La stella polare

Abbiamo superato l’86° parallelo, mai nessuno era arrivato fin qui.  Le provviste sono ormai finite e non ci sono animali né volatili, su questo deserto di ghiaccio. Cosa fare? Andare avanti ancora? Sarebbe la morte di tutti. Il polo è, la morte. Le nostre vesti sono uno strato di ghiaccio e gli stivali sono diventati così duri che, per levarli, bisognerebbe farli a pezzi. Forse, se il nostro procedere non fosse stato così lento, ora saremmo laggiù: meno di trecento miglia ci separano da quel punto della terra chiamato “polo”. Ma a ogni istante le slitte si rovesciano, le corde si spezzano, casse e cassette cadono nella neve costringendoci a rifare il carico. I cani poi corrono impazziti finendo sistematicamente in qualche crepaccio. Il capitano Cagni ha deciso  allora di piantare la bandiera italiana su questo terreno, che nessuno ha mai calpestato. Non andremo oltre. Dobbiamo abbandonare l’idea di arrivare alla meta e affrettarci, rientrare. Non prima però di aver consumato un pasto: c’è anche una bottiglia di champagne che, religiosamente, era stata conservata per il polo. Si brinda. Si brinda al re, alla regina, al Duca, all’Italia e i ghiacci del polo ripetono le nostre parole, questi icebergs secolari ascoltano per la prima volta voci umane e le riecheggiano, meravigliati.

Allora ripenso a un prato verde della mia infanzia, di fronte a una vecchia villa, Villa Verzetti, mi pare. Avevo otto anni. Quel prato era il mio mondo, lo percorrevo in tutta la sua estensione fino a una staccionata che lo separava da un campo incolto. Oltre quel campo una grande strada carraia era percorsa da veloci destrieri e da carrozze. Arrivavo a quel limite e guardavo oltre, là dove l’erba cresceva alta, dove avrei voluto andare e nessuno era mai stato. Se avessi potuto, avrei superato quella barriera per calpestare quel terreno vergine e arrivare laggiù, dove  di nascosto avrei potuto vedere passare i cavalli. Tuttavia temevo quel passo, ne avevo paura, avevo sgomento di tutte le proibizioni. Da quel prato e da quella villa uscii invece, attraverso il cancello principale, il giorno in cui mia madre mi disse di seguirla in bicicletta, sull’asfalto di quell’estate. Mia nonna e la sorellina ci avevano preceduti, a piedi. Quando li incontrammo, dissero di fermarmi e scendere, forse per non suscitare le invidie di mia sorella. Partii invece, a tutta velocità e con l’angoscia dentro, verso il mondo che non conoscevo. Raggiunsi dopo qualche chilometro il villaggio di Serravalle Scrivia e mi nascosi in un sottopasso ferroviario, con il cuore che batteva forte. C’era in me il conflitto tra la possibilità di conoscere e i suoi limiti. Ogni bambino teme le prescrizioni. Ma alla paura si accompagnava un senso di euforia e anche quando, dopo alcuni minuti, vidi la nonna avvicinarsi alla mia ricerca, rimasi nascosto, non mi rivelai: quella fuga non poteva durare a lungo e per questo volevo respirare ancora qualche minuto di quel mondo nuovo. Poi inforcai allora la bicicletta e ricercai la strada di casa. La ritrovai, non so come. Ho rimosso i rimproveri del ritorno, sicuramente veementi, la mente ha voluto conservare solo l’emozionante libertà di quei momenti, il suo grido interiore.

Anche questa dal polo sarà una fuga affannosa, troppo pochi sono i viveri disponibili e troppo grande la distanza che ci separa dai nostri compagni, in attesa nella baia di Tepliz. Anche in questo caso, come nei giorni di Serravalle, spero di ritrovare la strada di casa. Riposeremo solo un poco prima di riprendere la corsa tra le nevi, le bufere, le nebbie, i venti gelati. Fosse per me, proseguirei questo cammino su un terreno vergine, consapevole dell’impossibilità di un ritorno, ubriaco di infinito. Razionalmente comprendo però che, vivendo, avrò altre possibilità, il ricordo della mia infanzia mi aiuta, troverò altre biciclette da inforcare. Lascerò dunque questo mondo dove ogni passo è scoperta, per tornare in quello dell’ignoranza, dove ogni dato è noto, risaputo. L’ignorante non è affatto colui che non sa, bensì colui che sa troppe cose per poterne conoscere di nuove. In un certo senso, al ritorno mi piacerebbe diventare un contrabbandiere che usa le certezze come merce di scambio: un elemento certo in cambio di uno ignoto. Ciò che so in cambio di ciò che non so. Tutti crederanno di fare affari con me, l’ignoto non è molto considerato dalle nostre parti. Nei porti delle città europee, ormai densamente abitate, affluiscono di continuo nuove merci, gli abitanti acquistano spezie e chiedono notizie di mondi lontani. Nel porto di Genova, la mia città, potrei parlare con i marinai in partenza, dire loro: udite, sono tornato dal polo con un po’ di conoscenze nuove! Le vogliamo sapere anche noi, ci saranno molto utili, cosa possiamo offrirti in cambio di ciò che dirai? Mi basterebbe sapere qualcosa che non sapete. Accettereste? Accetteremmo.

Il nostro viaggio era iniziato a Oslo il 12 Giugno 1899 con lo scopo di arrivare in nave nel luogo più settentrionale possibile, per poi procedere con le slitte e i cani verso il polo. A questo fine, il Duca degli Abruzzi aveva acquistato sui mercati norvegesi la migliore nave possibile, la Jason, una baleniera a tre alberi che serviva per la caccia delle foche. Questa nave, che fu da noi ribattezzata Stella Polare, era lunga 48,50 metri e larga 8,75, alta 9 metri circa, aveva un pescaggio dai 5 ai 5,5 metri, una portata di 600 tonnellate e una macchina da 60 HP nominali che permettevano una velocità di 6-7 miglia.

Lavorammo a lungo per apportare a quella baleniera tutte le modifiche necessarie alla nostra spedizione, per esempio costruimmo gli alloggi dell'equipaggio accanto alla caldaia della sala macchine, in modo da poterne sfruttarne il calore. Per i centoventi cani necessari alla spedizione, che erano stati acquistati in Siberia, furono costruite contro le murate due file di gabbie sovrapposte, divise l'una dall'altra da paratie in legno.

Fu proprio in quei giorni trascorsi a Oslo che ebbi occasione di parlare con il nostromo Andresen, norvegese, autentico lupo di mare. Volevo capire a cosa saremo andati incontro:

- Credevo che la Norvegia, così vicina all'artico, avesse un clima più rigido. Respiro invece un'aria mite, quasi primaverile.

- Aspetta di arrivare sulle coste settentrionali e vedrai che brividi!

- Mi hanno detto che sui quei mari si possono incontrare montagne galleggianti!

- Eccome, si chiamano icebergs e molti hanno dimensioni davvero enormi.

- Immagino che rappresentino un grosso pericolo per le navi!

- Un pericolo tremendo. Una volta la nave sui cui viaggiavo entrò in collisione con uno di quei colossi di ghiaccio!

- E venne distrutta?

- No, ma ci scaricò in coperta una dozzina di orsi bianchi, affamati e ferocissimi!

- Questa poi! Non immaginavo che gli orsi amassero attraversare il mare a bordo di zattere di ghiaccio! - dissi con tono ironico.

- Non è certo loro intenzione farlo! Accade che nei giorni del disgelo, verso la fine di Giugno, grandi banchi di ghiaccio si stacchino dal pack e alcuni di questi orsi vi rimangano intrappolati.

Il pensiero tornava a quegli orsi intrappolati, mi domandavo da dove venissero e quante miglia marine avessero percorso a bordo di quei ghiacci, che finivano per sciogliersi nella loro deriva verso sud, quando la temperatura superava lo zero. Giungevano nel mondo abitato così come un messaggio dentro una bottiglia si arena su una spiaggia, proveniente da chissà dove. Avevo come l'impressione che essi fossero segnali, o emissari provenienti dal mondo che ambivo raggiungere, e che fossero latori di tutte le proibizioni, gli avvertimenti e le minacce, che precludono il passo alle nuove scoperte.

Il Duca degli Abruzzi era solito non lasciare nulla al caso, era un uomo dal carattere energico, grande esploratore, uno dei migliori allievi dell'Accademia Reale di Livorno. Gli agi e lo splendore della vita di corte gli andavano stretti, detestava la sfaccendata ritualità mondana e nei giorni dell'ozio sognava tempeste e paesi lontani.

Il carico della nave avveniva rapidamente, davanti agli occhi del Duca e a quelli di una folla curiosa. Occorreva affrettarsi perché alcuni cacciatori di balene, provenienti dal nord, avevano detto di aver incontrato pochi ghiacci perché il clima, quell'anno, era più mite del solito. Partire subito significava dunque trovare acque navigabili, ritardare di qualche settimana avrebbe potuto rivelarsi fatale. Quando tutto fu pronto per la partenza, notammo che una folla immensa si era radunata sulle banchine. I marinai delle navi ancorate nel porto erano saliti sui pennoni, sulle coffe, sulle crocette, per gridare il loro saluto; ultimo a salire sulla nave fu il Duca che arrivò a bordo di una scialuppa dopo aver ricevuto i saluti delle autorità locali. Era il momento degli addii e della commozione. Conservo gelosamente una fotografia scattata nei giorni precedenti la partenza, al momento dell'imbarco dei cani. Io sono il primo sulla destra, ho una mano in tasca e ostento sicurezza dietro quei baffi che da poco tempo avevo deciso di lasciar crescere. Accanto a me ci sono il giovane Quercini e il corpulento capitano Cagni.

Le ore che precedevano la partenza erano cariche di emozioni. Ci attendevano luoghi inesplorati e l'attesa era la stessa di tutte le esplorazioni della mia infanzia, quando abitavo in Albaro. Albaro è la collina di Genova, da lassù i Fieschi e i Doria, le famiglie che detenevano il potere, potevano guardare dall'alto le mura della città e l'ingresso di Porta Soprana illuminato da fuochi. Si partiva verso il Nord, con l'obiettivo di raggiungere la Terra di Francesco Giuseppe e, lì, svernare. Il destino della Stella Polare era di rimanere imprigionata dai ghiacci in quell'inverno, e di dover aspettare la primavera successiva prima di riprendere il largo. Si trattava di raggiungere il punto più a nord possibile prima di rimanere prigionieri e poi, quando il tempo l'avrebbe permesso, andare in direzione del polo con i cani e le slitte. L'idea era di scaglionare sulla terraferma depositi di viveri, in modo da assicurarsi il ritorno. Nessuno avrebbe potuto danneggiarli, non c'erano abitanti su quelle terre, non c'era nessuno. Nessuno, come in quella villa di Albaro dove noi, bambini andavamo a giocare a calcio. Si chiamava Villa Bombrini. Un tempo doveva appartenere a qualche famiglia nobile ma, verso la fine del secolo, era stata abbandonata. Un giorno arrivarono degli operai che lungo il perimetro di quell'antica abitazione sistemarono uno steccato per impedire agli estranei di avvicinarsi: da lì a poco sarebbero iniziati i lavori di ristrutturazione e quell'antica villa sarebbe diventata un conservatorio. In breve tempo trovai il passaggio, uno dei legni era allentato e non fu difficile penetrare all'interno. Mi trovai di fronte a una casa spettrale, porte e finestre aperte, vuote le stanze. Mi affacciai alle grate panciute, logore, contorte, e guardai all'interno. Mi colpì una piccola cappella privata, c'era un altare, il tabernacolo e un ostensorio abbandonato. Come se gli abitanti fossero fuggiti improvvisamente e avessero abbandonato la casa, le cose. Mi pareva di vederle così, come erano state lasciate al momento di quella fuga precipitosa.

Nel corso del viaggio verso il mare del nord vedemmo in lontananza apparire qualche veliero, alcuni delfini di grosse dimensioni cavalcavano di tanto in tanto le onde. Giunti sulle coste settentrionali della Norvegia vidi il colore del mare farsi più scuro. Sono più scure di quelle dello Skagerrak, una qualche tempesta deve averle sconvolte, mi disse Andresen. Una tempesta? Sì sì, ma lontanissima, scoppiata probabilmente nell'oceano artico. Le onde quando non trovano sulla loro via terre di grandi dimensioni si propagano a distanze immense.

Non capivo bene quale nesso logico unisse la tempesta al colore dell'acqua, avevo tuttavia l'impressione che quel buio fosse solo un'anticipazione di quella lunga notte polare che poco tempo dopo avrebbe avvolto la spedizione. Pensavo a questo e osservavo le coste norvegesi, frastagliatissime. Il mare aveva scavato insenature profondissime, chiamate fijords, "fiordi" nella nostra lingua. In certi punti sembrava che le acque penetrassero nel cuore di quelle regioni e l'occhio, ingannato dalla prospettiva, vedesse vascelli navigare tra i boschi come se, invece di scendere verso il mare, cercassero di raggiungere la cima di quelle montagne. Avevo cattivi presagi e la sensazione che, da quel mondo inesplorato, qualcuno ci inviasse dei messaggi di pericolo o, meglio dire, degli avvertimenti. Dopo gli orsi su zattere di ghiaccio, provenienti da chissà dove, ecco ora le acque dalla tinta scura, spinte fino a noi da lontane correnti, come se qualcuno laggiù avesse versato nei mari una specie di inchiostro sapendo bene che sarebbe giunto fino a noi. Ma non furono questi gli unici segnali. Un giorno un piccione viaggiatore si posò sull'albero maestro e venne immediatamente catturato: legato a una zampa aveva un piccolo tubo chiuso all'estremità superiore con un po' di cera. All'interno vi era un messaggio di cui ricordo benissimo l'intestazione: "Dalla spedizione polare Andrée al giornale Aftombladet di Stoccolma". La spedizione Andrée era partita due anni prima della nostra e di essa non si seppe più nulla, era come scomparsa, inghiottita dai ghiacci. Il testo del messaggio recitava: "13 Luglio, ore 12 e 30 minuti, latitudine 82° 2', longitudine 15° 5', rotta verso Est, tutto bene a bordo". Per quanto sembrasse impossibile, pensai inizialmente che quel piccione avesse volato per due anni in lungo e in largo con quel messaggio ma c'era anche la possibilità che qualcuno della spedizione fosse ancora vivo. Se avesse trovato una terra abitabile in quel "di là" inesplorato? Se così fosse avrebbe potuto continuare a inviare messaggi verso il mondo dei viventi, con la speranza che da qualcuno fossero raccolti.

Tra queste riflessioni, che accompagnavano quel viaggio e ingannavano il tempo in quelle interminabili giornate, la Stella Polare superò Capo Nord, entrò nel Mar Bianco per dirigersi verso il porto di Arcangelo, una delle più importanti città dell'impero russo. Da lì piegò decisamente verso settentrione. Lungo il percorso incontrammo terre non registrate sulle carte: a volte erano grosse rocce coperte di neve, in altri casi erano vere e proprie isole che si aprivano agli sguardi meravigliati di noi naviganti. Quante saranno quelle ancora da scoprire? Difficile dirlo. I ghiacci le nascondono gelosamente, come se volessero proteggerle dagli occhi indagatori dei marinai. Il polo non si lascia derubare e si direbbe che nel suo bianco regno ammetta solo uccelli marini, orsi bianchi, foche, balene gigantesche. Non gli esseri umani. Ai nostri sguardi iniziavano ad apparire vere e proprie barriere di ghiaccio compatto, irto di montagne spaventose che premevano le une sulle altre, fino a urtarsi e a crollare con esplosioni paragonabili alla detonazione simultanea di centinaia di cannoni. Mille urla salgono allora dai crepacci, mille cupi boati corrono sulle croste glaciali. Difficile è descrivere un simile spettacolo. Era come se una forza misteriosa muovesse quei banchi.

Quando arrivammo vicino alla Terra di Francesco Giuseppe la nave aveva rallentato la marcia perché la nebbia si era alzata e il rischio di urtare qualche iceberg non era remoto. Tutti allora salimmo in coperta cercando di spingere lo sguardo attraverso quei vapori crescenti. Sopra la nave passavano, come ombre, uccelli marini perduti nel nebbione. Andresen, che conosceva bene quelle regioni, percepiva l'avvicinarsi dei ghiacci:

- Non devono essere lontani, ci vengono incontro!

- Si tratta di un banco?

- Sì.

- E non potremo passare?

- Forse ci sarà qualche canale ma con questa nebbia non sarà facile trovarlo. Se poi lo troviamo potrebbe risultare chiuso e i ghiacci potrebbero poi richiudersi intorno a noi.

- Forse potremo trovare una baia in cui svernare!

Fu così che la nostra nave riuscì a raggiungere la baia di Tepliz. Lì i ghiacci circondarono lo scafo, sollevandolo. Un grosso blocco in particolare si era incastrato sotto la chiglia e teneva la nave sollevata, impedendole di riacquistare il suo normale assetto. Tutto l'equipaggio faticava a tenersi in piedi. Decidemmo di farlo saltare con una carica esplosiva per permettere alla nave di riacquistare la posizione originaria: rimanendo così inclinata, sarebbe stata sufficiente una nuova pressione dei ghiacci per distruggere le murate e il fasciame. Polvere e dinamite non mancavano a bordo. La dinamite in particolare si rivelò efficace, sgretolò quel ghiaccio e permise alla Stella polare di ritrovare, almeno parzialmente, la sua posizione originaria. Fu così possibile scaricare dalla stiva tutti gli attrezzi necessari per preparare gli attendamenti e porsi al riparo dai primi geli. Svernare a terra era infatti preferibile: nuove pressioni del ghiaccio avrebbero potuto danneggiare la Stella Polare in modo irreparabile.

Il Duca aveva previsto tutto: aveva dotato la spedizione di ampie tende, capaci di sopportare il freddo invernale. Una in particolare era talmente vasta da diventare un vero e proprio quartier generale. Di quei giorni conservo una fotografia che mostra il grande tendone, appena eretto, e una serie di casse ammonticchiate le une sulle altre: dopo averle svuotate, le avevamo utilizzate come rifugi per i cani. In breve fummo pronti per affrontare la notte polare con tutti i suoi orrori: non più albe, non più crepuscoli, non più tramonti. Una notte nera, impenetrabile, cadeva su quelle regioni, le terre diventavano invisibili e i campi di ghiaccio proiettavano sulle nuvole una luce sinistra, cadaverica, che i marinai chiamavano "ice blink". Con il sopraggiungere delle nebbie, tutto sarebbe scomparso: sarebbe rimasto il buio, e l'immensità delle sue tenebre. Mi sentivo pronto al grande salto.

L'attendamento e l'allestimento dei magazzini destinati a conservare i viveri durarono alcuni giorni ma alla fine tutto fu pronto. Le tende erano confortevoli, i letti erano formati da sacconi di pelle d'orso ed erano disposti ordinatamente, le stufe avevano un buon tiraggio. Avevamo inoltre sedie, tavoli e scaffali personali. Nella tenda maggiore c'era perfino una piccola biblioteca di libri d'avventura. Lessi in quei lunghi giorni le "memorie di Napoleone Bonaparte": era un personaggio che mi affascinava, non tanto per le sue conquiste o per il suo carisma, quanto per la capacità di ignorare i limiti della razionalità e spingersi oltre, alla conquista dell'impero russo per esempio, in quell'inverno del 1812. Non importava che la Grande Armée fosse uscita con le ossa rotte dalla battaglia di Borodino: si proseguiva, avanti ancora, oggi come allora, verso la steppa e verso l'inverno.

L'inverno fu terribile. I vestiti e le coperte si irrigidivano, gli stivali non si piegavano più, gli occhi poi si coprivano di ghiaccioli mentre le mani e il naso correvano il rischio di congelare. Inoltre a 50 gradi sotto zero avevo la sensazione di perdere energie, ero in preda a una sonnolenza continua, come se il cervello fosse intorpidito e la volontà annientata. Sulla fronte un cerchio di ferro soffocava i miei pensieri. Il petrolio, il vino e perfino l'acquavite, diventavano blocchi di ghiaccio ed era pericoloso avvicinare le labbra a un bicchiere, c'era il rischio che la pelle vi rimanesse attaccata. Per tali motivi fu proibito l'uso di oggetti di metallo e di bicchieri di vetro.

Ma un giorno, sarà stata la metà di Gennaio, un barlume di luce era apparso all'orizzonte, una luce scialba, un semplice riverbero. Era buon segno, nei giorni seguenti questa luce aumentò gradatamente fino a mantenersi più a lungo all'orizzonte e a diffondersi nel cielo. Era giunto il momento di prepararsi, la marcia verso il polo poteva iniziare, la lunga notte polare era terminata. Si attrezzarono allora le slitte, scegliendo con cura i viveri, le armi e il vestiario più idoneo a resistere ai rigori del freddo. Il Duca sorvegliava tutte le operazioni ed era prodigo di consigli; sul suo volto chiunque poteva leggere una tristezza infinita: in quell'inverno gli furono amputate due dita della mano per evitare il rischio della cancrena e, per tale ragione, non sarebbe partito con noi. Sarebbe rimasto lì, nel quartier generale, ad attendere il nostro ritorno. Quando tutto fu pronto, passò in rivista gli uomini, i cani e le slitte, e diede con voce commossa il segnale di partenza. Le mani si strinsero, gli abbracci furono convulsi, si partiva, finalmente. Era il 13 Marzo.

Ora, siamo qui, l'86° parallelo è superato e la spedizione si appresta al ritorno. Forse, se gli ostacoli fossero stati minori e la marcia più spedita, avremmo potuto raggiungere il polo. Ma il viaggio è stato difficilissimo, il vento ha reso penosa la marcia sollevando nevischio che impediva la vista e screpolava il viso, la rifrazione ha ingannato gli occhi riducendo o ampliando le distanze, inoltre icebergs e piramidi di ghiaccio hanno sbarrato di continuo la strada. Con i picconi abbiamo cercato di rompere quei blocchi ma, superato un ostacolo, un altro ancor più insuperabile si presentava davanti a noi. Spesso siamo sprofondati nella neve, altre volte abbiamo dovuto scaricare e ricaricare le slitte in prossimità di cedevoli ponti di ghiaccio. Tutto ciò ha rallentato la marcia e già dieci giorni dopo la partenza ci si siamo chiesti se i viveri sarebbero stati sufficienti. Oggi è il 26 Aprile e i calcoli non ci concedono ulteriori deroghe: ogni ora che passa può diventare un giorno di fame ed è necessario fare subito ritorno alla baia di Tepliz. Sarà un ritorno rapido, affannoso, ma sarà un ritorno.

Prima di riprendere il cammino voglio però respirare questo silenzio, in questa terra di nessuno. Non mi negherò nulla di questa esperienza, per il tempo che mi è concesso, forse minuti o forse solo secondi. Ora so, e vivo sapendo di sapere. Non pensavo a un calore tanto forte, alle ustioni dell'esperienza conoscitiva. Al mio ritorno tutti vorranno sapere ma a quel punto la conoscenza sarà già fredda e io, mi sentirò morire. Una morte sospesa nell'attesa di un nuovo viaggio, e della vita. Parenti e amici mi chiederanno se ho sofferto il freddo e non so, al momento, come farò a spiegare tanto calore. Qualcosa, mi inventerò. Pazientemente, attenderò una prossima occasione, una nuova partenza e un nuovo ritorno. Ruberò il sapere da altri mondi e me ne andrò tra la gente, col mio segreto. Lo scambierò solo con altri marinai, ciò che so in cambio di ciò che non so. Li aspetterò nel porto, sulla banchina di scarico delle merci, arriverò alle loro spalle e dopo uno sguardo d'intesa bisbiglierò loro nell'orecchio. Accettereste? Accetteremmo.

Agostino Roncallo, insegnante e scrittore, Stresa, 10 novembre 2017

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Stalingrado

Era il 12 Settembre quando il generale Zukov venne convocato, insieme al capo di stato maggiore Vasil'evskij, nell'ufficio di Stalin. Le notizie dal fronte erano tutt'altro che buone e i due malcapitati temevano di dover affrontare l'ennesima sfuriata del "capo". Entrando, Zukov vide alle pareti due quadri mai visti prima. Evidentemente erano stati appesi di recente: il primo era un ritratto di Alexandr Suvorov, il flagello dei turchi, mentre il secondo raffigurava Michail Kutuzov, il più ostinato tra gli avversari di Napoleone. I due generali si scambiarono un'occhiata: niente di quanto succedeva tra le mura del Cremlino era casuale e quindi non poteva esserlo neppure la presenza di quei quadri. In un'atmosfera silenziosa, Zukov aveva dovuto spiegare cos'era andato storto nel corso di quella guerra, adducendo la carenza degli effettivi e l'insufficienza di artiglieria e carri armati. Stalin non disse nulla, chiese di poter vedere la carta con le riserve disponibili e si mise a studiarla da solo, alla sua scrivania. A quel punto i due generali si ritirarono in un angolo della stanza, borbottando tra loro. Georgij, disse Vasil'evskij, il capo oggi non pare di cattivo umore, e se tentassimo di proporgli quella nuova soluzione di cui abbiamo discusso in viaggio? Ma tu, tu sei matto, rispose il primo. Non fecero in tempo a concludere il discorso che Stalin, dotato di udito finissimo, gridò dalla parte opposta della stanza: quale sarebbe questa "nuova soluzione"? I due generali furono colti alla sprovvista, accennarono la loro idea che era assai fumosa e, per tutta risposta, si sentirono dire: andate allo stato maggiore e riflettete con molta attenzione su quello che si dovrebbe fare a Stalingrado. Poi, tornate qui, a riferire. Stalin non aveva dunque escluso la possibilità di attuare il loro piano.

I due generali passarono la notte e il giorno successivo a studiare la possibilità di creare nuove armate e corpi corazzati da utilizzare contro l'esercito tedesco. L'idea di Zukov era quella di accerchiare i tedeschi a Stalingrado, i quali avevano i fianchi deboli perché tutti i loro sforzi erano concentrati sulla conquista della città. La sesta armata di Von Paulus aveva infatti percorso migliaia di chilometri e dopo quella corsa, aveva lasciato un vuoto alle spalle. Si poteva attuare una manovra a tenaglia ma sarebbero servite ai russi abbondanti forze per circondare i tedeschi con un attacco in profondità. Con questo piano la sera successiva i due si ripresentarono a Stalin che chiese loro cosa avessero escogitato. Chi riferisce? Entrambi, fu la risposta, dato che siamo dello stesso parere. Inizialmente il dittatore sovietico apparve perplesso, temeva che in questo modo si potesse perdere Stalingrado, subendo così l'ennesima umiliazione ma, alla fine, diede pieno appoggio al piano. Mi raccomando però, disse congedando i due generali, occorre massima segretezza; nessuno, a parte noi tre, deve essere al corrente di tutto ciò. L'operazione era dunque progettata: il suo nome, sarebbe stato, Uranus.

Lo stesso giorno in cui Stalin era a colloquio coi suoi generali, Luigi Paleari si trovava a Voroscilovgrad. Era il 7 Settembre 1942. Il tempo era bello, la notte un po' fredda e lui, lui avrebbe desiderato passare una bella serata, in compagnia, con gli amici. Poi però, all'improvviso, arrivò un ordine, un ordine di partenza. Per dove, non si sapeva. Come conducente del 250esimo autoreparto pesante si mise alla testa di un convoglio che doveva consegnare un carico di munizioni ai tedeschi. Ci si domandava: ma qual è la nostra destinazione? Io non so, tu lo sai? Nessuno dei militari, proprio nessuno, conosceva la risposta. Poi, superata Millerovo, i mezzi erano rimasti senza benzina e l'intera colonna dovette fermarsi, pernottare, lontano dai centri abitati. Il rischio era di venire avvistati dal nemico, di essere attaccati dai partigiani. Fu una notte inquieta, e malinconica. Aerei russi passarono sulle loro teste ma non accadde nulla, forse erano di ritorno da una missione o, forse, avevano esaurito le munizioni. Chissà. I soldati fecero un respiro di sollievo. Per loro fortuna, alle 9 del mattino i rifornimenti finalmente arrivarono, si poteva ripartire: direzione Kalac, sul Don. L'autoreparto non si era mai spinto così in avanti, verso est, verso la terra di nessuno.

Luigi ripensava al giorno del suo arrivo in Russia, due mesi prima. Aveva visto pianure immense, in cui l'occhio si perdeva, qualche pezzo di terreno coltivato a segale e le case, case con pareti di fango e tetto di paglia. Quella sera, dopo aver accompagnato gli ufficiali in città con la sua Fiat 1100, era andato a teatro per vedere una compagnia italiana e ascoltare musica. La musica di casa. Quanta nostalgia suscitavano quelle note! Percorrevano leggere le strade che portano alla periferia del cuore e, da lì, lo accarezzavano, con parole dolci.

La prima grande città che aveva visto era stata Dniepropetrovsk. Era una metropoli dai grandi edifici, enormi complessi tutti uguali e poveri dal punto di vista architettonico. Interamente bombardati. Ne rimanevano scheletri, spettrali facciate costellate da finestre o, meglio dire, da buchi neri che trasmettevano un senso di inquietudine. La voce risuonava cavernosa al loro interno: c'è qualcuno, c'è qualcuno qui dentro? Veniva da pensare che quei casermoni non dovessero essere molto diversi prima dei bombardamenti. Quelle cattedrali, nel deserto dei sentimenti, erano naturalmente disabitate, la lugubre opera d'arte di un qualche scultore surrealista. Possibile, si chiedeva Luigi, che qualcuno avesse davvero vissuto là dentro?

A Kalac c'era un ponte. Lo passarono. Solo a quel punto la destinazione diventò, finalmente, chiara: Stalingrado! Quel ponte era l'ultimo. Lì, finiva il mondo. Il mondo era quella porzione di territorio che tedeschi, italiani, rumeni e ungheresi avevano conquistato, e trasformato: nel mondo c'erano magazzini, la sussistenza, case di tolleranza e nuove strade ferrate con binari, a scartamento ridotto. E il confine era il fiume, il Don. Oltre si apriva una landa, vasta, disabitata, al fondo della quale c'era il Volga, e Stalingrado, la città di Stalin, la città simbolo assediata, dalle truppe tedesche. In mezzo, nella terra tra i due fiumi, l'ignoto aveva le forme di un territorio che nessun esercito controllava veramente. Si sarebbe potuto incontrare chiunque. Chi è laggiù, che si avvicina? Amici, o nemici? Bisognava stare in guardia, sempre.

All'alba la colonna passò quel ponte e avanzò, verso mezzogiorno fece una sosta. Allora i soldati scesero dai camion per sgranchirsi le gambe, e fare qualche fotografia: c'erano molti carri armati in quel luogo, carcasse vuote, bruciate, un vero e proprio cimitero. Saliamo ragazzi, saliamo su quello! In un attimo tutti erano pronti per lo scatto e Luigi, mani sui fianchi, era più in alto di tutti. Quel T34, così era denominato quel tipo di carro, era una loro conquista.

Quando Luigi tornò verso la macchina, una gomma era a terra e, subito, si mise al lavoro per sostituirla. Ci riuscì in breve tempo. I militari avrebbero voluto sostare un po' a Kalac, quel villaggio aveva il sapore dei posti di frontiera, lontani baluardi di un mondo che solo la fantasia avrebbe saputo immaginare. Ma i tedeschi avevano necessità di munizioni e allora, allora si doveva proseguire, alla ricerca del luogo della consegna. A un certo punto si mise a piovere, era il 14 Settembre. Le piogge autunnali, in Russia, sono violente: le strade si trasformano in fiumi di fango, le ruote degli automezzi iniziano a slittare e gli autisti premono, disperati, sul'acceleratore. Le braccia che, con sforzo sovrumano, cercavano di far uscire i mezzi da quel pantano, erano inutili. Forse neppure un argano sarebbe stato sufficiente.

Sul far della sera, mentre il cielo non prometteva nulla di buono, Luigi raggiungeva con la sua auto il luogo stabilito. La macchina precedeva il grosso della colonna di qualche chilometro. Ma all'appuntamento non c'era nessuno e, quel che era peggio, neppure la colonna, rimasta attardata, compariva all'orizzonte. Gli unici tedeschi presenti laggiù facevano parte del piccolo reparto di una batteria antiaerea della Flak. Gli ufficiali italiani decisero allora di proseguire sulla Fiat, verso Stalingrado, per andare incontro ai tedeschi, che non potevano essere molto lontani. A un certo punto si fermarono: la città era lì, davanti ai loro occhi, distante non più di 20 chilometri. Quella città epica, simbolo della lotta del popolo russo e della sconfitta del nazifascismo, poteva essere raggiunta. Sarebbe bastato che un ufficiale dicesse, andiamo, andiamo avanti ancora un poco. Ma la pioggia, aumentava di intensità e non c'era da fidarsi, non c'era proprio da fidarsi, in quella terra di nessuno. Si decise allora di tornare indietro nel luogo dove le munizioni avrebbero dovuto essere consegnate ma, al sopraggiungere della sera nessuno era ancora arrivato: né i tedeschi, né la colonna dei camion italiani. Gli ufficiali avrebbero voluto consumare il rancio ma non potevano sapere che la colonna, con le cucine, era rimasta impantanata nel fango, laggiù, nella pianura. Cosa fare allora? Non rimaneva che chiedere ospitalità a quelli dell'antiaerea. Improvvisamente si scoprì che tra essi c'era un italiano, di Ortisei, che era stato chiamato alle armi proprio dai tedeschi. Venne accolto come un fratello, fu un grande abbraccio. Lui offrì del salame e del caffè, caldo. Chi avrebbe mai pensato di incontrare un italiano, laggiù, sul Volga. Chi sei? Come sei arrivato fin qui? I militari italiani, come bambini, avrebbero voluto sapere tutto di lui. Nel frattempo scendeva il buio. I tedeschi erano a loro volta meravigliati: quelli, erano i primi italiani a vedersi sul fronte di Stalingrado, i primi a passare il Don. Scendeva il buio e Stalingrado bruciava, in alto aeroplani andavano a bombardare la città. Scendeva il buio e c'era la necessità di pernottare. Dormirono in tre in una buca nel terreno, chiusa dal telo della tenda. Unica coperta: il cappotto militare, il cosiddetto pastrano. Non fu una notte tranquilla, il rumore degli aerei che andavano avanti e indietro da Stalingrado era continuo, incessante. E a mezzanotte, arrivò la pioggia. Le preoccupazioni di Luigi aumentarono: pioggia voleva dire macchine bloccate, in quel fango che tutto ricopriva. Ma poco dopo sentì arrivare il vento, un vento benedetto che avrebbe con ogni probabilità asciugato quel terreno melmoso. E, col vento, arrivò anche il sonno, un breve sonno durante il quale Luigi ritornò col pensiero a quei pochi mesi trascorsi nella terra dei girasoli.

Il primo contatto con la crudeltà della guerra era avvenuto il giorno che, tornando a Voroscilovgrad, aveva visto due soldati tedeschi, uno era morto e l'altro ferito gravemente. Per un incidente con la moto, si disse. Luigi li caricò e li portò a tutta velocità nel più vicino ospedale. Ma la guerra, la vera guerra, la vide il 25 Agosto del 1942. Era stato mandato in missione per consegnare munizioni ma arrivato nel luogo convenuto gli venne detto di proseguire verso la prima linea perché la divisione Sforzesca era da tre giorni sotto attacco e necessitavano rifornimenti. Luigi proseguì. Fu a quel punto che incontrò colonne di soldati dirigersi verso le retrovie: erano uomini distrutti, spezzati dalla guerra, alcuni avevano abbandonato le armi, le divise erano lacere. Quello spettacolo lo impressionò molto. Erano i giorni della cosiddetta "prima battaglia difensiva del Don", i russi avevano attaccato in forze per saggiare la consistenza delle difese italiane e quella divisione, composta per lo più da giovani inesperti, non aveva retto all'urto. Venne soprannominata "cikaj", che in lingua italiana significa "scappa". Quel nomignolo rimase come un marchio, una ferita, profonda, più profonda di quella di un'arma.

Ma oltre alla guerra, luigi aveva conosciuto anche l'ospitalità del popolo russo. Gli italiani erano ospiti graditi nelle case, spesso erano invitati a pranzo, le ragazze portavano il grammofono, si ascoltava musica e si ballava, oppure si stava seduti, a raccontare barzellette. 

Indelebile nel suo ricordo è il giorno 24 Giugno quando, dopo diciotto ore di viaggio percorsi a una media di 10 all'ora, l'autocolonna arrivò a Lumbj. Proprio nel momento del suo arrivo, duecentocinquanta tra partigiani, donne e bambini, erano stati giustiziati dai tedeschi: è una cosa che atterrisce il cuore a noi italiani, scriveva Luigi sul suo diario. E quel verbo "atterrire" porta dentro di sé un senso di sgomento che percorre inesorabile, oggi, ancora, le vie del cuore.

Davanti a Stalingrado il vento aveva veramente reso praticabile quel terreno insidioso e, al mattino, grazie a un pieno di benzina fornito dai tedeschi, la Fiat di Luigi poteva ripartire. Si tornava indietro, si lasciava quella di terra nessuno, il rumore degli aerei, le fiamme e, il buio. Si lasciava tutto questo. L'autocolonna che si era impantanata fu ritrovata nei pressi di Carpovka. Segnalata la posizione al comando germanico, le munizioni vennero scaricate nel corso di una giornata terribile per il vento freddo mentre continuava, incessante, il rumore degli aerei che andavano e venivano dalla città. Poi alla sera, giunto il momento del riposo, un'incursione aerea piombò sul reparto. Venne lanciato un razzo che illuminò il cielo a giorno, seguito da una bomba che tuttavia non provocò alcun danno alla colonna. Quella notte, Luigi non dormì, troppo alta era la tensione e la paura di non poter fare ritorno a casa. La mattina la colonna riprese il cammino e oltrepassò il Don, questa volta verso Ovest. Sulle strade vi erano molti morti. Fu un viaggio di ritorno travagliato. Mentre le sezioni del reparto rimanevano continuamente attardate per la cronica mancanza di benzina, la macchina guidata da Luigi arrivò a Voroscilovgrad dopo aver percorso oltre 600 chilometri. E poi c'erano i bambini, sempre, ovunque. Una fotografia mostra Luigi seduto accanto alla ruota anteriore della Fiat, al suo fianco un bambino desidera stargli vicino e si mette seduto, a gambe incrociate.

Da quel giorno iniziò una ritirata interminabile, si trattava di sfuggire all'accerchiamento russo, si trattava di tornare a casa. Il piano di Stalin e dei suoi due generali prevedeva ripetute manovre a tenaglia e ogni volta che gli italiani uscivano da un cerchio un altro, più grande, si stringeva su di loro. Una notte Luigi si svegliò, sentì degli spari in città e un freddo tale da aver la sensazione di non possedere più i piedi. Nella confusione più totale vide gli italiani sgombrare in fretta e mandare in malora un sacco di materiali che in altri tempi, sarebbero stati preziosi. Un giorno arrivò una brutta notizia, la strada che avrebbe dovuto essere percorsa era interrotta, un altro accerchiamento stava per chiudersi. Per uscire dall'ennesima sacca non rimaneva che una strada ancora aperta ma, all'intendenza, non c'era più benzina. Se non ci danno il rifornimento, qui ci rimaniamo tutti, pensò Luigi. Tutti. In serata, sotto le incursioni aree, la benzina fu finalmente trovata. La strada verso Mariupol è libera, ma bisogna far presto, presto, disse qualcuno. La carreggiata era però sconnessa e intasata da numerose colonne al punto che, per fare trenta chilometri, Luigi impiegò cinque ore. A mezzanotte venne raggiunto un anonimo villaggio. Di chilometri ne erano stati percorsi circa duecento e la stanchezza era tremenda. Dormirono per terra, su un po' di paglia. Fu un sonno inquieto, si riuscirà a passare? Il nuovo confine, quello tra la gioia della salvezza e la paura della prigionia, era ancora una volta un fiume, in questo caso il Dniepr. Furono momenti febbrili, una corsa contro il tempo. Avanti, sempre avanti, si ripeteva quando, dietro un costone, apparve all'improvviso un fiume e un ponte che, per la speranza che rappresentava, appariva bellissimo. In Italia non se ne erano mai visti così, pensò Luigi. Ma alla vista di quel ponte si sovrapponeva quella di un motociclista che si avvicinava, in una nuvola di polvere. Un italiano?Un russo? Lo guardarono come si guarda un fantasma, un fantasma che, però, parlava italiano: siete del 250esimo?, chiese. Sì, certo, certo, lo siamo. C'è della posta in arrivo per voi. Della posta? Da dove viene? Da dove viene, viene dall'Italia. Ormai, siete usciti dalla sacca. Prendete quella direzione, alla stazione di Kiev troverete un treno. Aspetta, solo, voi.

Agostino Roncallo, insegnante e scrittore, Stresa

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Verbo, io sono nato verbo

Sono un verbo. Proprio così, un verbo! Non lo nascondo: avrei preferito nascere con altra identità, avrei sperato in qualcosa di meno impegnativo, non so, una congiunzione per esempio ma meglio ancora un piccolo segno di interpunzione, di quelli che normalmente passano inosservati. Quello del verbo infatti è un ruolo troppo impegnativo, carico all'inverosimile di responsabilità. Sì perché senza di lui non potremmo proferire parola, non esisterebbe linguaggio: potete togliere, cancellare, qualunque pezzo di una frase, ma non il verbo. Ci sono frasi prive di orpelli, frasi nude, che nulla lasciano alla nostra fantasia; ci sono frasi aride, nella loro secchezza, e di perentoria brevità; ci sono, infine, frasi spoglie come il tronco di un albero in autunno: "Piove!". Frasi dunque prive di tutto, perfino dell'onnipresente "soggetto", ma pur sempre con un verbo.

Certamente, qualcuno ha tentato di far scomparire anche il verbo, ma gli esiti non sono stati del tutto incoraggianti. Un giornale ligure infatti, dopo una bufera di neve così rara in quella regione, decise di esporre davanti a ogni edicola la seguente locandina:

                                      TORMENTA

                                      UN MORTO E

                                    CENTINAIA DI FERITI

Realmente ci si domandò chi fosse colui che, in quella notte tanto fredda, poteva avere avuto l'idea di andare in un cimitero a tormentare dei morti. Non potendo fare a meno del verbo, il nome aveva smesso di essere nome e aveva preso le sue sembianze, cambiando i connotati.

Ma quello che mi infastidisce maggiormente di questa verbale identità è (proprio a me, spirito indipendente!)  l'aver necessariamente a che fare con il nome che svolge la funzione di soggetto della frase. Quella del soggetto è parola di origine latina: sub-jectum è ciò che sta alle spalle, che sta dietro, nelle retrovie della mia esistenza. Come vorrei essere solo, e libero, per camminare a lungo nelle pieghe del nostro linguaggio! Ma ciò non è possibile: Alfredo Panzini aveva detto che "se il verbo è una luce, il soggetto è come una lampada e senza la luce, a cosa serve una lampada?". Non serve a nulla e, dunque, non mi resta che fare, di necessità, virtù. Accetterò quindi di relazionarmi con i nomi.

Da che parte cominciare? Dunque vediamo, la prima cosa che desidero consiste, è naturale credo, nel capire con chi ho a che fare, se

maschi o femmine per esempio. Ben diverso infatti è rappresentare un'azione fatta da una figura femminile rispetto a quella maschile: in quanto verbo, dovrò ingentilirmi all'occorrenza oppure essere più rude e sbrigativo. Ho avuto a che fare con scrittori e scrittri

ci e queste ultime avevano una sensibilità molto particolare e non sempre immediatamente percepibile per me che sono di genere maschile. "Attendere" è per esempio un verbo molto femminile: attendeva Penelope facendo e disfando la sua tela, attendono le "lavandare" pascoliane ("Quando partisti come sono rimasta!"), attendono le povere infelici di Carolina Invernizio così come, oggi, le nonne di Susanna Tamaro. Ma insomma sono alquanto duttile, ho capacità di adattamento e ritengo dunque superabili questi ostacoli. Sono perfino disposto a concedere, ma solo eccezionalmente, che mi si confonda con un nome, come è per il "lavandare" o le "lavandare" di Giovanni Pascoli.

Capisco di non aver però fatto i conti con l'oste (è un modo di dire, tutto è chiaro con osti e ostesse) quando incontro "nipote": chi saresti tu, fatti riconoscere, un nipote o una nipote? Un nome che non cambia se maschio o femmina è un bel grattacapo! A togliermi d'imbarazzo ci pensa però quello sgorbiolino irritante che, con voce flebile flebile, mi dice "sono una nipote": se avessi fatto attenzione all'articolo cui è abituata ad andare a braccetto mi sarei subito reso conto di aver a che fare con una nipote femmina. Buono a sapersi, ho pensato, dunque devo raddoppiare la mia attenzione: non devo guardare solo ai nomi ma ora anche a chi si accompagnano. La faccenda si complica ma non è il caso di scoraggiarsi, si sa, diceva sempre il mio insegnante, nella vita bisogna sempre essere ottimisti. Insegnante? L'insegnante? Aiuto, l'articolo manca della vocale che potrebbe aiutarmi nel riconoscimento, al suo posto infatti si trova un apostrofo. Nutro una profonda avversione per gli apostrofi che si permettono di oscurare il sesso dei miei interlocutori: se mi avessero detto ecco lo insegnante oppure la insegnante, tutto sarebbe stato chiaro, non avrei avuto problemi ma ora… Insomma, diciamo però che il mio insegnante di scuola me lo ricordo bene, era maschio senza ombra di dubbio (correva dietro a tutte le gonnelle che incontrava!).

La vita è dura: se fossi un ragioniere della parola potrei, sempre con gli stessi criteri, costruire frasi a mia immagine e somiglianza. In questa società così aziendalizzata, la spinta a formare ragionieri della lingua è senza dubbio forte ma, ogni volta che ci si prova, sembra sempre che un imprevedibile artista intervenga con il gioco delle tre carte, fino a scombinare i piani delle scienze oggettive. Nel linguaggio vi sono tante norme quante eccezioni. Artista, non mi inganni, dietro il paravento della tua arte si nasconde una donna ammaliante, la tua desinenza in "a" non lascia dubbi: le parole terminanti con "a" corrispondono a nomi di donna. Si è mai visto un Ugo donna o una Anna maschio? Anomalie sessuali a parte, direi di no. Eppure, artista, potresti essere uomo e diventare "un" artista. E non comprendo il perché di tutto questo.

Non posso nascondere che queste difficoltà mi hanno messo un po' in agitazione: all'inizio di questa storia ero allegro come un usignolo e ora sono ferocemente arrabbiato come un leopardo. Usignolo, leopardo, la usignolo, la leopardo, cosa sta succedendo, neppure gli articoli mi aiutano più? L'usignolo e il leopardo sono nomi maschili eppure, essendo animali, non vi è dubbio che debbano esistere entrambi i sessi. Vorrei proprio conoscere la volpe che ha inventato questa bizzarria che è il nostro linguaggio: la volpe, una femmina? Macché, se c'è la femmina ci sarà anche il maschio solo che… la nostra lingua non prevede tale eventualità, ecco tutto. Bel pasticcio. Ebbene, non si dica che non ho fatto il possibile per risolvere anche

questa situazione e coprire così le mancanze del nostro linguaggio: per quanto possa apparire macchinoso, integrerò l'insufficiente nome della volpe e parlerò di volpe maschio e la volpe femmina.

Mi pongo un fine: quello di dare una fine a questa diatriba e mettere una pezza a questo pezzo di scienza per non finire in un pozzo, profondo e senza uscita, e uscirne pazzo. Basta con i nomi maschili privi del femminile e viceversa, basta coi salti mortali, c'è una fine

per tutte le cose, c'è un fine e una fine ma… non sono la stessa cosa! Nella trasformazione di questa parola deve essere successo qualcosa, un incidente o anche peggio: è cambiato il significato. Un incidente di trasporto forse, un autocarro rovesciato sulla strada che dal maschile porta al femminile, un  involucro danneggiato: il fine è uno scopo, la fine è il termine di un'esperienza. Hanno dato uno scrollone alla parola "fine", hanno mosso i bussolotti, i conti non tornano più, neppure nella parola "conti". Chi guidava quell'autocarro? I conti delle Fiandre si ribellano, il loro singolare non é il conto, il conto è quello che deve pagare il responsabile del trasporto, i conti delle Fiandre non pagheranno un centesimo. Questa volta non sarà facile metterci una pezza, semplicemente perché essa non è il femminile di pezzo: la pezza è spesso di tessuto (anche di Fiandra, certamente, se lo usano i conti) mentre un pezzo è una parte di qualcosa. Siamo nel profondo di un pozzo che non é il maschile di pozza.

Sono un pazzo? Non scherziamo, io sono un verbo e quindi, casomai, impazzito. Vogliamo concludere questa vicenda della lingua e rassicurare chi sui banchi di scuola dovrà studiarla, vogliamo fare i conti? Ebbene io sarò allora il conte d'Albafiorita, e voi?

Agostino Roncallo, insegnante e scrittore

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