Il quaderno della vita

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Il quaderno della vita:  un quaderno a righe per chi ama correre e con i margini,  per non schiantarsi contro il bordo della pagina,  a quadretti per gli insicuri alla ricerca di forme e di certezze,  un quaderno a pagine bianche per chi non vuole barriere…

   Una sera di molti anni fa il mare di fronte a S.Giuliano d'Albaro era costellato di tante, piccole, luci di lampare che illuminavano i legni della barca e l'acqua intorno. C'era il caldo di un'estate che a Genova si prolunga fino a intralciare l'arrivo dell'autunno e la bonaccia, che zittiva il brontolio indisciplinato dell'acqua sugli scogli. Albaro è la collina di Genova, da lassù i Fieschi e i Doria, le famiglie che detenevano il potere, potevano guardare dall'alto le mura della città e l'ingresso di Porta Soprana illuminato da fuochi.

Quella sera,  chiunque fosse sceso per una crosa verso S.Giuliano, avrebbe di certo sentito una musica lontana e l'eco di una danza nell'aria e avrebbe rivolto lo sguardo verso un illuminato palazzotto, all'interno del quale Eleonora, moglie di Fiesco, era appena uscita dal ballo sbattendo rumorosamente la porta. Togliendosi la maschera che portava in viso, si era buttata su una sedia: diciottenne pallida e diafana, anche stavolta era vestita di nero. Rosa e Arabella, le sue cameriere, erano subito accorse, sconvolte: una civetta nota in tutta la città, una certa Giulia, aveva mostrato occhi suadenti al marito che, per tutta risposta, aveva baciato a lungo il suo braccio nudo. Del resto il Fiesco, conte di Lavagna, era un ventitreenne bello e amabilmente maestoso, dotato di una cortigiana arrendevolezza. Giulia invece, alta e formosa, superba e un po'  civetta, aveva un modo bizzarro di essere bella, una di quelle bellezze abbaglianti ma non seducenti, l'espressione del viso ironica e gli occhi maligni.

Giulia era consapevole dell'allettante lusinga che i suoi occhi potevano sprigionare e sapeva anche che il Fiesco ne avrebbe inteso il significato; avrebbe senza dubbio potuto rifiutare l'offerta e non baciare il suo braccio, ma l'avrebbe inteso. Chi invia un segno, sia questo un gesto o una parola, vive in esso, e Giulia viveva nei suoi sguardi e nelle sue parole.

"Conte buonasera…"

Il Fiesco, destinatario di quel segno, colpito da esso, si muoveva intontito, irrigidito come uomo in estasi, come se il mondo ai suoi occhi non esistesse più e lui, insieme a Giulia, nuotasse leggero nell'aria. Scaraventato in aria dalle parole, fluttuante nell'aria come un foglio di carta leggero, strappato al quaderno della vita: un quaderno a righe per chi ama correre e con i margini, per non schiantarsi contro il bordo della pagina, a quadretti per gli insicuri alla ricerca di forme e di certezze, un quaderno a pagine bianche per chi non vuole barriere. Se siamo nelle nostre parole, la nostra vita è in questo quaderno.

"Prendete la cosa per ciò che è effettivamente!... una galanteria." disse Rosa. "Galanteria?" - ribatté inviperita Eleonora - "E l'insistente occhieggiare di lei? E da parte di lui l'ansioso seguire le sue tracce? Eh, bimba mia, che non hai ancora amato, non venire a farmi distinzioni tra amore e galanteria!". Rosa si trovò a questo punto a cercar di dover rimediare alla situazione: "Tanto meglio, madonna! Perdere un marito vuol dire trovare dieci cicisbei." Il rimedio è peggiore del male e in questo caso  il linguaggio si rivela una medicina inefficace: Rosa non riesce ad attenuare la collera di Eleonora facendo slittare il significato di "amore" in quello di "galanteria" e neppure risulterà consolatoria la prospettiva di acquisire "dieci cicisbei". Infatti, il grado di irritazione di Eleonora aumentò: "Perdere? Chi parla di perdere? Un breve sussulto di sensualità e io già avrei perduto Fiesco, mio marito? Vattene, vipera! Non venirmi più davanti! Uno scherzo innocente, ecco... sì, una galanteria… Non è così, mia affettuosa Arabella?". "Sì, certamente è così." rispose quest'ultima. Arabella finisce così per confermare ad Eleonora che si tratta di una semplice "galanteria", la stessa spiegazione che quest'ultima aveva poco prima rifiutato a Rosa.

Le nostre parole non si portano dietro un significato come se questo fosse dato loro in prestito una volta per tutte. Rosa dice che quello tra Giulia e il Fiesco non é amore ma una galanteria? Ma… l'insistente occhieggiare di lei? Eleonora non è d'accordo, non può essere una semplice galanteria o forse sì, forse lo era, vero Arabella? Le parole fluttuano, trascinate dalla corrente del nostro pensiero, come su una dolce ile flottante, come la lettera di un'insegna al neon difettosa, che s'accende e si spegne. Ci capita di dover voltar pagina, per cercare nuove parole, che tuttavia non si assomiglieranno mai. Ogni parola è differente, siamo: differenti. Eleonora ha scrittura nervosa che riflette il suo carattere, il tratto della sua penna salta oltre i margini delle pagine del suo quaderno, Rosa e Arabella hanno invece una scrittura più timida, le vocali "a" e "o" contratte in piccoli, invisibili, cerchi.

"I miei domestici! Il postiglione!" Giulia uscì irritata dalla festa e Fiesco la inseguì, affannosamente: "Contessa dove volete andare? Che intendete fare? Capisco come sia stato imperdonabile il comportamento di mia moglie, andarsene così... buttando a terra la sedia e voltando la schiena a lei che sedeva a tavola…". Giulia abbozzò allora un sorriso compiaciuto: "E' forse colpa mia se il conte suo marito ha gli occhi?". "La grave colpa della vostra bellezza - rispose il conte - è che io non abbia occhi che per voi. Il mio amore è un eroe abbastanza ardito da rompere le barriere della gerarchia e da spiccare il volo verso il sole accecante della vostra maestà". "Niente complimenti, conte; tutte le bugie avanzano sulle stampelle zoppicando. La sua lingua infatti mi porta in cielo, mentre il suo cuore continua a palpitare per un'altra donna" rispose Giulia. A questo punto il Fiesco si strappò di dosso il ritratto di Eleonora che portava appeso ad un nastro azzurro e lo porse a Giulia dicendo: "Sarebbe meglio dire, madonna, che il mio cuore batte di malavoglia e non desidera che disfarsene; ponete su questa la vostra immagine e vi sarà facile distruggere l'idolo".  Giulia si nascose subito in seno l'immagine, molto lieta di questo fatto, e subito gli porse al collo la propria, cosa che fece infuocare l'animo del conte: " Giulia mi ama! Giulia! Non invidio più nessun immortale! Questa notte è una festa degna degli dei e la gioia deve celebrare il suo capolavoro. Il nettare scorra sui pavimenti, la musica svegli la mezzanotte dal suo plumbeo sonno, mille lampade accese offuschino il sole del mattino… Sia gioia universale e la bacchica danza faccia rovinare sotto il suo turbine il regno dei morti!".

Nel palazzo del Fiesco, chi quella sera avesse aperto la tenda centrale del salone avrebbe visto una gran sala illuminata e molte maschere danzanti. L'euforia del Fiesco nasce dalle parole di Giulia, le parole che portano in cielo. Sono le parole che si incidono in noi, che sentiamo sulla pelle, quelle dal gusto persistente, dal retrogusto insistente, le parole che amiamo, da cui non ci stacchiamo, che porteremo con noi in bauli pieni di quaderni, i quaderni della vita.

Ci sono tre anime nelle parole del Fiesco di Eleonora, in questa loro storia  tormentata: tre modi di essere, dolorosamente, nella vita e nella parola.

La prima anima unisce e divide, la fragilità dell'unione tra Eleonora e il Fiesco Eleonora è la stessa di due parole unite dal "senso comune": sulle nostre labbra ogni parola appare diversa. Ci disperiamo sempre per questo, vorremmo ogni volta ritrovarci in un mondo condiviso. Si battono i pugni sul tavolo, si strappano i capelli: perché non ci capiamo?

La seconda anima avvicina e allontana. Eleonora si avvicina ad Arabella solo perché ha confermato la supposizione secondo la quale il comportamento del marito altro non sarebbe che una banale galanteria: ci si incontra intorno al significato di una semplice parola, come intorno ad un tavolo, ci si stringe le mani.

La terza anima concorda e discorda. Il procedere in accordo può portare gioia, felicità, al contrario i disaccordi sono fatti di sofferenza. Nel primo caso le  parole saranno appassionate, come quelle che colpiscono e fanno volare il povero Fiesco.

Sono le parole che si incidono in noi,  che sentiamo sulla pelle,  quelle dal gusto persistente,  dal retrogusto insistente,  le parole che amiamo, da cui non ci stacchiamo,  che porteremo con noi, in baùli pieni di quaderni, i quaderni della vita…

Agistino Roncallo, insegnante e scrittore

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Come un punto sopra una "I" gigante

C'è una famiglia un po' particolare di cui vale la pena di parlare. Qualcuno la chiama la famiglia  dei "the vocalist", infatti ognuno dei suoi componenti ama gorgheggiare tutto il giorno aerei suoni. C'è una e una sola parola nella nostra lingua che contiene tutti i suoi membri: aiuole. Eppure non tutti i suoi cinque componenti amano la vita all'aria aperta: Ombretta  e Ugo sono tutto sommato tipi alquanto ombrosi, uggiosi, e preferiscono, al sole d'un giorno d'estate, le grigie serate autunnali. Al contrario Anna e Ester sono aperte, solari e radiose nella loro giovinezza, e per questo sono solite riconoscersi nei versi di una poesia famosa:

"Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita mortale quando beltà splendea…"

Quanta luce in quell'incipit! Anna e Ester ne parlano spesso, amano la solarità di quel verso leopardiano. Anna dice:

"Che inizio luminoso! Mi piacerebbe che Silvia fosse il mio secondo nome. Quella vocale finale, quel nome isolato tra due pause del nostro linguaggio…"

"Quali pause?" - chiede Ester.

"Mi riferisco alla virgola che segue il nome e, prima ancora, allo spazio bianco di una pagina non ancora iniziata. Dicevo, quel nome isolato… è come un sasso lanciato in uno stagno. I cerchi concentrici che si formano sull'acqua sono come le parole di quella poesia che, lentamente, si impossessano di noi e ci portano a riflettere sul dolore nel mondo. Vorrei allora fermarmi a quel nome, Silvia, che finisce nello stesso modo in cui io comincio".

"Io sono invece invaghita di quel "splendea" - risponde Ester - ma ancor più, in generale, del verbo "splendere". E' il mio amore segreto. Mi ritrovo tre volte in lui, sembra fatto a mia immagine e somiglianza. E se fosse proprio quel verbo ad assumere quelle sembianze per far colpo su di me? Comunque sia, non c'è solo luce in quella parola ma qualcosa di più, un riflesso di bellezza, accecante bellezza. Il sole splende e pure la bellezza risplende, quest'ultima non è dunque cosa terrena…"

Ma lasciamo Anna e Ester ai loro discorsi, non di loro vogliamo parlare, come neppure delle ombrosità di Ombretta e Ugo. Colui di cui vogliamo parlare, è un individuo un po' speciale: isolato, non integrato, irritabile facilmente: Ivano. Vi sono diversi motivi per cui egli non va d'accordo con gli altri quattro suoi compagni di aiuole, ma uno dei principali è senza dubbio la sua puntigliosità, la pignoleria con cui affronta tutte le cose. In ogni cosa di cui si parli lui interviene per puntualizzare, senza il punto non esisterebbe.

Quando Anna e Ester fanno qualcuno dei loro discorsi ariosi, lui dice subito: "mettiamo i puntini sulle "I". Se poi, nelle tenebre della sera, Ombretta e Ugo si sentono più a loro agio al punto da fare gli amiconi con lui…"mettiamo i puntini sulle "I", lui risponde ancora. Insomma, questo Ivano è davvero un tipo alquanto irritante.

Ciò che più colpisce l'attenzione non è tuttavia attinente a queste note caratteriali ma , casomai, al suo "non essere": non è aperto né chiuso, non luminoso né buio, non allegro né triste. Ivano vive sul confine, nella "terra di nessuno", nelle zone morte del linguaggio: è penombra della sera, è spiraglio di una porta socchiusa.

Gli scrittori, i poeti in particolare, fanno scelte radicali e usano vocali aperte e chiuse con consapevolezza: sanno che, in entrambi casi,  otterranno gli effetti desiderati: il sussulto e il tumulto della notte pascoliana sono simbolo di tragedia così come la leopardiana beltà, che splendea nelle vie dorate, rappresenta una seppur provvisoria felicità. Ma a Ivano, al suo suono intermedio e insignificante, nessuno presta la benché minima attenzione. Sì, viene certamente utilizzato in molte parole, la lingua non potrebbe fare a meno di lui ma, alla domanda "perché?", nessuno saprebbe trovare risposta.

Immaginate Leopardi seduto al suo tavolo di lavoro. Di Ester, per esempio, non potrebbe fare a meno, benedice anzi la sua esistenza: Ester è un vento che porta con sé "le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei". "Ma Ivano - si domanda Giacomo - che cosa mi rappresenti!? Io non ti immagino nemmeno nel verso della gallina sulla via!".

Eppure.

Eppure Ivano per qualcuno conta. Per chi? Per chi cerca di avvicinarsi al confine, per chi al tangibile preferisce il sensibile. Non è, il nostro, un tipo vanitoso, non di facili entusiasmi, ma provate per un attimo a mettervi al suo posto: come vi sentireste leggendo una poesia che inizia con le seguenti parole?

"… cri… i … i … i …i … icch"

Sei volte all'inizio di questo testo gozzaniano. Sei volte! Sei grande, Ivano! Tu sei in quel tempo sospeso, sul patinoire del laghetto del Valentino, a Torino. Quell'incrinatura sul ghiaccio è viva  e stridula nello stesso tempo e tu sei nelle crepe, le  tante crepe che nella nostra vita creano arabeschi su quel piano delle certezze, che vorremmo sempre levigato.

"Resta, se tu m'ami", la donna che è vicina a te intreccia con le tue dita vivi legami. I vostri pattini disegnano larghi cerchi sul ghiaccio. Siete soli, ora, pieni d'immensità, sordi ai richiami. Resta Ivano, è quella la vita!

Per chi non lo sapesse, e svelerò ora questo segreto, Ivano, tu sei il cavaliere Diseredato di Walter Scott: so che ricorderai a lungo quei minuti di silenzio profondo, quel tempo sospeso e quel pubblico che, dopo aver agitato le sciarpe e i fazzoletti, era ora ammutolito e tratteneva il respiro. Il nitrito del tuo cavallo spezzava l'attesa del suono della nuova carica. Davanti a te intravedevi, tra il sole e la polvere, il cavaliere normanno con cui stavi per incrociare la lancia.

Ivano non è giorno né notte, non luce né buio. Ma non dimenticate che il giorno può essere oscurato da nubi e la notte illuminata dalla luna.  Alfred De Musset scrive:

C'era, nella notte scura

Sul campanile antico (jauni),

la luna,

come un punto su una "I"

Mettere un dito contro il cielo e socchiudere gli occhi, fare in modo che la punta del dito venga  trovarsi in posizione sottostante il sole, o la luna. Socchiudere gli occhi serve per schiacciare la prospettiva e vedere così compirsi il miracolo.

Nacque così il linguaggio.

Agostino Roncallo

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La linea Diaz

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In un afoso luglio del 1497, un ragazzo di 22 anni cerca di procurarsi del marmo nelle cave di Carrara. Vorrei fare una scultura per ritrovare mia madre, dice parlando a se stesso, una madre che non ho mai conosciuto. Lei terrà sulle braccia il figlio morto, avrà il capo abbassato e non guarderà chi le sta intorno, sosterrà il figlio con la mano destra che passa sotto il braccio di lui. Non voglio raccontare lo strazio di una madre né lo strazio di un corpo martoriato, vorrei che l’una e l’altro, la vita e la morte, siano riuniti insieme, per sempre, vorrei che uno spirito, un volere, governi due cuori, che una stessa anima viva eterna in due corpi.

Manuel lo portarono in una cella con altri ragazzi, doveva stare in piedi, faccia contro il muro, gambe divaricate e braccia alzate. Un uomo si avvicinò alzandogli ancor più le braccia e divaricandogli le gambe, un altro gli sbatté ripetutamente la testa sulla parete. A un certo punto si accorse che questa era sporca di sangue, il suo sangue. Quando poi riuscì a muoversi notò che gli altri compagni di cella stavano subendo la stessa sorte, un  ragazzo in particolare gemeva dal dolore perché gli stringevano continuamente i lacci ai polsi. Tutti erano in piedi contro il muro, alcuni vennero obbligati a fare il saluto romano o a gridare “viva il duce!”.  Poi uno di quegli uomini, uno con il volto rasato e l’aria del capo, si avvicinò a un ragazzo e lo annusò: questo puzza di benzina, disse, passatemi l’accendino, dai, vediamo se prende fuoco.

Arrivò un medico che chiese a Manuel di girarsi per vedere la sua ferita. Gli fece qualche domanda e lui rispose, non mi sento bene. Il medico allora gli portò una garza bagnata ma quegli uomini lo costrinsero a stare comunque con la testa contro il muro. Due di essi si avvicinarono e gli chiesero ridendo: cos’hai? Sono stato picchiato, rispose. Uno dei due lo afferrò per le spalle: Picchiato? Impossibile! Sei caduto per terra, ok? Dopo un certo tempo, ma non saprebbe dire quanto, Manuel venne prelevato e portato al foto segnalamento. Merda di spagnolo, soffrirai! – gli disse chi lo accompagnava. E lui, lui chiese perché, chiese perché e per tutta risposta quell’uomo gli torse un braccio, lui nominò la parola “avvocato”, nominò la parola “avvocato”  e quell’uomo lo spinse, e lo prese a calci.

Quando scesero le prime ombre della notte, Manuel si trovava vicino a Pedro, in una cella sporca di sangue e di urina.  Avrebbe voluto andare in bagno. Sei matto? – gli disse Pedro – chi si è  arrischiato a chiedere il permesso ne è uscito su una barella dopo essere stato deriso e preso a calci, sui testicoli. A una ragazza, Taline, il permesso di andare in bagno non è stato concesso. Alle sue insistenze una donna che era di guardia le ha perfino detto di farsela addosso. Solo più tardi, di fronte all’ennesima richiesta,  le hanno consentito finalmente di andarci ma, al momento di uscire dalla toilette, l’hanno spinta contro il muro, le hanno gridato frasi che lei non poteva capire, l’hanno presa a calci. Poi nella notte, un uomo in abiti borghesi l’ha chiamata e portata in un ufficio dove c’erano cinque persone, tutte in borghese Le domandano: è incinta? No, non lo sono. Allora la colpiscono sulla pancia e le tagliano ciocche di capelli. Le chiedono di firmare dei fogli, lei dice no, non voglio, voglio leggere cosa c’è scritto. Si rifiuta più volte e a ogni rifiuto la picchiano, finché non cade per terra. Alla fine, terrorizzata, stremata dal dolore, firma tre o quattro fogli, anche perché continuano a picchiarla sul viso gridandole di firmare. Lei dice “ho diritto a un avvocato” e loro, la schiaffeggiano. Vorrebbero continuare a tagliarle i capelli, ma lei comincia a gridare, ha gridato così tanto che tutti hanno potuto sentirla. All’infermeria l’hanno fatta spogliare davanti alle guardie, le hanno fatto buttare via gli orecchini e la sua maglietta con una scritta e una stella rossa: una stella rossa – le ha detto un uomo con camice bianco – avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa… comunisti di merda, chiamate ora Che Guevara che vi viene a salvare! Poi si avvicina e le bisbiglia, all’orecchio, puttana.

Senti Pedro, dice a questo punto Manuel, ma quando finirà tutto questo? Non so quando finirà, se finirà, io non riesco a pensare al futuro se non capisco il presente. Non sapere la ragione di quanto ci sta accadendo, non capire dove siamo, rende fragile ogni idea. È come se ogni nuovo pensiero svanisse nell’aria, io cerco di trattenerlo ma quello svanisce, e basta. Mi capisci?  Dopo l’immatricolazione sono entrati nella mia cella e mi hanno colpito con calci alle caviglie, hanno tirato in alto i polsi ancora legati con i lacci costringendomi a gridare “Alalà” e, quando mi sono rifiutato, mi hanno ustionato con la sigaretta. Uno cantava: uno due tre evviva Pinochet, quattro cinque sei a morte agli ebrei, sette otto nove il negretto non commuove. A un certo punto mi hanno tolto i lacci e un’agente donna mi ha fatto mettere in ginocchio. Ho visto un ragazzo con un cerotto sulla testa che non riusciva a reggersi in piedi e che veniva ugualmente percosso, prima di essere portato via in barella.

Anche a Pedro erano stati tagliati i capelli  dopo essere stato picchiato, con un salame, sulla testa e sul collo. Con un salame, proprio così. L’uomo dall’accento emiliano che lo picchiava, ripeteva: morirete tutti, voi, zecche, vi ammazzeremo! Prima di farlo entrare in infermeria lo avevano obbligato a stare in piedi, gli avevano fatto fare il “passo dell’oca” per l’intero corridoio, avanti e indietro, avanti e indietro. Avanti, indietro. Poi gli avevano dato del ghiaccio per la ferita alla testa ma non doveva sporcarlo con le mani, quel ghiaccio, doveva tenere il sacchetto appoggiato tra la testa e il muro, e neppure quest’ultimo avrebbe dovuto sporcare di sangue. Alla fine aveva avuto un mancamento e si era risvegliato sul lettino dell’infermeria.

Ma chi sono Manuel e Pedro, protagonisti di quella che Amnesty International ha definito come “la più grave sospensione dei diritti umani avvenuta in un paese occidentale dal dopoguerra” ? Chi sono gli autori di quelle torture?. Ebbene, Manuel e Pedro non sono ebrei e non si trovavano in una prigione nazista, Manuel e Pedro non sono desaparecidos e non si trovavano in prigione nel Cile di Pinochet:  Manuel e Pedro sono due ragazzi spagnoli appartenenti al ''Movimento di resistenza alla globalizzazione'', un'organizzazione eco-pacifista che aveva partecipato a una manifestazione in modo del tutto non violento.  Come loro, gli altri novantuno ragazzi presenti in quel carcere, tutti, senza esclusione,  non avevano fatto alcun danno a persone o cose. E il luogo in cui si trovavano non era il Turkmenistan o l’Uzbekistan, non era il Sudan e neppure la Guinea Equatoriale, dove esiste un regime corrotto che detiene il primato delle violazioni dei diritti umani in Africa. Quel luogo erano le carceri di Bolzaneto, a Genova, nei giorni del G8, nell’anno 2001. Chi erano i  loro aguzzini? Non erano SS, proprio no, erano agenti di polizia dello stato italiano.

A Genova Manuel e Pedro erano venuti dalla Spagna per manifestare insieme ad altri undici connazionali. Erano stati giorni faticosi, appassionati. Faticosi per la tensione e il timore che frange di estremisti provocassero dei disordini. Poi era arrivata la notizia della morte di Carlo Giuliani e la fatica aveva lasciato posto all’angoscia: l’ideale di pace per il quale avevano partecipato al corteo nei giorni del G8, pareva lontano, irraggiungibile. Ma quella sera, l’ultima sera prima della partenza, il calore e l’amicizia di tanti che erano con loro nella palestra della scuola Diaz, avevano rasserenato i loro animi. Prima di infilarsi nel sacco a pelo e addormentarsi avevano chiacchierato con una ragazza, Anna, e con un signore sessantenne di nome Arnaldo,  che era accanto a loro e che gentilmente aveva offerto dei biscotti. Era una serata tranquilla, la tensione dei giorni precedenti si era stemperata in un’atmosfera finalmente rilassata. Il pensiero andava al viaggio di ritorno, ai genitori e agli amici che attendevano impazienti il loro arrivo, alle fidanzate che non avevano potuto partecipare a quel viaggio.

Nel frattempo, passate le ore 23, un elevato numero di poliziotti si riversava in Via Cesare Battisti e, nel caos più totale, si sentì un urlo: via quelle cazzo di cateneeee! Le catene erano quelle del cancello della Diaz. Un furgone Ducato di un reparto mobile si mosse per sfondarle e, dietro quel furgone, una massa multiforme di divise riuscì finalmente a entrare nel cortile della scuola. In realtà le catene del cancello potevano essere spezzate con una semplice tronchesina ma, probabilmente, tutto quel bailamme era assai più scenografico. Nel frattempo, all’interno della scuola, un ragazzo accanto a una finestra gridò. Fu uno strano grido, di stupore, forse. Altri si affacciarono alle finestre: la polizia! La polizia! Furono attimi concitati, gli avvenimenti si susseguirono, l’ingresso della scuola venne chiuso dall’interno e successivamente sfondato. In controluce, sullo sfondo della notte genovese, si stagliarono i caschi dei poliziotti.

Furono attimi di terrore. Quella che entrò nella scuola era una furia devastatrice che, armata di un micidiale sfollagente metallico, modello “tonfa”, massacrò tutti quei ragazzi: alcuni dormivano nei sacchi a pelo, altri erano in piedi con le mani alzate. Nessuno ebbe il tempo di rivelare le proprie generalità, neppure i giornalisti, neppure Lorenzo, che era lì come inviato del Resto del Carlino e che si ritrovò le braccia scarnificate e un buco sulla spalla. I demoni indossavano la divisa “atlantica”, caschi lucidi e cinturoni bianchi, oppure semplicemente jeans, maglietta e un fratino con la scritta “polizia”. Erano come impazziti, colpivano con il manganello ma anche con calci, alcuni tirarono sedie e banchi addosso alle loro vittime. Manuel e Pedro cercarono di proteggersi la testa, accanto a loro videro Arnaldo contorcersi: uscirà dalla Diaz in barella, un braccio con fratture multiple e una gamba spezzata. Manuel vide Anna, colpita con un calcio in bocca, vomitare sangue, e denti. Cercò di avvicinarsi a lei per aiutarla ma venne a sua volta colpito da un colpo di manganello che gli fece perdere i sensi. Si risveglierà in ospedale con una domanda nella mente: che paese è quello in cui una ragazza disarmata viene pestata a sangue e poi suturata in fretta all’ospedale per far sì che possa essere deportata in carcere? Che paese è quello in cui una ragazza disarmata perde la memoria per una manganellata, e dopo il ricovero è costretta a urinarsi addosso davanti ad agenti maschi della polizia penitenziaria? Pedro era sua volta ferito ma, a differenza di Manuel, non aveva perso conoscenza. Non avrebbe saputo dire se ciò che udì, e che vide, fosse sogno o realtà. In un’atmosfera fatta di buio e di urla disumane vide un uomo che, dopo essersi tolto il casco, gridava “Basta! Basta!”. Quell’uomo che era forse un ufficiale di polizia si inginocchiò per sorreggere il corpo e la testa di Anna, che era riversa in un lago di sangue e sembrava morta.

Negli anni seguenti, l’immagine di un graduato che, di fronte a tanta violenza, aveva provato un sentimento di pietà, rimase impressa nella memoria di Manuel. Forse, se non fosse per il significato che un gesto come quello può avere in una situazione dove ogni dignità umana è negata, lui avrebbe semplicemente rimosso, o tentato di rimuovere, il ricordo di quei giorni. La Diaz avrebbe rappresentato un male senza attenuanti, senza altre possibilità di lettura degli eventi. Ma quell’immagine cambiava tutto e, per cercare di rileggere quegli avvenimenti e di comprenderli, a distanza di dieci anni decise di ritornare a Genova.

Giunse nel quartiere di Albaro, dove si trova la scuola Diaz, un giorno d’autunno. Albaro è una collina a Levante della città, una zona nobile che nell’ottocento era il luogo di villeggiatura delle famiglie più abbienti e che, nel presente, aveva conservato un alone di quel prestigio. Manuel non aveva fretta di arrivare davanti a quella scuola, camminava per quelle crose, silenziose viuzze che scendevano dalla collina, passando davanti alle ville in cui Byron e Dickens avevano soggiornato. Si domandava perché fosse tornato. Non era per nostalgia, quello no, di certo, e neppure per rabbia.  Era tornato per colmare un vuoto o riannodare un filo, non sapeva con esattezza. Trovava difficile accettare la presenza di smagliature nel tessuto della vita, l’occhio finiva per cadere sempre lì, sui punti scuciti, e le notti, le notti diventavano insonni. Quando arrivò in Piazza Leopardi, comprese di essere alla ricerca di una conciliazione e, con essa, di una rinascita. Albaro in genovese si dice Arbà, che significa alba, lì, nasce il sole e il nuovo giorno.

Aveva fame. Vide una trattoria chiamata Vegia Arbà e vi entrò, lo accolse Roberto che gli propose lo stoccafisso alla genovese, il piatto forte di un cucina rigorosamente tradizionale. C’erano altre persone là dentro, i tavoli erano pochi e nell’ambiente accogliente il sole dilagava da grandi finestroni. Manuel aveva l’impressione di ascoltare voci sommesse, quasi rispettose: era ora che venissi, dicevano. Ti aspettavamo.  Nella nebbia di tanti anni, quel sole e quelle voci aprivano ora uno spiraglio: era con esse che sarebbe ripreso il dialogo della sua vita. Non con la storia, non con l’autorità, ma con chi viveva lì e aveva memoria dell’accaduto. Fu colto dal desiderio di raggiungere subito Via Trento, sede della scuola Diaz, e parlare con gli abitanti: di certo, avrebbero ricordato quanto era successo. Ma cosa gli avrebbero detto? E se si fosse trovato davanti ai difensori dell’autorità? Se gli avessero detto che la polizia aveva fatto bene ad agire così, contro quei giovani violenti? Non è poi così infrequente, pensava, quell’atteggiamento acritico che identificava l’autorità con la giustizia. Immerso in questi dubbi, pagò il conto e uscì.

Percorse Via Albaro, passò davanti alla Pasticceria Svizzera, situata nello storico edificio in cui visse Byron, e imboccò Via Trento. Quando arrivò davanti a quella scuola ebbe sensazioni differenti da quelle di dieci anni prima. La prima cosa che lo colpì fu il silenzio, la vita di quel quartiere sembrava scorrere ovattata, era una percezione del tutto diversa dal clima concitato di quelle ore. Inoltre, osservando la facciata dell’edificio, rimase colpito dalla sua imponenza architettonica, da quell’aspetto austero e monumentale del tutto dissonante rispetto allo stile misurato delle abitazioni ottocentesche che costellavano la via.

“Osservando la facciata dell’edificio, rimase colpito dalla sua imponenza architettonica, da quell’aspetto austero e monumentale del tutto dissonante rispetto allo stile misurato delle abitazioni ottocentesche che costellavano la via.”

Quasi di fronte alla scuola vi era una cartolibreria. Manuel vi entrò per chiedere se avessero un libro sui fatti di quei giorni. In questo momento non abbiamo niente, disse il libraio. Non essendoci clienti in negozio, approfittò per intavolare una conversazione. Cercava di non darlo a vedere ma, dentro di sé, Manuel era teso: quella era la prima persona con cui parlava, il primo incontro, il primo tentativo di ricucire quello strappo doloroso. Per quanto ognuno possa avere idee diverse sui fatti, la parola di uno è, spesso, la parola di molti, e per questo quell’esordio era così importante, un’importanza di cui quel commerciante non poteva che essere del tutto ignaro. Lei sa se quel blitz aveva delle ragioni? Mah, ci sono state delle manifestazioni…, disse lui. Questo lo immagino, ma esse possono spiegare tanta violenza? Hanno cercato di castigarli nel momento in cui sembrava tutto finito, rispose allora il negoziante, erano rilassati e quindi sono venuti di notte. Sono venuti perché nella scuola c’erano ragazzi violenti? Non erano violenti, erano dei ragazzi che erano allo stadio Carlini, là vi fu nel pomeriggio un forte acquazzone e hanno avuto il permesso di venire qui alla Diaz, c’era il gruppo Lilliput… Il gruppo Lilliput, esclamò Manuel sorpreso, ma si tratta di un gruppo pacifista! Certo, anzi erano dei ragazzi simpatici, noi in negozio eravamo aperti, noi, c’eravamo: è stata una brutta pagina di poca democrazia in Italia.

Una brutta pagina di poca democrazia, metafora tanto debole nella sintassi ma forte, eccome, nel significato. Manuel respirò profondamente, ora aveva fame, fame di parole. Vide altri passanti, signora scusi è questa la scuola in cui ci fu l’irruzione della polizia? Era, questa, certo, questa qua. Hanno detto che i “black block” si sono rifugiati qui dentro ma c’erano solo persone pacifiche che erano venute a manifestare la loro opinione contro il G8, assolutamente pacifiche.

Signora per gentilezza, la Diaz è questa, la scuola Diaz? Sì. Fu qui che vi fu il blitz della polizia nel 2001? Sì. Chi c’era qui? Qui c’erano quelli che erano stati pestati nei cortei, erano ricoverati qua, poi li hanno ripestati. Ma i ragazzi che erano qui avevano fatto qualcosa di grave? Niente, in corteo avevano preso delle botte dalla polizia, li hanno portati qui per ripararsi e gli hanno dato il resto

Signora per gentilezza, la Diaz è questa, la scuola Diaz? Si è questa. Vi furono dei feriti? Feriti non ce n’erano, dormivano, i ragazzi. Che motivo aveva l’irruzione? Quando partono, partono così i poliziotti, quando devono partire per motivi giusti non partono. E quando i motivi non sono giusti? Vanno avanti, poi l’aggiustano come vogliono.

Nel frattempo due donne anziane, che avevano sentito quei discorsi, si avvicinarono, per dire la loro. Ma inizialmente i punti di vista non parevano convergenti. Volevano far sparire quei ragazzi, disse l’una, insomma quello che avevano fatto l’abbiamo visto! – rispose l’altra. Manuel si mise in ascolto di quella conversazione che avveniva davanti a lui e per lui, come una dedica o un regalo:

-       ma no, non hanno distrutto niente, la polizia ne ha massacrati centinaia;

-       c’erano dei Black Block…

-       no assolutamente, loro hanno fatto casino davanti alle carceri e poi in Via Trebisonda, c’era una disorganizzazione completa, i poliziotti non conoscevano la città, in piazza Alimonda c’era un momento di caos totale;

-       io ho visto in televisione quello che hanno fatto…

-       io invece ero qua, ha presente la chiesa di S.Pietro dove c’è la scalinata? Io mi ero fermata lì e vedevo venire avanti il corteo, gente di una certa età, bambini tutti belli colorati, laggiù verso la fiera del mare, c’era una fila di poliziotti pazzesca, una cosa… a un certo momento questo corteo di persone come me, come lei, le hanno pestate;

-       certo che portare dei bambini in corteo!

-       ma la manifestazione era pacifica!

-       lo avevano detto da molto tempo che sarebbe successo…

-       scusi io non lo accetto un discorso così. Ho visto coi miei occhi quante bombe lacrimogene hanno buttato, sono arrivate fin qua sopra. Ho visto quattro o cinque ragazzi, uno si è sentito male, me li sono portati qui, ho dato loro da bere, erano dei ragazzini!

-       ma signora chi è stato allora a fare quel macello?

-       sono stati i black block ma quelli sono pagati e tra loro ci sono anche gli sceriffi delle forze di polizia. Ha presente la strada che da corso Aurelio Saffi arriva alla fiera del mare?

-       io come le ho detto non ero qui in quel periodo…

-       si ricorda Giovanna Piturro che ora è giornalista a La Spezia? Lei era lì appoggiata a un muretto e dal basso c’erano dei poliziotti che gridavano le cose più oscene

-       ma poi li hanno condannati?

-       certo che li hanno condannati

-       ma è giusto, va bene, se le cose sono andate così!

-       anche qui in via Diaz, si è scoperto che quel poliziotto del giubbotto non era vero, se lo era tagliato da solo, e le molotov le hanno portate qui quelli della polizia. Io avrei detto solo una cosa: volete ispezionare? Non c’è problema, bussate, entrate e, se proprio volete, metteteci con le spalle al muro;

-       c’erano anche dei violenti?

-       no assolutamente, sapevano già tutto prima… quella sera lì mio figlio era dalla sua ragazza che abita in San Fruttuoso, a un certo punto Andrea mi telefona e dice: mamma ho cercato di venire a casa ma in fondo a Via Trento c’erano dei carabinieri che gli hanno detto “tu dove vai?” e lui ha risposto “Io abito lì” e loro hanno detto “se fossi in te non ci andrei!”. Allora lui pensando al suo motorino ha detto “me lo rovinano” e quindi è andato a dormire dalla Giovanna. Insomma qui sapevano tutto capisce signora?

-       capisco sì!

-       tutto per demolire il social forum.

Manuel non sapeva cosa dire, apprese da quelle due signore la notizia della conclusione del processo che aveva condannato i criminali della Diaz, un processo terminato dopo oltre dieci anni. Ma non gli importava molto. Nell’assegnazione della pena molti trovano soddisfazione o vendetta, lui no. Per lui erano importanti le parole che aveva ascoltato: nessuno aveva dimenticato, nessuno aveva male interpretato, il potere non era riuscito a cancellare la verità.

Non ci fu un colpo di spugna. Fu anzi con stupore che lesse nell’elenco dei condannati il nome di colui che, soccorrendo Anna, aveva scolpito nel suo animo quel gesto di pietà. Si chiamava Michelangelo. Precisiamo, per l’anagrafe, che si trattava di Michelangelo Fournier, vicecomandante del Nucleo Speciale antisommossa di Roma.

Agostino Roncallo, insegnante e scrittore, 4 dicembre 2016

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