Integrazione Ue ostaggio di visioni miopi

La minaccia delle pesanti ricadute economiche del coronavirus si somma, in Europa, a un preesistente rallentamento dell’attività economica. Sicuramente serviranno misure straordinarie ed essendo gli spazi di manovra della Bce ormai molto ristretti, il pensiero volge ovviamente alla politica fiscale. In questo contesto si inserisce con qualche difficoltà la Comunicazione sull’efficacia della governance economica Europea pubblicata il 5 febbraio dalla Commissione Ue e passata quasi inosservata. Bruxelles ammette l’eccessiva complessità del quadro fiscale europeo ma giudica comunque in termini positivi i risultati raggiunti e ne evidenzia l’utilità per favorire la convergenza tra le performance economiche dei vari Stati, sottolineando la ripresa di crescita e occupazione.
I dati purtroppo non supportano questo giudizio. In Italia e Grecia il Pil reale è ancora lontano dai livelli pre-crisi e, soprattutto dai Paesi core, come Germania e Francia. Grosse differenze si registrano nei tassi di disoccupazione e nei tassi di interesse pagati da paesi che pure, in larga parte, condividono la stessa moneta. Negli ultimi tempi i rendimenti nominali si sono riavvicinati, ma tra quelli reali (cioè aggiustati per l’inflazione) restano distanze significative.

Le dinamiche di queste grandezze riflettono i forti divari competitivi tra le economie interessate e la frequente coincidenza tra crescita ed eccessivi avanzi delle partite correnti.

Sul punto la Commissione Europea si limita a riportare lo scarso successo nella correzione di questo tipo di squilibri e la possibilità che influiscano sul regolare funzionamento dell’area euro. Come se non fosse così già da molto tempo.

Secondo Bruxelles tra le principali debolezze del quadro economico e finanziario c’è l’elevato livello di debito pubblico di alcuni Paesi, gli stessi ancora lontani dagli obiettivi di bilancio di medio termine e indietro con le riforme strutturali. Da qui la necessità di rendere più efficaci le misure atte ad assicurare la sostenibilità dei debiti pubblici.

Senonché, nello stesso documento, la Commissione riconosce come l’altra priorità sia la crescita, destinata a restare contenuta a meno di azioni di policy per stimolare l’economia. Con una politica monetaria già molto accomodante, la conclusione più logica sarebbe aumentare la spesa pubblica. Eppure, salvo un vago accenno alla possibile revisione delle clausole di flessibilità, manca una concreta capacità propositiva. L’impressione è quella di un pericoloso immobilismo confermata dall’esito dell’ultimo Consiglio Europeo sul bilancio comune per il periodo 2021-2027, conclusosi con le barricate alzate dagli Stati membri sugli zero virgola.

All’Europa fiaccata da Brexit, tensioni commerciali e ora anche dal coronavirus, serve invece un budget centrale di almeno il 3-4 per cento del Pil e, in prospettiva, molto di più. Negli Stati Uniti la spesa pubblica dell’amministrazione federale gira da anni intorno al 20% del Pil, circa 4mila miliardi di dollari in termini monetari.

Considerando anche le uscite dei singoli Stati membri i numeri sono più bilanciati: circa il 40% del Pil negli Usa e il 47% nella Ue. Ma il ragionamento di fondo è un altro e ha a che fare con la ripartizione della spesa tra bilancio centrale e bilanci statali. Negli Stati Uniti il budget federale è dello stesso ordine di grandezza di quello delle amministrazioni statali e locali (anzi, ormai, superiore), mentre in Europa il rapporto è quasi di 1 a 50. E la differenza si vede nei numeri del Pil.

Molti problemi dell’Europa sono l’eredità di una visione miope e perdente di integrazione economica e fiscale che abbiamo il dovere di sanare.

Direttore Generale dell'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Marcello Minenna – Il Sole 24 Ore – 1 marzo 2020

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