Valle delle Rose e Valle Rossa in Cappadocia

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L’alleanza o ancor meglio, l’armonia di  finalità fra il genio umano  e la natura offre al nostro sguardo luoghi d’incanto, come i giardini che la storia conserva: da quelli affrescati nelle ville pompeiane, specchio  di quelli  esistenti nell’antica Roma, agli spazi verdi con laghi e piante ornamentali giapponesi o ancora a noi più vicini, fisicamente e temporalmente, i parchi e i giardini che abbelliscono le  ville rinascimentali italiane  e, che con esse, spesso formano un insieme indivisibile.  Il Premio Carlo Scarpa, istituito dalla Fondazione Benetton nel 1990 e che intende contribuire ad elevare e diffondere la cultura di “governo del paesaggio” e di “cura dei luoghi”,  quest’anno, alla sua trentunesima edizione, è stato dedicato alla Valle  delle Rose  e alla Valle Rossa, in lingua turca Güllüdere Kızılçukur,  due valli contigue scavate nella roccia vulcanica, situate nella regione della Cappadocia in Asia Minore. Questa terra fu culla di varie civiltà come quella ittita a partire dal terzo millennio a.C. e fra gli Stati esistenti, in quel periodo, spiccano per importanza il regno dei Mitanni e il sesto insediamento di Troia, la città del re Priamo, padre di Paride, di cui si narra nell’Iliade di Omero. Le successive civiltà frigia, lidia, caria e licia  che  favorirono la civilizzazione greco anatolica nel VI secolo a.C, lasciarono ai posteri due leggendarie figure di governanti: il frigio re Mida  e il lidio re Creso, entrambi famosi per il mitico tocco che trasformava ogni cosa in oro. La Cappadocia è una terra che con i suoi altipiani a mille metri di altitudine attorniati da grandi vulcani presenta un suolo scavato dall’acqua e dal vento, dove caldo e pioggia favoriscono sia abbondanza di acque, ma anche siccità. Qui  a partire dal I secolo d.C. si diffonde il cristianesimo e poi la civiltà bizantina, durante la quale si svilupperanno gli insediamenti monastici ed eremitici e  si “ricaveranno” chiese e santuari che rimangono come testimonianza di  una delle più importanti comunità cristiane del primo Millennio. Non si usa a sproposito il termine ricavare perché come spiega Maria Andaloro, ideatrice e direttrice dal 2006 della Missione di ricerca che fa capo all’Università della Tuscia e  a cui è stato consegnato il sigillo Carlo Scarpa, ”sono chiese scavate ora in un corno ora in un altro, o in una falesia, o dove ancora la parete rocciosa può fare da facciata”, mentre  al suo interno diventa  superficie pittorica. Questo “cosmo rovesciato” è immerso nelle due valli fra “arditissime rocce, intarsi di campi coltivati, talora grandi quanto un fazzoletto, dove occhieggia la vigna, si scorgono gli alberi da frutto, si coltivano ortaggi, svettano i pioppi.” Il premio è stato consegnato a Maria Andaloro per la sua capacità di riconoscere le specificità più preziose di un luogo che ha valenza universale. Il team della Missione è assai composito ed è formato da storici dell’arte, archeologi, architetti, chimici, restauratori, geografi e fotografi ed  affianca quindi competenze  di carattere storico ed umanistico ad altre   di natura tecnico-scientifica. Il progetto di lavoro si è articolato fino ad oggi  in tre fasi: 2006-2010; 2011-2016; 2017-2018. Fasi che non si ritengono concluse ma aperte. Nel primo periodo la ricerca è stata indirizzata alla mappatura  del ricco patrimonio parietale della Cappadocia bizantina, sparso in una miriade di chiese scavate e dipinte che si trovano dentro rocce, coni e falesie, visitate, riviste e studiate più volte per avere un quadro delle origini della pittura in questa regione. Il risultato  è stato quello di riuscire ad arrivare ad una  datazione più certa e meno fluttuante dei dipinti che coprono le pareti di questi spettacolari edifici sacri. Un passaggio significativo nella seconda fase del progetto è stato  quello di “saldare l’analisi dei dipinti nel proprio contesto al contesto rupestre più ampio”. L’impennata avviene nel momento in cui il progetto, diventando di interesse nazionale, fa propria la concezione di “Arte e habitat rupestre in Cappadocia e nell’Italia centromeridionale. Roccia, architettura scavata, pittura: fra conoscenza, conservazione, valorizzazione” e vede la partecipazione di otto università e del CNR. Da questo momento diventa centrale anche lo stato di conservazione della roccia, in particolare quella che riguarda  il sito di Sahinefendi, che dal punto di vista geologico ha un interesse assolutamente non comune,  o di  alcuni templi come la Chiesa Nuova di Tokali. Nell’area di Göreme, in particolare, si sono studiate le fasi di sviluppo dell’insediamento rupestre con le sue trenta e più chiese dipinte e le sue strutture civili. Nella terza fase proprio nell’area di Göreme si è voluto analizzare il paesaggio nelle sue connessioni culturali e naturali: vedere come esso si è trasformato ad opera dell’uomo nei campi coltivati a viti e frumento che si alternano a rocce e si frammischiano ad alberi da frutto. Un paesaggio unico che possiamo ammirare camminando fra stretti sentieri, fra i “coni abitati”, i camini delle fate, le falesie, le valli e i banchi rocciosi e  che assume un tono, ancora diversamente fantastico, se lo osserviamo dall’alto di una mongolfiera  che all’alba, nel rosa dell’aurora che avanza, tinge di luce questo spazio che ha ispirato nel lontano 1969 l’arte di Pier Paolo Pasolini che qui ambientò la sua Medea. Il restauro dei cicli pittorici della  Chiesa dei Quaranta Martiri a Sahinefendi, permette ora di apprezzarli,  tolto il nerofumo che in parte li copriva. Alcuni di essi  non erano mai stati restaurati e  dopo la pulitura mostrano forme così nitide e colori cosi vivi, che come scrive la storica Maria Andaloro, sembra di star davanti a dipinti il cui pennello del pittore, ancora gocciolante, si è staccato un minuto fa.

Patrizia Lazzarin, 27 luglio 2021

 

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Tina Modotti. Donne, Messico e libertà

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Le parole di un canto, epico in maniera autentica, sono le fotografie  di Tina Modotti  passate alla storia ed entrate nel nostro immaginario, e che possiamo vedere nelle sale del Mudec, il Museo delle Culture, di Milano. Accade così di recuperare episodi di vita trascorsi, in mani e volti di uomini  segnati dal duro lavoro, carichi del significato di ciò che rappresenta l’esistenza, oppure nelle  donne del Messico di Tehuantepec, “la collina del giaguaro”, che nella loro bellezza e fierezza esprimono un fascino che il tempo non sembra intaccare.  Abbiamo l’occasione  di conoscere meglio l’arte di questa fotografa che nasce ad Udine nel 1896 e che, in un breve arco temporale, accumula tantissima esperienza anche grazie ad incontri con persone del jet set culturale messicano dei primi decenni del 900’: José Clemente Orozco, Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros e Xavier Guerrero, gli autori dei grandi murales dove confluirono  ideali rivoluzionari, arte autoctona e le nuove prospettive moderniste. Tina vive e si confronta con rivoluzioni, guerre sanguinose, dittature, ingiustizie, viene a contatto con  avanguardie artistiche, movimenti filosofici e politici e conosce  un numero incredibile di artiste donne dalla personalità singolare ed anticonformista, come la pittrice Frida Khalo  o la musicista  Concha Michel  che usò la sua musica, una sorta di ballata chiamata corrido, e i suoi scritti per promuovere la condizione femminile e l’apertura dell’arte alle masse. Le  foto di Modotti  sono impregnate del suo fervore sociale ed artistico e tutta la sua vita fu animata da grandi ideali e dall’amore per la libertà.  La passione  per la fotografia si sviluppa  da giovanissima.  Frequenta fin da piccola lo studio fotografico dello zio Piero, fratello del padre. Quest’ultimo  emigra  a San Francisco e nell’annuncio pubblicitario  del 1908 che promuove la sua attività di definisce “fotografo d’arte e di vedute di tutti i generi”. Quando Tina raggiunge il padre a San Francisco, nel 1913, arriva in una città ricca di stimoli, che si prepara a inaugurare la grande esposizione internazionale “Panama-Pacifico” del 1915. Lei, che in Italia ha lasciato presto gli studi per lavorare e sostenere la famiglia, si arricchisce spiritualmente  del fervore  culturale ed artistico  della comunità italiana. Recita a teatro e ottiene ottime recensioni. La sua crescita  intellettuale ha tuttavia una svolta significativa quando nel 1918 lascia la città per seguire a Los Angeles il compagno Robo de l’Abrie Richey, pittore e poeta dallo stile di vita bohémien.  Conosce poi e frequenta  nel 1925 Dorothea Lange, la grande fotografa,  autrice dell’icona della donna emigrante, e  seguendo il suo consiglio compra una Graflex, macchina più maneggevole e precisa che le offre nuove opportunità di ripresa. La mostra curata da Biba Giacchetti, che rimarrà aperta fino al 7 novembre 2021, presenta un centinaio di fotografie dell’artista, accompagnate da documenti e filmati che disegnano il percorso umano e artistico di Modotti. Dopo la morte fulminea del compagno Robo, appena giunto in Messico nel 1922, comincia  una nuova fase della sua vita. Apre uno studio con il grande fotografo Edward Weston e riesce da subito ad affermarsi con un suo stile originale, ottenendo riconoscimenti già nelle mostre del 1924 e del 1925, dove le sue immagini dialogano da pari a pari con quelle di Weston. Nello stesso arco temporale  Tina posa per Diego Rivera, che la ritrae in diversi murales, che lei, a sua volta, documenta con la macchina fotografica. Sono anni di ricerca creativa e di passioni ed ella raggiunge pian piano un suo linguaggio inconfondibile. L’acme della sua attività creativa è compreso, fra il 1926 ed il 1929, quando  esso si alimenta del suo pensiero politico e  Tina si mette al servizio della causa messicana. Nelle sue foto si individua la lezione della cinematografia russa d’avanguardia, di Ejzenštejn e Dziga Vertov, e sarà da quest’ultimo che assorbirà “la genialità di ripresa, i movimenti di macchina, le coordinate insolite, la verità innovativa della narrazione priva di eroi, ma soprattutto la presa diretta sulla realtà”, come precisa Biba Giacchetti nel catalogo della mostra. Quelle di Tina sono immagini che sono diventate universali perché portatrici di un significato simbolico comunemente accettato. Fra queste riconosciamo il portatore di banane, le mani della lavandaia e dello zappatore:  esse stesse emblemi della fatica dell’uomo, come la figura che scompare sotto l’immenso peso del fieno. Simboli che ci lasciano quasi attoniti  a guardarli come la donna con la bandiera, dove lo stendardo diventa protagonista, astrazione che si solidifica come ghiaccio eterno,  proiezione di quel progresso che sembra mostrare i passi nella foto del campesino che legge, segnando le tappe di una rivoluzione che deve passare attraverso l’alfabetizzazione delle masse.  L’uccisione del suo nuove amore, l’esule rivoluzionario cubano, Julio Antonio Mella, con cui condividerà il credo politico e sperimenterà nuove forme di comunicazione legate alla fotografia, i fotomontaggi: una tecnica di divulgazione antesignana, che solo negli anni Cinquanta verrà codificata da testi scientifici sulla comunicazione, sancisce anche l’ultimo atto significativo nella sua parabola inventiva e l’inizio di un periodo di persecuzioni e di peregrinazioni, dopo il rifiuto dell’incarico di fotografa presso il Museo nazionale messicano. Nell’ottobre del 1930 allestisce a Mosca la sua ultima esposizione. A lei dopo la morte nel 1942, Pablo Neruda dedicherà la poesia Tina Modotti ha muerto, in difesa dell’amica, attaccata dalla stampa messicana.  Riccardo Toffoletti in Italia  riscoprirà Tina negli anni 70’ dopo un lungo oblio e, poco  dopo, la stessa cosa avverrà negli Stati Uniti.

Patrizia Lazzarin, 11 luglio 2021

 

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Riunita Collezione Piccolomini Spannocchi

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Nel grande complesso museale di Santa Maria della Scala, in prossimità del  Duomo di Siena, torna a riunirsi la collezione Piccolomini Spannocchi, una delle più importanti raccolte d’arte senesi, espressione soprattutto delle preferenze e degli interessi culturali, in terra toscana, delle grandi famiglie  nobiliari dei secoli scorsi. Il catalogo della mostra, pubblicato da Pacini editore, ripercorre la storia di quella che potremmo definire una pinacoteca all’interno di un’altra pinacoteca, alla stregua di una matrioska russa che dona alla comunità senese, ma anche a tutti i visitatori, uno spaccato dei gusti e della sensibilità esistenti nell’antica città guelfa. Nel 1774 il matrimonio di Giuseppe Spannocchi e di Caterina Piccolomini di Modanella, ultima discendente del suo ramo nobiliare, unisce i due casati insigni ed i loro patrimoni. Giuseppe assunse nell’occasione anche il cognome e lo stemma  della moglie. Entrambe le famiglie godevano di grande considerazione, infatti  quando nel 1750  il granduca di Toscana, Francesco Stefano, promulgò la legge per regolamento della nobiltà e cittadinanza,  i Piccolomini di Modanella  e anche  gli Spannocchi di San Domenico vennero iscritti nel Libro d’Oro dei casati patrizi, riservato ai lignaggi nobili da oltre duecento anni. Racconta nel catalogo Rosanna Bogo: “Le due famiglie avevano radici e storie molto diverse, ma essere proprietari terrieri di origine magnatizia non poneva i Piccolomini su un gradino più alto rispetto agli Spannocchi, legisti, lettori dello Studio e funzionari pubblici provenienti dal popolo delle Arti minori: entrambe le famiglie, infatti, appartenevano ab antiquo al ceto dirigente cittadino e, di conseguenza, alla ‘nobiltà civica’, nata giuridicamente nel 1597 da una sentenza della Ruota senese che dichiarava cives nobiles i discendenti dei ‘riseduti’ nella ‘Suprema Magistratura”.  L’allestimento al quarto livello dell’antico ospedale di Santa Maria della Scala di questa collezione che finora si presentava divisa in diverse sedi ed era poco nota, è il frutto del grande  lavoro di collaborazione fra la Pinacoteca e le Università, e più nello specifico,  di molti studiosi riunitisi in un team creato con questa finalità, fra cui compare la ricercatrice Francesca Scialla In questo spazio sono stati ricongiunti centotrentasette dipinti che assieme ai ventiquattro provenienti dal Museo Civico, ai due della Provincia e ad altri due dagli Uffizi formano una raccolta di 165 opere, tra le quali si ammirano capolavori di Lorenzo Lotto, Giovan Battista Moroni, Paris Bordon e Sofonisba Anguissola. In questo spazio sono stati  ricongiunti centotrentasette  dipinti che  assieme ai  ventiquattro  provenienti dal Museo Civico, ai  due  della Provincia e ad altri due  dagli Uffizi  formano  una raccolta  di 165 opere, tra le quali si ammirano capolavori di Lorenzo Lotto, Giovan Battista Moroni, Paris Bordon e Sofonisba Anguissola, ed in particolare molti dipinti di artisti fiamminghi e tedeschi  che contribuiscono a darle  una precisa fisionomia. L’allestimento è stato preceduto nel 2018 dalla mostra Una Città Ideale. Dürer, Altdorfer e i maestri nordici dalla Collezione Spannocchi di Siena, che ha permesso di conoscere  uno degli aspetti più caratteristici  di questa raccolta, ossia  la forte presenza di opere di artisti del nord Europa. Attraverso i quadri rileggiamo la  storia di una delle collezioni senesi più originali per formazione e tipologia di generi, di scuole ed artisti in essa confluiti. Una  tappa fondamentale  è stata  la sua donazione nel  1835 alla Comunità Civica di Siena. La scoperta nel castello di Modanella, presso Rapolano, di un archivio familiare creduto fino ad ora disperso, ha permesso di ricostruire le vicende della raccolta. Fra queste 165 opere ora di nuovo insieme, alcune sono state messe in relazione per la prima volta con la collezione. Il risultato di questa ricerca è la conclusione fortunata di un progetto firmato nel 2017 tra l’amministrazione comunale di Siena ed il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Essa ci permette di entrare idealmente all’interno delle ville di campagna e dei sontuosi palazzi cittadini del Settecento, dove i grandi proprietari si lasciavano ispirare nella disposizione delle opere nelle sale, dagli stessi criteri della galleria granducale, e si mostravano in grado di apprezzare dipinti di scuola fiorentina, veneta, romana e fiamminga accanto  a quelli di scuola senese, come in modo paradigmatico viene esemplificato dalla raccolta Piccolomini Spannocchi. La quadreria Piccolomini  era formata  da un nucleo di opere provenienti dal Palazzo Ducale di Mantova che si univano a quelle  raccolte in ambito tirolese e trentino da Lidovino Piccolomini. Nella Pinacoteca Nazionale, incontriamo vicini, anche i cartoni preparatori di Domenico Beccafumi per il pavimento del Duomo, di proprietà Spannocchi fin dal Cinquecento. Nel 1774 l’abate Giovan Girolamo Carli redisse un inventario della collezione di opere d’arte nata dall’unione matrimoniale tra le famiglie Piccolomini e Spannocchi. Da qui si evince che gli acquisti della casata Spannocchi si erano indirizzati  in un primo tempo  e fino all’inizio del Seicento verso il mercato locale ed in seguito  si erano  aggiornati sulle nuove tendenze artistiche. Noti documenti hanno identificato Tiburzio Spannocchi nell’acquirente dei celebri cartoni preparatori del Beccafumi per il Duomo senese: il primo passo di un’operazione diretta alla creazione di un nucleo collezionistico a cui appartengono i maestri più noti dell’arte cittadina: la Santa Caterina del Sodoma, il Martirio dei santi Giovanni e Paolo di Marco Pino, i già ricordati cartoni di mano di Beccafumi, insieme a quello che Carli ha definito un «bozzetto» per la sua Natività della Vergine. Carli distinse i  nuclei collezionistici delle due casate, con  l’utilizzo dell’espediente grafico di una ‘S,’ posta a contrassegno delle opere già di proprietà Spannocchi, che permette di intendere  come la maggior parte dei dipinti, delle sculture e degli oggetti d’arte provenisse dalla famiglia Piccolomini di Modanella.  L’accurata descrizione analitica dei singoli pezzi fornita dal Carli costituisce,  ancora oggi, una imprescindibile base per la loro identificazione.

Patrizia Lazzarin, 20 giugno 2021

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