L’America e il centro perduto

Sugli Stati Uniti in questa fase elettorale si possono fare due considerazioni generali. La prima è che, nonostante certi diffusi timori, le molte forzature istituzionali compiute da Donald Trump da quando è presidente non faranno decadere la democrazia americana. Le istituzioni di quel Paese sono più forti di colui che occupa temporaneamente quella carica. Trump, molto probabilmente, non riuscirà a piegarle più di tanto. Possiamo ragionevolmente pensare che, a meno di catastrofi oggi inimmaginabili, fra trenta o quarant’anni ci sarà ancora la democrazia americana. Non sarebbe prudente esibire altrettanto ottimismo a proposito di certe democrazie europeo continentali, italiana inclusa.

La seconda considerazione è che se è giusto che gli europei seguano con interesse la contesa elettorale americana data l’influenza che le decisioni dei presidenti degli Stati Uniti hanno sulle nostre vite, è segno di ingenuità politica «tifare» per questo o quel candidato prescindendo da considerazioni sulle conseguenze che avrebbe la vittoria dell’uno o dell’altro per l’Europa. Tali considerazioni, soprattutto, dovrebbero orientare i giudizi degli europei.

Prendiamo il caso di un europeo che non sia nemico del mondo occidentale, che non sia un simpatizzante di Putin, che non desideri sfasciare Nato e Unione europea.

Un tale europeo non dovrebbe sperare nella riconferma del nazionalista Trump, con i suoi dazi commerciali contro l’Europa «nemica», la sua tentazione di mandare all’aria la Nato, eccetera (come ci ha ricordato Federico Fubini sul Corriere di ieri). Ma non dovrebbe nemmeno tifare per la conquista della nomination democratica da parte del socialista Bernie Sanders. Non solo perché costui non avrebbe nessuna probabilità di vincere contro Trump. Ma anche perché se uno scherzo del destino lo portasse alla Casa Bianca gli effetti sugli equilibri internazionali sarebbero pessimi. La sua medicina contro le disuguaglianze interne consisterebbe in dosi massicce di statalismo che frenerebbero la crescita dell’economia statunitense con conseguenze negative anche per noi. Inoltre, la sua politica estera, ispirata agli ideali del radicalismo americano, improntata alla passività, lascerebbe il mondo (ancor più di quanto non abbiano fatto, con stili diversi, Obama e Trump) in balia dei tanti squali assetati di sangue che ci girano intorno.

Agli europei, insomma, conviene che vinca un «centrista», uno che metta da parte il nazionalismo trumpiano e riprenda, sia pure con gli adattamenti che le nuove circostanze richiedono, quel cammino internazionalista (basato, prima di tutto, su uno stretto legame con l’europa) che l’america imboccò dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Ma, come ha osservato Alberto Alesina (Corriere del 15 febbraio), al momento Trump resta il favorito. Per l’andamento dell’economia, soprattutto. Difficile che venga battuto. Ma non impossibile.

Chi potrebbe sconfiggerlo? Le primarie democratiche che si sono fin qui tenute ci dicono che i moderati di quel partito sono in vantaggio fra gli elettori rispetto ai socialisti/radicali ma non è ancora emerso un candidato moderato davvero convincente. Si avvia al tramonto la candidatura di Joe Biden mentre la prova di Pete Buttigieg è stata fin qui buona ma non travolgente. Forse è vero che le residue speranze dei democratici di battere Trump sono legate alle sorti future dell’ex sindaco di New York e magnate Michael Bloomberg.

Vedremo se la sua strategia di entrare nel gioco delle primarie solo quando si voterà nei grandi Stati risulterà vincente.

Poniamo che davvero Bloomberg ottenga la nomination democratica e che poi riesca a battere Trump. Una cosa possibile soprattutto se venisse presentato agli elettori un ticket presidenziale politicamente forte (vice-presidente designato Buttigieg oppure l’astro nascente Amy Klobuchar, la senatrice del Minnesota). Come pensate che reagirebbero allora tutti quegli europei che hanno fin qui manifestato ostilità nei confronti dell’attuale presidente?

Distinguerei fra i veri, sinceri, antipatizzanti di Trump e quelli finti. I primi applaudirebbero, sarebbero felici per la sconfitta dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Benché i programmi di Bloomberg siano al momento nebulosi (si veda Giuseppe Sarcina sul Corriere di ieri), ci sarebbe la ragionevole speranza di un cambiamento nei rapporti fra Stati Uniti ed Europa. I secondi invece, i finti antipatizzanti di Trump, avrebbero una differente reazione. Ricordiamo che all’epoca delle precedenti elezioni, gli amici europei di Putin (e sono tanti) erano tutti ostili a Hillary Clinton e – sia pure senza sbandierarlo troppo – favorevoli a Trump. Sapevano che con il presidente oggi in carica le istituzioni occidentali – come poi è effettivamente accaduto – avrebbero vacillato vistosamente.

A causa di Trump, qui in Europa negli ultimi anni, i filoamericani (ma contrari a Trump) e gli antiamericani si distinguevano a fatica. Se Trump venisse sconfitto, allora la divisione fra filo e antiamericani riesploderebbe con forza. Gli antiamericani manifesterebbero improvvisamente «orrore e raccapriccio» nei confronti del plutocrate Bloomberg, stigmatizzerebbero il ruolo svolto dal suo personale patrimonio nella campagna presidenziale. La vis anticapitalista di tanti europei, componente essenziale del loro antiamericanismo, troverebbe in Bloomberg un nemico perfetto contro cui sfogarsi. Rimpiangerebbero, per ragioni politiche, Trump (nonostante che anch’egli sia ricco). Bloomberg, infatti, a differenza di Trump, riaffermerebbe, presumibilmente, la leadership americana ridando vigore alle tradizionali alleanze. Con Trump era difficile urlare «yankee go home» visto che era proprio quello il suo programma politico. Con Bloomberg il vecchio slogan tornerebbe di moda.

Nell’era Trump si sono aggravati i problemi delle democrazie europee, il declino della leadership americana da lui accelerato ha favorito o comunque non ha contrastato – all’insegna del «ciascuno per sé» – la crescita di movimenti sovranisti, con le loro tentazioni autoritarie e le nostalgie per il piccolo mondo antico, socialmente ed economicamente chiuso. Con Bloomberg il gioco cambierebbe. O, almeno, così sperano coloro che hanno a cuore le sorti della società aperta.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 18 febbraio 2020

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