Palladio, Bassano e il Ponte. Invenzione, Storia e Mito

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Immagini che si rincorrono come stralci di fotografie che fissano un’idea, o un sogno del passato, alla realtà odierna. Il Ponte di Bassano che attraversa il fiume Brenta è un manufatto che collega non solo due rive e due spazi quindi vicini, ma rappresenta il centro di un mondo di attività e di commerci che da sempre si svolgono nelle alacri botteghe lì intorno. Da lungo tempo è soprattutto il punto focale di strade ed uomini che lo attraversano da Nord a Sud, da Est ad Ovest e si colora guardandolo, di una fantasmagoria di luci ora fredde, mentre si osservano in inverno le cime innevate, ora invece, quasi vaporose e calde, in direzione della foce del fiume nell’Alto Adriatico. Il Ponte di Bassano si qualifica come piazza: luogo d’incontro di persone, come ha sottolineato la Direttrice dei Musei Civici della città, Barbara Guidi, in occasione della presentazione alla stampa della mostra che si apre oggi, dal titolo: Palladio, Bassano e il Ponte. Invenzione, Storia e Mito che segue di pochi giorni la sua riapertura al transito, dopo il restauro durato sette anni, e precede l’inaugurazione a ottobre, con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le prime testimonianze della sua esistenza risalgono al 1200, ma la sua progettazione e realizzazione si lega al nome del grande Palladio e alla sua opera I Quattro Libri dell’Architettura, editi a Venezia nel 1570. Un “carnet” di ponti di carta, di legno e di pietra dell’architetto veneto: i secondi sono stati i più costruiti, ma spesso i più effimeri ed i primi, invece di valore imperituro, sono diventati modelli che sono stati utilizzati in più continenti e in archi cronologici differenti. Il suo gusto per un classicismo che si riallaccia al mondo romano fu spesso alla base dei tanti progetti che ritroviamo all’interno del tomo sopracitato. Un ponte in pietra, costruito in stile classico, l’architetto vicentino sognerà anche per Bassano che invece verrà costruito in legno. A quel progetto si ispireranno tuttavia i successivi rifacimenti seguiti alle rovinose inondazioni e alle sue distruzioni per esigenze militari. La mostra “intriga” perché unisce la storia di questo manufatto, con tutte le sue “rocambolesche” vicende, a partire proprio dal quel progetto di Palladio, alle immagini di esso dipinte che vengono poi accostate, a loro volta, a quelle di altri ponti come quello di Rialto a Venezia, città da sempre sospesa tra gli azzurri delle sue acque e del cielo, ma anche ai ponti di centri come Verona, dove il fiume Adige, ne disegna i contorni e la plasma nella sua fisionomia. Il saggio di Guido Beltramini nel catalogo della mostra a cura dello stesso, di Barbara Guidi, Fabrizio Magani e Vincenzo Tinè, offrel’occasione di addentrarci nella fase di ideazione di alcuni progetti palladiani, e in particolare del Ponte di Rialto, di cui si riproduce l’idea originaria nell’esposizione, grazie al modello ricostruito da Ivan Simonato sulla base di un disegno autografo di Palladio. La mostra diventa quindi un excursus dentro la gestazione di queste “passerelle fantastiche”, a cui si legano sogni ed aspettative, necessità ed immagini visionarie di architetti, ma soprattutto delle persone per cui il ponte svolge una funzione essenziale. Nell’esposizione si ammira anche il grande modello del Ponte di Bassano di Palladio che divenne fonte di ispirazione per il suo rifacimento alla fine degli anni sessanta del 500’. Un secondo ponte che compare nei Quattro libri era destinato al territorio bassanese e attraversava il torrente Cismon. Esso abbandonava la lezione antica romana per avvicinarsi alla maestria dei carpentieri veneziani che sostenevano i tetti delle chiese e dei palazzi con grandi travi composte di più elementi e collegava le rive, in maniera straordinaria, senza piloni infissi nel suolo. Una mappa dalpontiana, visibile nella rassegna, ci restituisce il respiro di una cittadina come Bassano animata di attività e caratterizzata, in quel tempo, da traffici di tessuti, alimenti e legname. Avvenimenti straordinari interessano il ponte come la sua distruzione per una potente inondazione nel 1748 e la successiva ricostruzione, molto discussa, dell’umile orologiaio di Solagna, Bartolomeo Ferracina, seguita dopo sessant’anni, dal suo incendio ad opera delle truppe di Napoleone in fuga. Sarà l’ingegnere Angelo Casarotti di Schio a ideare il nuovo disegno del ponte, più fedele alla progettazione che troviamo nei Quattro Libri di Palladio. Esso traduce l’immagine cara che ci restituiscono i dipinti di quel periodo e poi le prime foto. Demolito ancora, dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, nel 1945, ritornerà alla sua bellezza grazie al contributo del Corpo degli Alpini e verrà inaugurato il tre ottobre del 1948, alla presenza del presidente della Repubblica Italiana, Alcide De Gasperi. L’ultima parte della mostra mette in luce il genio del Palladio che diventa Mito: nel Settecento i suoi progetti trovarono spazio nelle ville russe ed inglesi, ma soprattutto diventarono il soggetto amato di vedutisti come Luca Carlevarjis, Bernardo Bellotto o delle immagini visionarie di Piranesi e di Canaletto nel celebre Capriccio con edifici palladiani.

Patrizia Lazzarin, 29 maggio 2021

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Nuovo museo nel Duomo della città murata

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Entrare in un museo spesso significa  affacciarsi dentro un mondo palpitante di vita, dove quadri, affreschi ed oggetti hanno la potenza evocativa di restituire le voci, i sentimenti e le idee di persone vissute anche in un tempo molto lontano. Certamente quando quelle immagini raccontano storie sacre esse finiscono per acquisire la forza del mistero e a noi, uomini del  XXI secolo, sulle cui spalle poggia una storia millenaria, pongono straordinari interrogativi di fede e di cultura. L’apertura al pubblico  del nuovo museo del Duomo di Cittadella in questo fine settimana, dentro l’antica chiesa, in un percorso che si allunga e si snoda lungo i piani della torre campanaria,  offre al visitatore lo stupore di chi si trova davanti ad una bellezza inaspettata. Al visitatore giunto qui, dopo una passeggiata attraverso le strade della cittadina, circondata da alte e lunghe  mura, dopo essersi fermato  alle quattro Porte che non solo idealmente congiungono questo lembo di terra alle principali vie del territorio, sullo sfondo di montagne che sembrano così vicine, giunge, da subito la percezione delle vicende storiche  che hanno plasmato  questo Comune e quasi, come effetto di un incantesimo che nulla cancella, si sono consolidate  nelle forme degli edifici e dei manufatti artistici che possiamo ammirare intorno a noi. Quella statua di Sant’Antonio Abate che incontriamo all’ingresso della Torre   e che conserva ancora i resti della originaria policromia si riallaccia al periodo in cui sorse Cittadella, nel 1220, e al culto originario verso il santo eremita, invocato a protezione del bestiame e contro il “fuoco di Sant’Antonio”. La chiesa costruita al centro dell’elisse delle sue lunghe mura aveva forme romaniche e mantenne sostanzialmente il suo aspetto ancora nel Cinquecento, come è visibile  in un disegno conservato che risale al  1746 e che riproduce la sua pianta prima della demolizione. L’edificio sacro intitolato ora ai Santi Prosdocimo e Donato mostra, nella primitiva area absidale, lacerti di affreschi che risalgono dalle origini fino al Cinquecento. Accanto alla Madonna con il Bambino e Santa Margherita di metà del Duecento sono ancora visibili  le grandi figure di Sansone, Giosuè, Davide e del gigante Golia del ciclo parietale che eseguì  Jacopo da Ponte, tra il 1537 e il 1539, e che hanno come tema Storie dell’Antico Testamento. Lo stesso artista è l’autore di uno dei  maggiori capolavori che racchiude il museo: La Cena in Emmaus, che risuona nella scelta del soggetto delle tensioni originate nel territorio, in quel periodo, dalla Riforma protestante. Ecco dunque comparire nell’opera quella rondine sopra Cristo e gli apostoli, segno di Resurrezione, e quelle ciliegie sparse  sul tavolo emblema del sangue versato dal figlio di Dio. La scena sacra acquista  così il senso del quotidiano nel racconto del pittore. L’immagine è ariosa e luminosa: un interno che si apre verso l’esterno a simboleggiare la comunicazione fra mondi possibili.  In un altro capolavoro visibile nel museo: Il Compianto sul Cristo morto di Andrea da Murano del XV secolo va in scena un dramma. Le espressioni di sgomento dei partecipanti sembrano cristallizzarsi e, nella loro trasparenza, si confondono e al tempo stesso sembrano fondersi  con l’ambiente, dentro gli azzurri che degradano nei verdi delle acque e dei monti, e viceversa. Quelle cime che stringono la vallata, la nota Valsugana, adagiata ai loro piedi, accompagnano nel disegno delle forme la cittadina fortificata, lungo una traiettoria che fa focus sul dramma in corso. Attimi di concentrazione, un mondo di dolore ed una speranza che sembra farsi lieve e forte nel medesimo tempo, si leggono dentro gli occhi di chi soffre. L’ampliamento del museo ed il suo restauro erano stati affidati agli architetti  Carlo e Annabianca Compostella. Il primo stralcio dei lavori era stato concluso nel 2010 ed il secondo è terminato nel 2020. L’ideazione dell’allestimento delle opere  è frutto della collaborazione fra lo Studio dell’architetto Gianni Toffanello, il Museo Diocesano di Padova e  l’ufficio diocesano per i Beni Culturali. L’idea di un museo di arte sacra era nato fra il 1985 ed il 1986, quando un gruppo di volontari seguiti dal dott. Giuseppe Streliotto propose a Mons. Antonio Miazzi di riunire, restaurare ed rendere visibili al pubblico molti beni storico-artistici che giacevano abbandonati nei depositi. Alla sua realizzazione voluta dalla Parrocchia del Duomo hanno dato il loro significativo contributo, in passato, il Mibact e nell’ultima fase la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo assieme al Comune di Cittadella. Esso narra la storia del luogo attraverso gli artefici e i collezionisti delle sue opere. Non trascuriamo di soffermarci sul grande dipinto del XVI secolo che rappresenta una Flagellazione, attribuita in un primo tempo a Palma il Giovane, ma in questa fase di studi giudicata più vicina allo stile  di Andrea Vicentino o sull’incantevole Adorazione dei Magi del veneziano Leonardo Corona, un olio su tela dell’ultimo quarto del sedicesimo secolo. La Madonna con Gesù bambino in trono opera di Egidio Calderaro ci parla di un altro pittore attivo a Cittadella fra il finire del 500 e gli inizi del 600, della prima metà dell’Ottocento è invece un  Cristo alla Colonna, donazione dei conti Cittadella-Vigodarzere. Tra le sculture lignee, tutte di epoca medievale e rinascimentale, spiccano il busto di una Vergine annunciata, un Crocefisso processionale quattrocentesco e poi ancora un San Rocco eun San Sebastiano del Cinquecento. Tra le testimonianze del passato di arte applicata campeggia il monumentale Apparato per le Quarant’ore in legno intagliato e dorato, il rarissimo Parato in terzo con preziosi ricami del millecinquecento, un reliquario quattrocentesco di Bartolomeo da Bologna  e non possiamo omettere lo Stendardo processionale dedicato a San Girolamo. Per la visita del museo sarà anche possibile usufruire di un biglietto cumulativo che darà l’accesso ad un prezzo scontato  al Camminamento di Ronda sulle mura di Cittadella. Gli orari attuali di apertura sono la domenica ed i giorni festivi dalle ore 10.00 alle ore 12 e dalle 17.00 alle 19.00 nel  periodo estivo e nel mattino del sabato dalle 17.00 alle 19.00. Per gruppi di almeno dieci persone la visita è sempre possibile anche in tempi diversi. Per informazioni e prenotazioni: tel. 049 9404485.

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Pittura come Logos della Poesia

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Ottone Rosai a cavallo delle due guerre mondiali. In Via Toscanella, donne ferme all'angolo della strada, spiccano sul giallo dei palazzi che sembrano arrivare al cielo. Gli edifici ora color senape, ora giallo crema, sfumano nei toni. Sulle loro superfici sono disegnate porte e finestre che si allungano e rimpiccioliscono diventando paradigmi di luoghi solitari. Si respira un'aria di mistero che nasce dallo stupore di trovarsi davanti ad uno spazio che sembra al tempo stesso appartenere al nostro intimo e poi in fretta allontanarsene. La strada limpida per il biancore niveo diventa al tatto, ghiaccio solido. Il dipinto Via Toscanella del pittore Ottone Rosai è uno spazio consacrato all'eternità. Spesso nei suoi quadri ritroviamo quell'attimo sospeso di infinito destinato a rimanere conficcato nel nostro pensiero. In lui si legge la grande lezione di Masaccio che non dimentica l'arte di Giotto e di Cimabue. L'esperienza figurativa del Duecento, Trecento e Quattrocento rimane come dentro un mare, un faro che illumina il suo percorso di artista. Via Toscanella è compiuta nel 1922 a chiusura di quel triennio 1919-1922, per lui fecondo in campo creativo. Sale da biliardo, caffè, osterie sono i luoghi che ama frequentare per cogliere quell'umanità e per narrarla, come spiega Giovanni Faccenda il curatore della mostra che è tornata a riaprire in questi giorni a Montevarchi, nel Palazzo del Podestà. Il racconto non "assomiglia ad una commedia vernacolare ma si distingue come narrativa di spessore universale ove aleggiano affinità con Dostoevskij, Campana e Palazzeschi." Cinquanta opere tra oli e disegni dell'artista fiorentino che si riferiscono tutti ad un periodo preciso della sua vita, compreso nell'arco fra le due guerre, fra il 1919 ed il 1932, saranno visibili fino al 6 giugno 2021. L'occasione offre la possibilità di ammirare dipinti molto famosi, ma anche inediti, provenienti da collezioni private che la tenacia delle ricerche del professor Faccenda fra le persone che ebbero rapporti con Rosai, con i suoi galleristi ed i suoi eredi hanno fatto emergere. Incontro in Via Toscanella del 1922 è la metamorfosi del silenzio della poesia che diventa loquace verbo pittorico. Sguardi muti e rosse bocche serrate esprimono con spirito di sintesi la difficoltà del dialogo fra esseri umani, dentro la via fra quei palazzi, già a noi noti, che diventano ora più scuri nel colore. Per Trattoria Lacerba, ma in genere per molte delle sue opere si adattano mirabilmente alcune affermazioni del saggista e pittore Ardengo Soffici: "questo popolano fiorentino è dei rarissimi, e forse il solo, nella cui anima e nella cui opera si possono ritrovare incontaminati la pura passione per la realtà poetica del mondo e il rispetto per i principi fondamentali e imperituri dell'arte genuina [...] ciò che mi premeva soprattutto di additare al pubblico era ... la squisitezza e la novità del colore, la finezza degli impasti, la sobria energia del disegno, e specialmente l'accento tutto paesano risultante dalla scelta dei soggetti e la maniera casalinga a un tempo sapiente e festiva di trattarli". Ed è proprio nella sapienza nel tratteggiare e comporre piccole riunioni di uomini e donne, coppie isolate o singoli personaggi che leggiamo la cifra stilistica di Rosai, come quando la riconosciamo nell'indolenza dei protagonisti del disegno I giocatori di toppa, ma soprattutto in tutte quelle verità umane belle, ma spesso tristi, quasi fonte di stupore per essi stessi, che ci mostrano nelle loro pose e nei volti. In Collina d'Ulivi e in Piazza del Carmine del 1922 c'è l'immagine di una Toscana antica, quella che, come ebbe a definirla lo scrittore Alberto Savinio, riferendosi alla pittura di Rosai, rappresenta una visione "più fonda, più etrusca". Ma forse nelle tele e nei disegni dell'artista fiorentino riusciamo a carpire anche lo spirito dei tempi, resi così rigidi, poveri e fragili nelle cose e negli uomini dalle guerre e dalle difficoltà economiche e tuttavia, animati da fugaci speranze di miglioramento. Nel 1929 Rosai, nel colmo del suo pessimismo, dipinge I suonatori di Piazza della Passera, dove ritroviamo ancora i muri della vecchia Firenze d'Oltrarno di Via Toscanella e dove rivediamo gli uomini che l'artista amava: sagome silenziose e solitarie della sofferta dignità umana. Pagliaio del 1930 segna il cambiamento dei valori plastici e pittorici di Rosai che cerca ora un chiaroscuro capace di creare una nuova sintesi. Egli vive in quel periodo un momento di transizione che lo traghetterà verso i quadri scuri degli anni del 1934- 1940, dove si timbrano tangibili i ricordi della sua dolorosa esperienza umana, segnata nella sua prima parte dal suicidio del padre nell'acque dell'Arno a causa di difficoltà economiche. Al Caffè del 1937 le figure impegnate nel gioco, nella lettura del giornale o in piedi, nella loro purezza di colore, acquisiscono una sfumatura di trascendenza: traducono un realismo che si è condito del sapore dell'umano. Nel quadro Il ponticino delle monache, sempre dello stesso anno, il colore diventa luce che si riversa sulla tela in vibrazioni: il blu sembra fondersi nel verde e viceversa, in un mondo sospeso dove cielo e terra vorrebbero incontrarsi.

Patrizia Lazzarin, 30 aprile 2021

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