Il primo a capire tutto

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All’inizio di gennaio un funzionario importante e relativamente giovane dell’Amministrazione Trump, Matthew Pottinger, fece una telefonata a un suo contatto, un epidemiologo di Hong Kong. Il contenuto della conversazione era allarmante e riguardava un’epidemia molto simile alla Sars del 2003, che partiva dalla città di Wuhan ed era molto più veloce di quanto il governo cinese ammettesse. La trasmissione avveniva anche da soggetti che non presentavano sintomi – un dettaglio allora era poco conosciuto – e il virus presto sarebbe arrivato in altre parti del mondo. Pottinger era il migliore per capire l’allarme. Aveva lavorato come corrispondente in Cina per il Wall Street Journal durante l’epidemia di Sars e oggi è il responsabile per il settore Asia del Consiglio per la sicurezza nazionale dentro all’Amministrazione Trump. Nella ricostruzione dettagliata che il New York Times ha pubblicato domenica per spiegare che il presidente americano “non poteva non accorgersi” della pandemia in arrivo, Pottinger è il primo a capire che cosa sta per succedere ed è il primo a fare pressione su Trump perché reagisca. I primi rapporti della Cia sull’epidemia cinese non hanno molte più informazioni di quelle che si trovano sui media, ma a metà gennaio un esperto di epidemiologia del dipartimento di Stato scrive una relazione molto informata per il capo dell’intelligence nazionale e un altro ufficio, il Centro nazionale per l’intelligence medica, che fa parte dell’intelligence militare, arriva alle stesse conclusioni. “Gli angoli più specializzati del mondo dell’intelligence – scrive il New York Times – stavano producendo rapporti sofisticati e raggelanti”. Pottinger a metà gennaio comincia a tenere una riunione al giorno sull’epidemia cinese al Consiglio per la Sicurezza nazionale. Il problema è che l’Amministrazione Trump è divisa sulla questione. Da una parte c’è la fazione capitanata da Steven Mnuchin, il segretario al Tesoro, che lavora da tempo al grande accordo commerciale tra Cina e America – che dovrebbe diventare un pilastro della rielezione di Trump. Dall’altra c’è Pottinger, che è considerato un falco anche se una fonte obamiana in un pezzo del sito Politico lo definisce “mainstream” sulla Cina. Pensa che sia un regime revisionista che vuole modificare i rapporti di forza in Asia e nel mondo e che menta spesso. Il presidente diventa un pendolo che oscilla un po’ di qui e un po’ di là. Quando a gennaio decide di chiudere ai voli dalla Cina è per la spinta di Pottinger. Così come quando descrive la malattia come il “Wuhan virus” oppure il “China virus”, per implicare una responsabilità del regime cinese (cosa che l’Organizzazione mondiale della sanità ha scelto deliberatamente di evitare). Quando Trump scrive su twitter che vuole lavorare assieme al leader cinese Xi Jinping oppure che è necessario riaprire tutto al più presto è invece l’altra fazione che prevale nel gioco delle spinte. Pottinger fa telefonate alla Cia perché cerca la conferma di un suo sospetto, crede che l’epidemia sia il risultato di qualche errore in un centro di ricerca cinese e quindi non di uno spillover casuale da animale a uomo. Ma l’intelligence risponde che non ha le prove, non ha visto o intercettato segnali che possono fa pensare a un allarme partito da dentro qualche settore di ricerca del governo cinese. E’ interessante perché Pottinger ha lavorato nell’intelligence militare, dove si procede con metodo, e due settimane fa un giornalista del Washington Post, David Ignatius, pure lui con entrature nel mondo dell’intelligence, ha scritto un pezzo sibillino per dire che non è necessario credere a un virus studiato come arma biologica dai cinesi (come vogliono le teorie del complotto più cruente) ma che è ben possibile che il centro di ricerca cinese a bassa sicurezza di Wuhan che lavora anche a catalogare i diversi virus ospitati dai pipistrelli abbia commesso qualche errore nel maneggiarli. Ignatius, che è quanto di più lontano ci può essere dal mistificatore di notizie, scrive che la versione che vorrebbe l’epidemia nascere dal mercato del pesce è già stata smentita e quindi c’è un vuoto da riempire. Diciamolo ancora una volta, a scanso di equivoci: per ora non c’è alcun elemento reale. La posizione di falco anti Cina di Pottinger è un risultato delle sue esperienze. Parla il cinese mandarino, è stato corrispondente in Cina – con tutte le conseguenze e le molestie da parte dei teppisti pro regime, incluso un pugno in faccia mentre era da Starbucks a Pechino – ma nel 2004 si arruolò nei marines (dopo aver visto il video di un americano decapitato in Iraq). Fu piazzato nell’intelligence militare, dove fece esperienza. Non è un trumpiano, nel senso che non è un fanatico, e come tutti dentro l’Amministrazione è alle prese con un presidente che un po’ ascolta e un po’ no.

Daniele Raineri – Il Foglio – 15 aprile 2020

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La tregua del greggio

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Ieri c’è stato un incontro (in teleconferenza, per evitare contagi da coronavirus) molto atteso dell’Opec Plus, l’organizzazione che raccoglie i paesi produttori di petrolio più altri dieci paesi che non ne fanno parte ma si aggregano per decidere il prezzo e le quantità da estrarre. L’attesa era dovuta al fatto che c’è una guerra del prezzo fra sauditi e russi – entrambi spingono verso il basso il prezzo del greggio e questa è una situazione insostenibile per molti paesi – e l’incontro doveva servire ad arrivare a una tregua. In molti chiedevano un compromesso fra i due combattenti, anche perché tutti gli indicatori del mercato avvertono che c’è un disastro in arrivo: il mondo colpito dal coronavirus si è fermato e non ha bisogno più di tutto il petrolio che consumava prima. Nel momento in cui questo giornale va in stampa, l’accordo parla di un taglio di otto milioni e mezzo di barili a testa per russi e sauditi, che è qualcosa ma non è il taglio più sostanzioso che ci si aspettava e potrebbe non essere sufficiente a far rialzare il prezzo. In pratica, i depositi di greggio sono già così pieni che la produzione dovrà rallentare nei prossimi mesi perché è inutile estrarre greggio se non sai più dove stoccarlo. Il 6 marzo la Russia aveva provato a infliggere ai produttori americani di greggio un colpo devastante, ma di fatto il tentativo non ha avuto successo e ieri Mosca ha dovuto fermare la guerra dei prezzi che andava avanti da un mese. Andiamo con ordine. L’attacco russo ai produttori americani non era un colpo diretto, ma un colpo di sponda e funzionava in questo modo: i russi rompono l’accordo con i sauditi che teneva più o meno alto il prezzo del greggio, allora i sauditi cominciano a mettere sul mercato tantissimo petrolio (perché se il prezzo è basso devono guadagnare con la quantità) e questo fa scendere ancora di più il prezzo del greggio, che infatti è arrivato attorno ai venti dollari. I produttori americani di petrolio guadagnano dal loro lavoro soltanto quando il prezzo del petrolio è superiore a quota cinquanta dollari al barile, perché sono costretti a usare una tecnica che si chiama fracking e permette loro di estrarre greggio dai grandi depositi di rocce bituminose presenti in America – lo shale oil. Quando russi e sauditi hanno cominciato la guerra al ribasso, le grandi compagnie americane che guadagnavano con lo shale oil si sono trovate di colpo fuori mercato. Per loro è impossibile lavorare a questi prezzi. I russi hanno scatenato questo attacco quando hanno visto che il prezzo del greggio stava calando a causa del rallentamento dell’economia mondiale dovuto all’epidemia in Cina. Se la Cina ha bisogno di meno petrolio, il prezzo scende. Hanno pensato: è il momento buono per rompere l’accordo con i sauditi, far scendere il prezzo ancora di più e mettere fuori gioco gli americani. A dicembre l’Amministrazione Trump con le sanzioni ha bloccato di fatto la costruzione del tratto finale del gasdotto North Stream 2 – proprio all’ultimo, stava per entrare in funzione – e la Russia non vedeva l’ora di infliggere una rappresaglia al settore Energia americano. I prezzi così bassi in realtà non piacciono nemmeno ai russi, che per far funzionare la macchina statale e l’economia del paese hanno bisogno che il prezzo del greggio resti sopra ai 40 dollari al barile. Si possono permettere di andare un po’ in perdita per il gusto di far saltare il sistema americano, ma non troppo a lungo. Il problema per Putin è che la crisi coronavirus che aveva creato l’occasione per punire gli americani si è trasformata in una pandemia ed è diventata troppo grande per continuare a giocare con il prezzo del greggio. La Russia è in crisi, molto più di quanto si potesse prevedere un mese fa, e ha bisogno di entrate certe per salvare l’economia nazionale. Dalla tregua con l’Opec e con i sauditi vuole almeno ottenere, però, che anche gli americani annuncino tagli. La seconda parte di questi negoziati si svolgerà oggi, al G20 dei ministri dell’Energia.

Daniele Raineri – Il Foglio – 10 aprile 2020

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Wuhan riapre dopo 76 giorni, con l’app sui telefonini e i voli. Ma ci sono molti lati oscuri e un rapporto d’intelligence che risale a novembre

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Secondo quattro fonti della rete Abc esiste un documento dell’intelligence americana che a fine novembre avvertiva: c’è un contagio in Cina nella zona di Wuhan, sta cambiando il normale corso della vita e degli affari e gli effetti potrebbero essere disastrosi. Il rapporto si basava su intercettazioni di comunicazioni e foto satellitari e chi lo stilò era preoccupato che il contagio potesse minacciare le truppe americane di stanza nell’est asiatico, come in Corea del sud e in Giappone. Il documento fu sottoposto al Pentagono e alla Casa Bianca. E’ possibile che fosse uno delle migliaia di rapporti che ogni giorno passano per le scrivanie del governo americano e tuttavia se la notizia fosse confermata allora quello che sappiamo della pandemia va rivisto. L’inizio della storia va spostato indietro di qualche settimana e quando si parla di contagi è un lasso di tempo che conta molto. Forse il governo cinese non si accorse del virus a dicembre come vuole la versione ufficiale, ma prima. E però il resto del mondo dovette aspettare la sera del 21 gennaio per l’ammissione ufficiale che il virus poteva passare da umano a umano e quindi era un pericolo per tutti. Due giorni dopo le autorità chiusero Wuhan, la città industriale da undici milioni di abitanti che per un mese e mezzo è diventata il simbolo della devastazione portata dal virus – prima che questo ruolo passasse all’Italia. Ieri a mezzanotte dopo settantasei giorni di lockdown Wuhan è stata riaperta e migliaia di persone l’hanno subito lasciata per andare in altre zone della Cina, in autostrada, con i treni (le stime dicono 55 mila) e a bordo di cento aerei commerciali (che hanno ripreso a volare sulla città). Nelle stazioni i passeggeri mostrano a centinaia di volontari che facilitano il flusso il codice collegato alla loro identità sullo schermo del loro telefonino, che può essere di tre colori: verde, puoi andare dove vuoi, giallo vuol dire che sei stato a contatto con una persona infetta e quindi potresti essere un asintomatico e devi andare in quarantena, rosso vuol dire che sei risultato positivo al test quindi vai in quarantena. Soltanto con il verde puoi andare in giro senza problemi, superare i posti di blocco e accedere a certi edifici. Per chi vuole andare a Pechino il codice verde sul telefonino non è sufficiente. Occorre scaricare una app che ti mette su una lista e andare a fare il test di acido nucleico (che serve anche a rilevare la presenza di virus nel sangue) e il test del Covid-19. Se si passano entrambi i test si può prendere il treno per Pechino – ma soltanto mille al giorno per ora, non di più. Wuhan è la prima città a uscire dal lockdown e nel resto del mondo la guardiamo per capire come saranno le nostre giornate quando le misure restrittive finiranno. E’ possibile che anche in Italia avremo una app sul telefonino che regolerà la nostra esistenza quotidiana di possibili vettori di un virus – in un paese che tenterà di tenere sotto controllo la pandemia e di far ripartire l’economia. Le sole pistole misura febbre che si vedono adesso in giro sono una schermatura troppo rudimentale, fermano soltanto chi ha la febbre alta. A Wuhan oltre alle mascherine dappertutto si vedono grandi barriere gialle che separano l’ingresso dei negozi dalla strada, i passanti si inerpicano da un lato per chiedere ai commercianti dall’altro lato della barriera cosa vogliono acquistare. La riapertura della metropoli ha un lato oscuro. Le autorità hanno emesso una nota venerdì scorso per dire che anche se gli spostamenti in città e verso l’esterno diventano di nuovo legali e consentiti molti lockdown locali nelle aree residenziali restano in vigore e le scuole non riapriranno perché la situazione è ancora preoccupante. Un funzionario ha detto al corrispondente del Wall Street Journal che in un quartiere hanno trovato “quattro, cinque asintomatici” come parte dei controlli per ammettere di nuovo le persone nei luoghi di lavoro. Il risultato è che le aree residenziali degli asintomatici sono state di nuovo chiuse. Un giornale lunedì ha scritto che ci potrebbero essere tra i diecimila e i ventimila asintomatici a Wuhan, ma l’articolo online è stato tolto dal sito. E ci sono sospetti forti che i numeri ufficiali dei morti e dei contagiati, 2.571 e circa 50 mila, siano molto più bassi di quelli reali.

Daniele Raineri – Il Foglio – 9 aprile 2020

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