Stati Generali, il governo confuso, non sa cosa fare

Gli Stati Generali che partiranno venerdì sembrano, dunque, l’ennesimo tassello di una strategia puramente comunicativa, “poi magari rimarremo sorpresi e saranno l’avvio di chi sa quale cambiamento”. Il punto, secondo Panebianco, è che “tutti sappiamo da sempre che cosa bisognerebbe fare, non c’è bisogno di Stati Generali e al limite neppure delle commissioni di esperti”. L'intervista al politologo Angelo Panebianco su Huffington Post a cura di Maria Elena Capitanio.

Angelo Panebianco: "il governo imbarca acqua da tutte le parti"

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Ma la politica non può abdicare

Non si deve passare da un estremo all’altro. Anche coloro che non capivano hanno ora appreso, nel modo più duro e tragico, la lezione secondo cui non si può fare a meno degli esperti, di coloro che dispongono di competenze specialistiche. Passare all’estremo opposto significherebbe adottare due idee ugualmente sbagliate. L’idea, in primo luogo, secondo cui gli esperti (in questo momento medici e manager dell’organizzazione sanitaria) possano sostituirsi ai politici, decidere anziché limitarsi a consigliare. La politica deve necessariamente servirsi di competenze specialistiche ma poi la decisione spetta sempre a quel particolare «esperto» (esperto in «sintesi», esperto nel prendere decisioni che si sforzino di tenere conto dei vari fattori in gioco) che è il dirigente politico, colui o colei che governa. La seconda idea sbagliata è quella di credere che la competenza settoriale (ogni competenza, per definizione, lo è) che più serve nel momento presente sia l’unica alla quale ci si debba affidare. Il governo ha fin qui utilizzato a scopo consultivo, per combattere la pandemia, un comitato tecnico-scientifico composto prevalentemente di responsabili della sanità e di medici. Era probabilmente la cosa migliore nella prima fase di questa tragedia. Ma ora che forse il picco della pandemia è stato raggiunto o sta per essere raggiunto, ora che si comincia a sperare in un ritorno a condizioni più vivibili entro qualche settimana, è forse giunta l’ora di mettere in gioco anche altre competenze, indispensabili quanto quelle degli epidemiologi, dei responsabili della sanità, degli specialisti della protezione civile. All’attuale consiglio tecnico-scientifico ora potrebbe, e forse dovrebbe, essere affiancato un altro consiglio di esperti. O, ancor meglio, il consiglio tecnico-scientifico potrebbe essere allargato e parzialmente modificato nella sua composizione per fronteggiare la seconda fase che ora forse si apre. Sono molte le competenze che, accanto a quelle degli epidemiologi e dei responsabili della sanità dovrebbero essere rappresentate in questo ipotetico comitato allargato: esso dovrebbe includere rappresentanti ed esperti indicati dalle principali categorie produttive, economisti con un’autentica conoscenza della struttura occupazionale del Paese e del sistema produttivo, specialisti dell’amministrazione che indichino le strategie per superare lacci e inefficienze burocratiche (sugli effetti negativi di quelle inefficienze ha scritto Daniele Manca, Corriere del 1° aprile), costituzionalisti che aiutino la politica a ridurre al minimo indispensabile gli «strappi» provocati dall’azione del governo nel tessuto costituzionale. Rimanendo su quest’ultimo aspetto, per esempio, un costituzionalista di rango certamente aiuterebbe il governo a presentare (meglio di quanto non si sia fatto fino a ora) le limitazioni della libertà imposte dalla pandemia come un fatto eccezionale e limitato (limitatissimo) nel tempo di cui il presidente del Consiglio – sentito il Capo dello Stato e consultata l’opposizione – si assume l’esclusiva responsabilità di fronte al Paese. Ma un consiglio consultivo così eterogeneo non finirebbe per creare confusione, incomprensioni e litigi a non finire fra i suoi componenti? Come sa per esperienza chiunque abbia fatto parte di gruppi di lavoro che mettevano insieme competenze diverse, il confronto fra specialisti differenti, di solito, obbliga ciascuno a tenere conto del punto di vista degli altri. Può essere benissimo evitato «l’effetto Babele». Perché è importante soprattutto che, nella nuova fase, il parere dei medici e dei responsabili della sanità sia bilanciato da quello dei rappresentanti delle categorie produttive e degli esperti economici? Perché si tratta di continuare a contrastare il virus senza distruggere il sistema produttivo. Si tratta di porre le basi per fronteggiare il crollo della produzione in atto e per rilanciare in breve tempo l’economia. Se si riuscisse a eliminare il virus salvando qui e ora tante vite umane ma al prezzo di non fare nulla per curare il sistema economico, il dramma si riproporrebbe a scoppio ritardato, in futuro, anche se in forma diversa. A causa del drastico impoverimento del Paese (chiusura a ripetizione di un grandissimo numero di aziende industriali e commerciali) . Anche le malattie causate dall’indigenza sono in grado di uccidere le persone. Ora il problema è che la classe politica italiana, in una sua grande parte, non è solo (come ha il diritto di essere) ignorante in materia di epidemie e dei modi per arginarne gli effetti. Spesso ignora anche (qui, invece, non ci sono scusanti) come funzioni un’economia di mercato, che cosa sia davvero un sistema produttivo. In Italia tanti di coloro che fanno parte della classe politica sono stati indottrinati contro il mercato fin da quando andavano a scuola. Non pochi sono i nemici della società industriale, quelli che auspicano una radicale de-industrializzazione del Paese. Ci sono anche quelli che, pur non pregiudizialmente ostili, sono comunque ignoranti in materia di processi produttivi. Basti pensare a cosa sono stati capaci di combinare nel caso dell’Ilva. La massiccia immissione di denaro che deve alleviare gli effetti dell’attuale blocco delle attività produttive può servire a rimettere in moto il sistema economico oppure può essere impiegato per scopi improduttivi. Può servire per rilanciare produzione e lavoro, per aprire un nuovo ciclo di crescita economica, oppure può servire (come qualcuno ha già proposto) per imporre una sorta di reddito di cittadinanza universale. Faremmo la fine del Venezuela. Nelle prossime settimane e mesi assisteremo plausibilmente a un conflitto fra opposte «filosofie economiche», fra opposte idee su come impiegare il denaro pubblico. Quel conflitto deciderà del futuro del Paese per i decenni a venire. Per questo è urgente che coloro che meglio conoscono il sistema produttivo e hanno idee su come rilanciarlo vengano ascoltati. Possibilmente, con la stessa attenzione con cui il governo (come tutti noi) ascolta i medici.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 4 aprile 2020

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Il doppio freno per il dopo

È giusto, lo si è sempre fatto. Nel mezzo di sventure collettive (guerre o pandemie) non si può non pensare al dopo, a quando tutto questo finirà. Hanno probabilmente ragione quelli che ritengono che, nonostante i duri effetti della recessione economica indotta dall’epidemia, ci sarà un nuovo inizio, un «nuovo dopoguerra», subentrerà, per qualche tempo, uno stato di diffusa euforia. Sarà forse uno stato di euforia simile quello simboleggiato dalla foto del marinaio che bacia l’infermiera a Times Square dopo l’annuncio della fine della Seconda guerra mondiale. Ciò non riguarderà purtroppo i tanti che in questa vicenda hanno perso parenti e amici. Ma, come è naturale che accada, i sopravvissuti alla catastrofe assaporeranno di nuovo il piacere di vivere. Magari nei mesi che seguiranno la conclusione dell’emergenza persino gli italiani ricominceranno a fare figli. Dopo quella della mia generazione ci sarà forse un’altra ondata di boomers (come ci chiamano i giovani). A conferma del fatto che si fanno figli non perché ci sono i «servizi sociali», si fanno figli perché si scommette sul futuro. Ci sarà un’esplosione di energia sociale oggi repressa. Un nuovo boom economico è possibile e, plausibilmente, riguarderà soprattutto i territori che hanno pagato un alto prezzo. Si chiama «effetto fenice». Però è bene stare in guardia, non cullarsi nell’idea che tutto ciò automaticamente ci riguarderà (solo perché abbiamo avuto, almeno fino ad oggi, la sventura di essere fra i più colpiti al mondo). Nelle fasi di grande ripresa economica non tutti i Paesi riescono a beneficiarne. Dobbiamo stare attenti, le nostre storiche magagne, che non sono affatto scomparse con la pandemia, potrebbero «mettersi di traverso», impedirci di beneficiare a pieno del probabile boom post-epidemia. Fra le tante cito due di queste magagne: la zavorra burocratica e l’ideologia pauperista. È sbagliato pensare che i grandi intralci che la burocrazia pone alle attività economiche siano dovuti solo all’ottusità. Ad esempio, la vera ragione per cui occorrono tempi biblici e una grande quantità di adempimenti per poter aprire un qualunque esercizio economico e poi per poterlo mantenere è che ne viene esaltato il potere discrezionale della burocrazia. È la storia italiana. Ogni volta che qualcuno ha tentato di semplificare e di velocizzare gli iter burocratici si è trovato di fronte a un muro di ostilità. I burocrati, in questi frangenti, trovano sempre coperture politico-parlamentari a propria difesa. La seconda magagna è l’ideologia pauperista la quale si nutre di ostilità nei confronti del mercato e dei produttori di ricchezza. Le sue fonti vanno cercate, in primo luogo, nelle pulsioni proprie di un certo «cattolicesimo politico» (con il quale, fortunatamente, tanti cattolici italiani, forse la maggioranza, non hanno nulla a che spartire) e, in secondo luogo, nell’azione propagandistica di coloro che cercano di sfruttare a proprio vantaggio la divisione fra Nord e Sud. Quando parlo di pulsioni del cattolicesimo politico (di una sua versione) mi riferisco ai demonizzatori del mercato. Quelli, per intenderci, che sono capaci di attribuire alla «ricchezza» la responsabilità, anzi la colpa, dell’alto prezzo che stanno pagando la Lombardia e le altre aree ricche (ossia produttive) del Paese. Per difenderci da costoro possiamo sperare nella Provvidenza ma dobbiamo anche darci da fare noi. La seconda fonte dell’ideologia pauperista è da ricercare negli arruffapopolo che giocano allo sfruttamento politico della divisione Nord/sud. Non è cosa nuova. Si pensi, ad esempio, all’attenzione e all’interesse che suscitano, da alcuni anni a questa parte, in certe aree del Sud, i nostalgici dell’età borbonica. Come sempre accade con le sventure collettive la pandemia in atto tira fuori sia il meglio che il peggio dalle persone. Ci sono esempi ammirevoli di eroismo e abnegazione fra chi cura i malati. Ma ci sono anche alcuni approfittatori, quelli che fanno leva sui peggiori istinti. In un momento in cui una prova così dolorosa crea solidarietà trasversali, fa persino emergere (o riemergere) sentimenti di appartenenza nazionale, non mancano, non possono mancare, quelli che giocano sporco. Sono coloro che dicono: guardate che differenza (a vantaggio del Sud), l’epidemia ha colpito il Nord , ha infranto il mito della sua «superiorità» in termini di buona amministrazione, senso civico, eccetera. Da questa vicenda viene fuori che siamo proprio noi del Sud quelli «virtuosi». E se verremo colpiti anche noi, più o meno duramente, sarà «per colpa» del Nord e delle sue inefficienze. Naturalmente, e fortunatamente, la maggior parte dei meridionali non abbocca di fronte a queste sciocchezze. La maggior parte di loro conosce benissimo la ragione per cui certe regioni del Nord sono state più colpite: essendo le più economicamente sviluppate del Paese avevano, prima dello scoppio della pandemia, i legami esterni (anche con la Cina) più intensi rispetto a tutte le altre. Non si tratta di difendere il Sud dal Nord economicamente più sviluppato e ricco. Si tratta di sfruttare l’occasione del possibile boom post-pandemia (e tocca proprio ai meridionali farlo) per rimuovere almeno alcuni degli ostacoli che, tradizionalmente, impediscono al Sud di generare, per sé e per tutti, più ricchezza. Insieme al peso della burocrazia, l’ideologia pauperista è un potente ostacolo con cui dovremo fare i conti quando finalmente tornerà il sereno. Non è detto che riusciremo ad averne ragione. Ma sapere chi sono i propri nemici aiuta talvolta a sconfiggerli.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 27 marzo 2020

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