Trump: sarà un successo restare sotto i 100 mila morti

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Domenica Trump aveva pro messo di aiutare l'Italia, e ieri ha parlato al telefono col premier Conte. I due leader hanno ribadito l'impegno a lavorare insieme per sconfiggere il coronavirus.
«Ieri sera abbiamo avuto una riunione in cui si è parlato dell'Italia. Intendiamo aiutarla, anche sul piano finanziario». A rivelarlo era stato il presidente Trump, durante la conferenza stampa di domenica pomeriggio alla Casa Bianca, dove aveva annunciato che le linee guida per il blocco delle attività negli Usa sono state estese fino al 30 aprile, dopo che i consiglieri scientifici lo hanno avvertito del rischio che l'epidemia di coronavirus arrivi ad uccidere fino a duecentomila americani. Trump non era sceso nei dettagli dell'assistenza che intende offrire al nostro Paese, ma rispondeva a una domanda che gli chiedeva direttamente cosa intende fare per l'Italia, anche per bilanciare l'impressione che finora gli aiuti a Roma siano arrivati solo da Cina, Russia e Cuba. Questo tema era stato discusso anche nella telefonata di venerdì scorso tra i ministri della Difesa, Esper e Guerini, che avevano confermato l'amicizia tra i due paesi e discusso la possibile assistenza del Pentagono. Fonti autorevoli spiegano che l'aspetto finanziario dell'intervento non è chiaro, ma sul piano delle forniture sanitarie si sta lavorando in maniera intensa con Washington. Nei giorni scorsi il presidente ha ordinato alla General Motors di produrre ventilatori, e ha detto che le macchine indispensabili per salvare le vite dei malati verranno mandate agli alleati che ne hanno più bisogno, come l'Italia. Questo è il primo atto concreto che potrebbe avvenire, insieme ad altri materiali come le maschere. Ieri infatti Trump ha detto di aver promesso a Conte l'invio di forniture mediche per circa cento milioni di dollari.
La conferenza stampa di domenica, oltre al tema Italia, ha segnato un netto cambio di tono da parte di Trump, perché l'epidemia potrebbe arrivare ad uccidere 200.000 persone negli Usa e nessuna città o stato verrà risparmiata. A dirlo sono stati i due principali consiglieri scientifici della Casa Bianca, Anthony Fauci e Deborah Birx. I contagi in America sono saliti a quasi 150.000 e i morti sono oltre 2.800. L'epicentro resta New York, dove ieri è arrivata la nave ospedale della Navy Comfort, con mille letti e sale operatorie. E' ancorata al Pier 90 e ospiterà i pazienti non colpiti dal coronavirus, per liberare posti nei nosocomi ai malati che rischiano la vita per il Covid 19. Un ospedale da campo è stato costruito anche nell'East Meadow di Central Park da Samaritan's Purse, per accogliere i pazienti del Mount Sinai.
Fauci ha chiarito che la sua previsione di 200.000 morti negli Usa si basa sui modelli, e dipenderà dalle scelte delle autorità e la risposta dei cittadini. Se il social distancing verrà rispettato, e i governanti aumenteranno i test, la tracciatura dei contagi e i letti d'ospedale per i malati, il totale potrebbe essere molto più basso. Quello che non cambierà, secondo la responsabile della Casa Bianca per la risposta al coronavirus Birx, è che tutte le città e gli stati verrano colpiti, e quindi devono prepararsi a reagire. Davanti a questi avvertimenti, Trump ha rinunciato all'idea di riaprire il paese a Pasqua, estendendo il blocco delle attività alla fine d'aprile. Il presidente, che per circa due mesi aveva sottovalutato l'epidemia, ha detto che «se riusciremo a contenere le vittime sotto la soglia di centomila avremo fatto un buon lavoro». Qualche speranza in più è venuta dalla Johnson & Johnson, che ha annunciato l'inizio dei test del suo vaccino sugli esseri umani a settembre, e dalla Fda, che ha autorizzato l'uso di idrossiclorochina e clorochina come cure sperimentali.

Paolo Mastrolilli – La Stampa – 31 marzo 2020

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Lo smarrimento di Trump

Circolano in questi giorni video devastanti che mettono in sequenza decine di dichiarazioni salienti di Donald Trump sull’epidemia del nuovo coronavirus a partire dal 22 gennaio, il giorno in cui è stato registrato il primo caso negli Stati Uniti. Il presidente dice “non siamo preoccupati, abbiamo tutto sotto controllo”, qualche giorno dopo spiega che “abbiamo per lo più contenuto” il contagio, poi dice al paese che “molti esperti pensano che andrà via in aprile”, che “migliaia di persone che guariscono senza fare niente, alcuni vanno anche al lavoro come se niente fosse”, che “il vaccino arriverà presto” e lui “non si prende alcuna responsabilità”. Se dovesse darsi un voto da uno a dieci sulla gestione dell’epidemia finora? “Dieci”. Si passa poi agli ultimi giorni, quelli della resipiscenza e della metafora bellica, del “nemico invisibile”, dei medici in trincea, del “ho preso sul serio il virus dall’inizio”. Infine, la conclusione da antologia: “Sentivo che si trattava di una pandemia prima ancora che fosse dichiarata una pandemia”. Tutto questo per tacere dell’ossessione, emersa in lui abbastanza tardivamente, per la qualifica cinese del virus, probabilmente interiorizzata guardando Fox News e ascoltando il solito giro di consiglieri che fa capo a Stephen Miller.

Il che peraltro ignora il fatto che le forniture sanitarie degli Stati Uniti dipendono in larga parte dalla Cina e che una delle ragioni per cui l’America ha a disposizione un numero molto limitato di tamponi è la politica commerciale dell’Amministrazione nei confronti di Pechino. L’impietosa carrellata di contraddizioni non è soltanto la testimonianza della cronica incoerenza del presidente: per scoprire quella è sufficiente scorrere per qualche istante un punto qualsiasi della sua timeline di Twitter. E’ piuttosto l’immagine sintetica del collasso di una leadership. E tale collasso non è un fenomeno che riguarda una persona soltanto, ma l’esito di un’azione collettiva che, in questo caso, prevede una combinazione di cinici calcoli elettorali, consiglieri fraudolenti, che vivono nel terrore di finire nella nomination del reality della Casa Bianca, spin-doctor fuori controllo, negazionisti e teorici del complotto, macchine della propaganda che ripetono lo stesso messaggio all’infinito. Trump ha cambiato completamente linea sul virus, e ora si arroga poteri emergenziali, evoca stimoli complessivi da mille miliardi di dollari (più di quelli per la crisi del 2008) e fa dichiarazioni belligeranti per risolvere la situazione che è “very bad”. Non può che essere una buona notizia, ed è lecito domandarsi se l’inversione di marcia sia stata suggerita dal più grande crollo della Borsa in un singolo giorno, dallo studio di Neil Ferguson e dei suoi colleghi dell’Imperial College di Londra secondo cui la strategia dell’immunità di gregge avrebbe ucciso circa 2,2 milioni di americani, oppure dall’anchorman di Fox News Tucker Carlson che a un certo punto ha deciso di andare di persona a Mara-Lago per convincere il presidente che il Covid-19 era una minaccia di proporzioni catastrofiche. Ma il processo di disgregazione della credibilità dell’Amministrazione è molto più profondo di un repentino cambio di idea, genere che il presidente ha praticato impunemente fin troppo in tempi ordinari. Nelle circostanze straordinarie che viviamo il gioco non tiene, l’impalcatura del reality crolla e improvvisamente sulla scena si crea il vuoto.

Il collasso è avvenuto per fasi. Seguendo i consigli degli advisor, specialmente quelli economici, all’inizio il presidente ha preso la strada del diniego e della minimizzazione sulla base di considerazioni sulla gestione del consenso e delle prospettive elettorali, le sole questioni in grado di muovere l’interesse di Trump. Nel frattempo, Sean Hannity, Trish Regan e la pattuglia di Fox News – con l’eccezione di Carlson – portavano avanti la linea della negazione, perfettamente in linea con la mentalità cospirazionista che galoppa nelle praterie di Fox, suggerendo che si trattava di un’esagerazione dei media mainstream per spaventare e destabilizzare. Qualunque crisi, si sa, finisce per danneggiare chi è alla Casa Bianca. La prospettiva poi di pesanti ricadute sull’economia, che storicamente sono collegate a performance deludenti dei presidenti in cerca di rielezione, ha subito allarmato un presidente che fino a questo momento ha sempre saputo che poteva contare sull’andamento dell’economia per convincere fette di elettorato che altrimenti gli sarebbero ostili. Il consigliere economico Larry Kudlow si è dunque affrettato a spiegare che il contagio era stato già contenuto e tuttora si ostina a dire che l’emergenza da pandemia, con tutte le conseguenze che si porta dietro, si risolverà nel giro di settimane, non di mesi o anni.

Al consesso si è aggiunto anche l’onnipresente Jared Kushner, prima anche lui nella veste di minimizzatore che punta il dito contro i media che cospirano per distruggere Trump, poi promosso a capo di un’opaca task force, in aggiunta a quella ufficiale guidata dal vicepresidente Mike Pence, per coinvolgere nella “guerra” al virus anche il settore privato. La squadra di Kushner si è mossa in modo disordinato tra la West Wing e i corridoi del dipartimento della Sanità, presidiato da Alex Azar, segretario di estrazione non trumpiana che nella gestione del coronavirus si è trovato spesso in tensione con il presidente, senza mai arrivare allo scontro. Sul Financial Times, Edward Luce ha opposto alla leadership corrotta e egoriferita di Trump la rettitudine stoica di Marco Aurelio, che ha affrontato l’epidemia ascoltando i consigli degli esperti del tempo e mettendosi a disposizione del popolo mentre i patrizi riparavano fuori città. E’ un paragone che schiaccerebbe probabilmente qualunque leader, ma l’opinionista del quotidiano inglese nota che in questa crisi non mancano i punti di riferimento dotati di risolutezza e buon senso, e cita a proposito il primo ministro irlandese Leo Varadkar.

Il collasso della leadership americana ha creato però un’opportunità. Le proporzioni tragiche della crisi in corso richiedono che qualcuno, nel vuoto, si faccia avanti, qualcuno su cui il popolo possa fare affidamento per avere una parola chiara. Nella nebbia dell’emergenza è apparso Anthony Fauci, il direttore dell’istituto nazionale per le malattie infettive, uno dei pilastri del National Institute of Health, il centro per la ricerca medica del governo. Nominato dalla task force di Pence, Fauci è diventato il volto e voce pubblica della risposta americana alla pandemia, e ben presto gli americani si sono accorti che il profilo dell’infettivologo era l’esatto opposto di quello del presidente. Fauci si muove nei briefing e nei salotti televisivi con voce posata e ferma, conduce gli ascoltatori in percorsi logici, cura i dettagli della comunicazione, è animato dalla prudenza, sa dire “no” in modo cortese ma fermo e non teme di rispondere “non lo so” quando effettivamente non ha una risposta adeguata. La sua figura mite di quasi ottantenne brizzolato trasmette autorevolezza senza cadere nella tentazione della spocchia. Fauci non si scalda, non irride, non usa i social, ha la pazienza di spiegare anche a chi sembra non voler capire, non fa pesare le sue superiori conoscenze e non crede che la scienza possa risolvere tutti i problemi dell’universo. Quando si è trattato di dire cose in contrasto con l’umore presidenziale, lo ha fatto in modo chiaro ma senza vis polemica: non ha nascosto, ad esempio, la sua frustrazione per la mancanza dei tamponi e ha chiarito che il vaccino per il nuovo coronavirus non sarà mai disponibile nel giro di pochi mesi, cosa che invece a un certo punto Trump si era messo in testa (o meglio: qualcuno dei suoi, per piaggeria, lo aveva confortato in questa falsa speranza, che a quel punto gli era apparsa come una certezza scientifica indubitabile). All’inizio della sua presenza pubblica nei briefing, il New York Times ha avvicinato Fauci per chiedere un’intervista, ma lui ha declinato spiegando che tutto ciò che diceva ai media doveva essere prima concordato e approvato dalla Casa Bianca. Il quotidiano ha riferito la cosa come l’ennesimo sopruso di un’Amministrazione che sottomette e imbavaglia anche quei pochi, convocati forse per un errore del sistema, che potrebbero dire la verità, ma in realtà la garanzia di un canale di comunicazione istituzionale ha conferito a Fauci l’autorità e la gravitas che non avrebbe avuto se fosse stato soltanto uno scienziato indipendente che dava qualche consiglio al governo. Che sui social siano comparsi appelli per Fauci 2020 è normale: difficile immaginare un leader più lontano dal modello fumoso e spocchioso dell’inquilino della Casa Bianca. Tutto si può dire di Trump ma non che non abbia fiuto per i prodotti televisivi che funzionano. Dopo l’ennesimo giro di interventi nei vari salotti televisivi del superscienziato, Trump ha notato, fra lo scherzoso e il minaccioso, che Fauci stava diventando una “star televisiva”. Nei due giorni successivi Fauci è scomparso dal briefing. Non sarebbe la prima volta che Trump oscura qualcuno dei suoi collaboratori perché per un momento, durante una puntata del reality, gli ha fatto ombra.

Nel crollo della leadership di Washington di fronte a una minaccia globale c’è un altro elemento vagamente confortante, cioè il sistema federale. Se l’iniziativa del governo centrale è fondamentale per fissare la strategia nazionale, sono gli stati, le città, le contee e i vari enti locali quelli che decidono della chiusura delle scuole, delle attività commerciali. Sono loro che ordinano i lockdown, dirigono le forze di polizia e hanno il potere di fare tutto ciò che è necessario per mettere in atto il distanziamento sociale. Mentre Trump era perso nel labirinto delle sue contraddittorie elucubrazioni, molti governatori hanno iniziato a fare. Un esempio su tutti è il governatore del Maryland, il repubblicano Larry Hogan, un ex immobiliarista che è anche il presidente dell’associazione nazionale dei governatori. Il 26 febbraio, nel pieno della fase del delirio da contenimento, Trump ha detto che nel giro di pochi giorni i casi di coronavirus negli Stati Uniti sarebbero stati ridotti a zero. Quattro giorni più tardi Hogan ha convocato una conferenza stampa per spiegare che la decisione di chiudere le scuole era imminente, ha sospeso tutti gli eventi pubblici e dato disposizione al settore privato di organizzarsi per far lavorare i dipendenti da casa. In quel momento in Maryland non c’era nemmeno un caso di COVID-19. I primi di marzo, quando il presidente spiegava che il virus sarebbe scomparso con l’arrivo del caldo, ha firmato una legge emergenziale che cancellava tutti gli spostamenti dei dipendenti pubblici e ha istituito una linea di supporto per le domande dei cittadini. Lo stesso giorno in cui Trump ha detto che l’emergenza “sarà risolta in fretta” Hogan ha chiuso, fra le altre cose, il porto di Baltimore e ha mobilitato al guardia nazionale. A nome dei governatori di tutti i cinquanta stati ha chiesto al presidente di spiegare se il governo potrà fornire nuovi respiratori agli stati che ne hanno bisogno. La risposta è stata insoddisfacente: “Sono i governatori che di fatto stanno guidando i loro stati e prendendo le decisioni importanti, perché se è vero che il governo federale ha dato alcune linee guida, che ora stanno cambiando, non ha dato in realtà direttive chiare”. Nel vuoto lasciato da Trump, altri leader si fanno largo.

Mattia Ferraresi - Il Foglio - 21 marzo 2020

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Gli Usa impauriti si affidano a Tony Fauci

Se gli Stati Uniti riusciranno a contenere la pandemia del coronavirus, lo dovranno all'ex garzone di una farmacia di Brooklyn, nato da padre siciliano e madre napoletana, e istruito dai gesuiti. Perché Anthony Fauci, Tony per gli amici, è l'unico che ha la competenza, l'autorità e il coraggio di dire la verità al presidente Trump, cercando di spostarlo dai suoi istinti e dai suoi interessi personali verso le scelte scientificamente sensate per salvare il Paese.
Al punto che ieri, dopo aver contraddetto pubblicamente il capo della Casa Bianca in varie occasioni, si è spinto a suggerire il «lockdown» degli Stati Uniti: «È possibile che sia necessario chiudere tutto, per un paio di settimane. Ne ho parlato durante la riunione della task force guidata dal vice presidente Pence per la gestione dell'emergenza».
Tony è nato nel 1940 a Brooklyn, da una famiglia che incarna la storia dell'immigrazione italiana negli Usa. Il nonno paterno Antonino lavorava alle terme di Sciacca, mentre quello materno, Giovanni Abys, era un artista napoletano che dipingeva paesaggi. Entrambi erano arrivati passando da Ellis Island, e si erano stabiliti nella Little Italy di Manhattan. Poi si erano trasferiti nel zona di Bensonhurst a Brooklyn, dove i loro figli Stephen ed Eugenia si erano conosciuti alla scuola superiore e poi sposati, mettendo al mondo Denise e Anthony. Stephen era studioso ed era riuscito ad entrare alla Columbia University, diventando farmacista. Così aveva aperto il suo negozio all'angolo tra la 13ª Avenue e l'83ª strada. Casa e bottega, perché al piano terra c'era la farmacia, e sopra l'appartamento dove vivevano. Il padre si occupava delle medicine, la madre e la sorella della cassa, e Tony andava in bici a fare le consegne. Nel frattempo era diventato il primo della classe alla Our Lady of Guadalupe Catholic Academy, la scuola del quartiere che purtroppo a chiuso l'anno scorso per mancanza di studenti. Così si era aperto le porte della Regis High School, prestigioso liceo dei gesuiti nell'Upper East Side di Manhattan, e poi del College of the Holy Cross, università sempre gesuita che avviava allo studio della medicina, perfezionata poi a Cornell. Tony era il capitano della squadra di basket, e d'estate faceva il muratore. Ancora oggi dice che la sua ispirazione viene dal motto dei gesuiti, «to be men for others».
Durante la guerra in Vietnam aveva servito con i «Yellow Berets» dei National Institutes of Health, e il nel 1984 era diventato direttore dei National Institute of Allergy and Infectious Diseases. L'anno prima aveva conosciuto l'infermiera  mentre entrambi accudivano un paziente, e nel 1985 l'aveva sposata, facendo tre figlie.
Fauci è stato uno dei pionieri nello studio dell'Aids, diventando il leader del President's Emergency Plan For AIDS Relief. La sua carriera gli ha dato un'autorevolezza che nemmeno Trump osa sfidare. Perciò quando il presidente ha detto in conferenza stampa che gli americani contagiati dal coronavirus sarebbero presto scesi a zero, Tony lo ha corretto senza paura: «Le cose andranno molto peggio, prima di migliorare». Quando Trump ha detto che il vaccino sarebbe arrivato presto, Fauci ha spiegato che «ci vorranno tra 12 e 18 mesi prima di averlo». Dietro le quinte, è lui che ha spinto per l'emergenza nazionale, avvertendo che il modello più terrificante dei CDC, che prevede fino a 1,7 milioni di morti negli Usa, non è impossibile. Ieri ha rivolto un pensiero a noi: «Ho tanti amici in Italia, mi dispiace molto ciò che sta passando». Ma proprio per evitare che gli Usa seguano la stessa sorte, e abbassare la curva dei contagi, ha suggerito il lockdown. Donald non vuole, perché contraddice la sottovalutazione dell'epidemia andata avanti per due mesi, nel timore che comprometta la sua rielezione a novembre. Ma Tony da Brooklyn se ne frega: lo caccino pure per aver detto la verità, se hanno il coraggio. 

Paolo Mastrolilli –La Stampa – 16 marzo 2020

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