è vista nella città cinese ci sarebbero molti più morti, con la differenza che la crisi era ampiamente prevedibile. Ma si insiste con l’approccio progressivo. Nel frattempo dall’altra parte degli Stati Uniti la California ha ordinato ai 40 milioni di abitanti di restare a casa. Il governatore Gavin Newsom ha spiegato nel suo discorso che nelle prossime otto settimane circa 25 milioni di californiani potrebbero essere infettati e quindi “vi dico quello che dico alla mia famiglia: restate a casa. Un giorno ci guarderemo indietro e capiremo quanto è stata importante questa decisione”. Newsom parlava da uno speciale centro per le emergenze a Sacramento che di solito è usato durante gli incendi e i terremoti. Nel sistema federale americano, la responsabilità di ordinare il lockdown è lasciata ai singoli governatori – in alcune parti del paese arriverà prima, in altre forse no, e questo ne diminuisce l’efficacia. In generale, dopo un periodo iniziale di smarrimento, sia la Cina sia l’Italia hanno mostrato un grado di allerta, efficienza e organizzazione che negli Stati Uniti non si vede da nessuna parte. Il paese ha i centri di eccellenza medica migliori del mondo, ma in una pandemia conta la risposta media e diffusa e quella non sta funzionando. Una settimana fa un’università norvegese ha chiesto ai propri studenti di tornare in patria a causa della pandemia e di lasciare “i paesi con infrastrutture pubbliche poco sviluppate come l’America” e non suona come un’esagerazione.

Daniele Raineri – Il Foglio = 22 marzo 2020

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Pandemia più crisi economica globale

Il presidente russo, Vladimir Putin, approfitta della crisi coronavirus nel mondo per colpire i rivali americani e sauditi nella guerra del petrolio e innesca un crollo devastante dei mercati. Da tempo la Russia cercava un modo per far pagare agli americani il regime punitivo imposto contro le compagnie russe. L’Amministrazione Trump a dicembre ha colpito con sanzioni la costruzione del gasdotto Nord Stream 2, che avrebbe dovuto collegare la Siberia alla Germania, quando mancavano ormai soltanto poche settimane alla fase finale. Poi tre settimane fa ha aggiunto sanzioni anche contro Rosneft, il gigante del petrolio russo, perché fornisce greggio al Venezuela di Nicolas Maduro. I russi volevano una rappresaglia contro le sanzioni e la crisi del coronavirus ha offerto loro l’occasione giusta. Il rallentamento del traffico globale a partire dalla Cina soffocata dal virus ha diminuito di molto la domanda di petrolio a partire da febbraio – la Cina ne sta chiedendo circa il venti per cento in meno. L’Arabia Saudita, che come si sa è uno dei maggiori produttori, aveva chiesto alla Russia di accettare un accordo per tagliare la produzione e in questo modo tenere alto il prezzo del barile. Ma al vertice Opec Plus di venerdì al quartier generale dell’organizzazione a Vienna il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, ha respinto per l’ultima volta la richiesta davanti al ministro saudita Abdelaziz bin Salman. Doveva essere un incontro per trovare un accordo, si è trasformato nel preludio della crisi di ieri. Se sauditi e russi non trovano un accordo per tagliare la produzione il prezzo del petrolio cala di molto e i primi a soffrire sono gli americani, perché loro hanno moltissimo greggio però lo estraggono dalle rocce con una tecnica costosa che si chiama fracking. Quando il prezzo scende troppo, vicino ai venticinque dollari al barile – e ieri il barile di petrolio costava 30 dollari, meno del barile vuoto – l’estrazione non è più conveniente per gli americani, vanno in perdita. Certo, anche i russi che spingono al ribasso vanno in perdita, ma è un sacrificio che sono disposti a fare in questa guerra del petrolio pur di punire gli avversari. Il ministero delle Finanze russo ieri ha fatto sapere di poter sostenere il prezzo del petrolio tra 25 e 30 dollari al barile per un periodo di tempo tra i sei e i dieci anni, che è un segnale chiaro di sfida. Dopo il fallimento del vertice di venerdì a Vienna, il crollo del prezzo è arrivato subito ieri in pochi secondi all’apertura dei mercati asiatici, a un livello che non si vedeva dai tempi della Prima guerra del Golfo nel 1991 e che poi non si era più visto nemmeno dopo gli attacchi dell’11 settembre. 

I sauditi hanno reagito con le brutte maniere alla sfida russa. Stanno vendendo ai clienti cinesi petrolio scontato fino a 6-7 dollari al barile e per compensare la perdita di ricavi derivata da questi sconti hanno aumentato di botto la produzione di due milioni di barili al giorno. In pratica i russi vogliono tenere il prezzo basso per far soffrire gli americani e i sauditi lo vogliono spingere ancora più in basso per far soffrire i russi. C’è una foto che circola del dopo incontro di Vienna e mostra la bandierina russa vicina alla poltrona del ministro Novak rovesciata e sembra che il principe saudita lasciando la stanza abbia detto: “Questo è un giorno di cui ci pentiremo tutti quanti”. Dev’essere stato un confronto molto ostile. 

La Russia da tempo corteggiava l’Arabia Saudita in cerca di investimenti e di un’alleanza, ma la crisi da virus era un’occasione troppo facile per non approfittarne e Mosca considera i regnanti sauditi troppo vicini all’Amministrazione Trump per riuscire a cambiare le cose ora. Questa guerra del petrolio arriva mentre il principe ereditario al trono, Mohammed bin Salman, combatte la sua guerra personale contro gli altri principi, che lui sospetta vogliano fare un golpe per prendere il suo posto. Sabato ha fatto mettere ai domiciliari i suoi rivali più diretti, e più vecchi, e questo ha innescato tutta una serie di rumors sul fatto che il re stesse per morire e lui volesse rafforzare il suo diritto alla successione con manovre, diciamo, preventive. 

Se alla corsa al ribasso tra russi e sauditi si aggiunge il rallentamento globale della domanda, in teoria il prezzo del petrolio dovrebbe scendere di molto e a lungo. Un tempo sarebbe stata una buona notizia, ma l’economia italiana non ne avrà grossi benefici perché è all’inizio della crisi da virus.

Daniele Raineri - Il Foglio - 10 marzo 2020

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