Un grazie agli amici russi per gli aiuti e un consiglio spassionato al generale Konashenkov, che vuole occuparsi dei giornali italiani

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Oggi faremo un esercizio difficile in questi tempi di propaganda in bianco e nero per ritardati. Proveremo quindi a dire due cose che sembrano in contraddizione tra loro ma non lo sono. La prima è questa: grazie amici russi per gli aiuti umanitari all’Italia in questo momento di gravissima difficoltà, ogni dimostrazione di vicinanza è benvenuta. La seconda è questa: generale Konashenkov non rompa i coglioni su quello che c’è scritto oppure non c’è scritto sui giornali italiani. E’ una cosa che non compete alla Difesa russa. Se ci sono articoli sulla stampa del nostro paese che non soddisfano Mosca ci sono molti meccanismi per ottenere una rettifica e anche risarcimenti. Fare i bulli internazionali e parlare di complotti e di gente che si scava la fossa non è tra questi. La ragione di quanto appena detto dovrebbe essere chiara, ma siccome in questi tempi non è chiaro nulla proviamo a spiegare. Cosa succederebbe se domani la Commissione europea a Bruxelles – che non viene proprio trattata con i guanti bianchi dalla stampa italiana – dicesse che un giornalista italiano dovrebbe stare attento a non cadere nella fossa che si sta scavando? Oppure lo dicesse la Germania, che trasporta con i suoi aerei alcuni malati italiani in reparti di terapia intensiva negli ospedali tedeschi per alleggerire il carico degli ospedali italiani? Ecco, ci siamo capiti. E se il Pentagono reagisse a un articolo con una nota che dice: “Lo senti questo ronzio sopra la redazione? Magari è un drone”. E anche la Turchia di Erdogan ha mandato aiuti all’Italia. Non servono altri esempi. Noi qui non si crede all’eccezionalismo russo, la convinzione che i russi in fondo siano esentati dalle maniere civili perché sono russi e quindi coraggiosi e brutali e spavaldi. Le note ufficiali in un paese amico anche in caso di protesta vanno fatte senza toni che possano ricordare anche soltanto da lontano una telefonata di camorra (e se non le sappiamo cogliere noi, queste sfumature). Se poi alla Difesa russa vogliono sapere perché sulla stampa italiana appaiono articoli che esaminano la presenza di cento soldati russi è presto detto. In questi anni ci sono stati casi di prese in giro che hanno logorato la credibilità delle relazioni fra la Russia e l’Europa. Ricordate i due agenti dell’intelligence militare russa che furono registrati dalle telecamere della stazione di Salisbury, dove erano andati ad avvelenare un disertore russo nel marzo 2018? Dissero che erano andati come turisti. E quando gli chiesero perché erano rimasti così poco in città risposero che c’era troppa neve. Due militari russi. A marzo vicino Londra. Troppa neve. E che dire del rapporto del 16 marzo dell’Unione europea che avverte che la Russia sta diffondendo notizie false sulla pandemia per destabilizzare i paesi europei e rendere più complicata la gestione della crisi? Grazie, ne faremmo volentieri a meno visto che già senza fake news stentiamo a capirci qualcosa. Potremmo andare avanti. Ricapitoliamo. In un momento nel quale le risorse mediche servono a tutti, la Russia ne ha mandato una quantità in Italia. Ci sono state risposte piene di entusiasmo e di gratitudine da parte di molti italiani. Proprio come con il carico di aiuti spedito tre giorni fa in America – ma il dipartimento di stato americano non parla di aiuti russi, parla di “purchase”: acquisto – c’è il sapore di un’operazione di propaganda della Russia ma le crisi sono crisi e non si va troppo per il sottile. Stava funzionando. E invece arrivano le minacce contro la stampa italiana.

Daniele Raineri – Il Foglio – 4 aprile 2020

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Trump guarda i sondaggi e cambia di nuovo idea: prima le vite poi il business

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Il presidente americano, Donald Trump, ha cambiato di nuovo idea e adesso vuole seguire lo stesso modello adottato negli altri paesi per contenere la pandemia: soppressione, quindi si sta il più possibile a casa e quasi tutte le attività produttive vanno in coma. I contatti dei giornali dentro all’Amministrazione spiegano che il presidente ha cambiato idea perché ha visto che secondo i sondaggi gli americani sono d’accordo con la linea della soppressione e mettono in secondo piano le necessità dell’economia. I rapporti degli esperti che da settimane avvertono Trump del rischio di milioni di morti per l’effetto combinato del virus e della saturazione degli ospedali non avevano per ora avuto alcun effetto e il presidente, scocciato perché la pandemia colpisce l’economia e quindi il suo grande argomento in campagna elettorale, aveva appena promesso che a Pasqua il paese avrebbe riaperto. Del fatto che una fine prematura delle misure di soppressione e una riapertura troppo in anticipo avrebbe vanificato gli sforzi contro il contagio che ormai è fortissimo fra gli americani – gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per numero di positivi al test – non gli importava nulla. I megafoni del trumpismo avevano già cominciato una campagna di disinformazione sui media e sui social, per dire che il rischio è gonfiato e che l’economia non deve fermarsi. Si trattava di una campagna ottusa – e come poteva essere altrimenti? Uno dei propagandisti è arrivato a citare il lento miglioramento dei dati in Italia come segno che il virus è un fenomeno passeggero, senza però dire che il lento miglioramento in Italia è dovuto al fatto che siamo alla terza settimana di lockdown. Così Trump adesso ha cambiato idea ed è d’accordo con la strategia della soppressione, perché è quella che gli americani vogliono. Poco più di un mese fa continuava a dire che il virus entro aprile si sarebbe dissolto “come per miracolo” e che il contagio era “sotto controllo”. “Abbiamo quindici casi di Covid19 – disse in conferenza stampa – ed entro pochi giorni scenderanno a zero”, senza capire che la trasmissione tra asintomatici è un meccanismo perfido e quindi se ci sono quindici casi conclamati è possibile che nel giro di pochi giorni diventeranno mille e non zero. Poi dieci giorni fa era uscito dal ruolo del gran minimizzatore, perché intanto i numeri diventavano catastrofici e le metropoli americane si stavano trasformando in altrettante Wuhan, vedi New York e prossimamente le città del nord dove la curva del contagio è pessima. Con un voltafaccia spregiudicato, si era nominato “presidente di guerra” durante le trasmissioni domenicali e aveva invitato gli americani “a combattere uniti”. Due giorni dopo però c’era stata un’altra svolta e aveva cominciato a dire che “la cura potrebbe essere peggiore della malattia” e quindi va bene la soppressione, ma non più in là di Pasqua – quindi non più lunga di due settimane. Gli esperti avevano protestato molto perché le misure restrittive per funzionare hanno bisogno di tempo, soprattutto se sono adottate in ritardo come è successo negli Stati Uniti. Ma secondo il resoconto che ne danno le fonti, a convincere Trump a cambiare di nuovo linea è stato il combinato disposto dei sondaggi che premiano la strategia della soppressione fino a quando serve e dei rapporti degli esperti che dicono che riaprire prima il paese avrebbe effetti disastrosi. Trump ha allungato il periodo delle restrizioni fino alla fine di aprile e ha detto che potrebbero persino “diventare un po’ più dure”, anche se non dure come quelle in vigore a New York oppure in California dove i residenti hanno l’ordine di non uscire di casa. Al briefing di lunedì ha pure detto che per lui “l’economia è la preoccupazione numero due, al primo posto c’è salvare molte vite”. E poi, come nota il New York Times, è tornato a ripetere che senza misure restrittive il numero delle vittime da Covid-19 in America avrebbe potuto essere di due milioni – e così ha messo la barra molto in basso per chi volesse giudicare la gestione della crisi. Qualsiasi numero sotto i due milioni sarà una vittoria.

Daniele Raineri - Il Foglio - 1 aprile 2020

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La rappresaglia di Dio

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La crisi globale da coronavirus funziona come un accelerante per altre crisi, a cominciare da quella di sicurezza in medio oriente – dove lo Stato islamico approfitta della situazione. In Siria per la seconda volta in due settimane c’è stata una rivolta con evasione dalla prigione di al Hasaka, dove sono rinchiusi cinquemila uomini del gruppo. Ieri i jet americani volavano a bassa quota sopra la zona allo scopo di intimidire le cellule di terroristi che sono tentate di avvicinarsi al carcere per aiutare i loro compagni. La prigione di massima sicurezza in realtà è soltanto un istituto tecnico riadattato come si poteva, con le aule trasformate in celle collettive, ed è un luogo incredibilmente precario se si considera il ruolo cruciale che ha: contenere i combattenti stranieri più fanatici – inclusi quelli europei – e impedire loro di tornare a fare quello che facevano, quindi, ad aggredire il resto del mondo. I curdi fanno quello che possono per tenere sotto controllo la situazione, ma quello che possono non è abbastanza. Hanno circondato l’area e dicono di avere ripreso quattro evasi, ma nella pandemia abbiamo perso anche le informazioni affidabili e nessuno sa con precisione cosa sta succedendo. Dieci giorni fa lo Stato islamico ha teorizzato sul suo bollettino settimanale che la pandemia è una decisione di Dio per infliggere tormenti agli infedeli, che assorbirà le risorse delle loro nazioni e la loro attenzione. La crisi, dicono, deve essere sfruttata dai combattenti e come prima cosa nella loro lista dei desideri hanno messo: attaccare le prigioni e liberare gli altri fanatici per riformare le colonne armate di un tempo. Da settimane i simpatizzanti del gruppo sui social media festeggiano l’aggravarsi della pandemia che, notano, è partita prima dalla Cina che imprigiona milioni di musulmani poi è dilagata nell’Europa infedele che ha collaborato nella guerra allo Stato islamico e ora è arrivata con effetti devastanti negli Stati Uniti, che sono i responsabili maggiori della disfatta del Califfato. Il gruppo terrorista ha molto da rallegrarsi per questa supposta rappresaglia di Dio, perché l’anno scorso ha subìto una serie di tracolli quasi definitivi. Prima la capitolazione territoriale a Baghouz, proprio un anno fa, poi la morte del leader Abu Bakr al Baghdadi. Secondo una fonte del Foglio, il successore di Baghdadi, Abu Ibrahim al Qureshi, sarebbe stato fatto prigioniero nella zona di Idlib in Siria dai combattenti di Hts che è la sigla che indica un altro gruppo di fanatici. Questa notizia, che un tempo avrebbe scatenato mille speculazioni, per ora resta nel limbo delle dicerie che non si possono verificare. Si capisce però che nella nebbia delle brutte notizie i terroristi vedano nel Covid-19 un segno provvidenziale.

Se in Siria la situazione è critica, quasi lo stesso vale per l’Iraq dove la presenza delle truppe internazionali si sta riducendo di molto. I contingenti di addestratori, inclusi gli italiani, stanno lasciando il campo e la motivazione ufficiale spiega che lo fanno “temporaneamente” e per colpa della pandemia. In realtà quel temporaneamente è probabile che diventi un “per sempre” e la pandemia potrebbe coprire la vera ragione di nervosismo dei comandi militari, che è la possibilità di uno scontro imminente in Iraq fra le truppe americane e il gruppo filoiraniano Kataib Hezbollah. L’Amministrazione Trump vorrebbe cominciare una campagna contro i miliziani perché li ritiene il braccio locale della politica aggressiva del regime iraniano, ma ci sono alcuni elementi che frenano il via libera – fra questi la pandemia, che ha colpito in modo durissimo gli Stati Uniti. Così per ora, mentre le altre truppe si preparano ad andare via, i soldati americani hanno abbandonato alcune basi e si sono riposizionati in altre, più difendibili. Ma tra le basi abbandonate c’erano anche postazioni molto importanti nella guerra contro lo Stato islamico, come per esempio Kirkuk – dove a novembre i terroristi hanno ferito cinque incursori italiani – oppure al Qaim, che è al confine tra Iraq e Siria e faceva da sentinella per il viavai attraverso il confine nella regione di Mosul, che è infestata dallo Stato islamico (ricordiamo la battaglia di nove mesi per liberare la città nel 2017). Quando gli americani vanno via si portano dietro tutte le loro capacità – intelligence, sorveglianza elettronica, droni – che sono di grande aiuto per le forze irachene. Così, è come se gli iracheni perdessero i loro “radar anti Isis” nei luoghi dove il rischio di un ritorno è più forte. Tutto questo riposizionarsi degli americani in Iraq in vista di una possibile campagna contro i filoiraniani potrebbe spalancare ampi spazi incontrollati davanti allo Stato islamico. Davvero per il gruppo terrorista il virus è una benedizione – come del resto qualsiasi fattore che aumenti il caos e indebolisca l’ordine delle cose.

Daniele Raineri - Il Foglio - 31 marzo 2020

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