Tina Modotti. Donne, Messico e libertà

Tina Modotti. Donne, Messico e libertà

Le parole di un canto, epico in maniera autentica, sono le fotografie  di Tina Modotti  passate alla storia ed entrate nel nostro immaginario, e che possiamo vedere nelle sale del Mudec, il Museo delle Culture, di Milano. Accade così di recuperare episodi di vita trascorsi, in mani e volti di uomini  segnati dal duro lavoro, carichi del significato di ciò che rappresenta l’esistenza, oppure nelle  donne del Messico di Tehuantepec, “la collina del giaguaro”, che nella loro bellezza e fierezza esprimono un fascino che il tempo non sembra intaccare.  Abbiamo l’occasione  di conoscere meglio l’arte di questa fotografa che nasce ad Udine nel 1896 e che, in un breve arco temporale, accumula tantissima esperienza anche grazie ad incontri con persone del jet set culturale messicano dei primi decenni del 900’: José Clemente Orozco, Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros e Xavier Guerrero, gli autori dei grandi murales dove confluirono  ideali rivoluzionari, arte autoctona e le nuove prospettive moderniste. Tina vive e si confronta con rivoluzioni, guerre sanguinose, dittature, ingiustizie, viene a contatto con  avanguardie artistiche, movimenti filosofici e politici e conosce  un numero incredibile di artiste donne dalla personalità singolare ed anticonformista, come la pittrice Frida Khalo  o la musicista  Concha Michel  che usò la sua musica, una sorta di ballata chiamata corrido, e i suoi scritti per promuovere la condizione femminile e l’apertura dell’arte alle masse. Le  foto di Modotti  sono impregnate del suo fervore sociale ed artistico e tutta la sua vita fu animata da grandi ideali e dall’amore per la libertà.  La passione  per la fotografia si sviluppa  da giovanissima.  Frequenta fin da piccola lo studio fotografico dello zio Piero, fratello del padre. Quest’ultimo  emigra  a San Francisco e nell’annuncio pubblicitario  del 1908 che promuove la sua attività di definisce “fotografo d’arte e di vedute di tutti i generi”. Quando Tina raggiunge il padre a San Francisco, nel 1913, arriva in una città ricca di stimoli, che si prepara a inaugurare la grande esposizione internazionale “Panama-Pacifico” del 1915. Lei, che in Italia ha lasciato presto gli studi per lavorare e sostenere la famiglia, si arricchisce spiritualmente  del fervore  culturale ed artistico  della comunità italiana. Recita a teatro e ottiene ottime recensioni. La sua crescita  intellettuale ha tuttavia una svolta significativa quando nel 1918 lascia la città per seguire a Los Angeles il compagno Robo de l’Abrie Richey, pittore e poeta dallo stile di vita bohémien.  Conosce poi e frequenta  nel 1925 Dorothea Lange, la grande fotografa,  autrice dell’icona della donna emigrante, e  seguendo il suo consiglio compra una Graflex, macchina più maneggevole e precisa che le offre nuove opportunità di ripresa. La mostra curata da Biba Giacchetti, che rimarrà aperta fino al 7 novembre 2021, presenta un centinaio di fotografie dell’artista, accompagnate da documenti e filmati che disegnano il percorso umano e artistico di Modotti. Dopo la morte fulminea del compagno Robo, appena giunto in Messico nel 1922, comincia  una nuova fase della sua vita. Apre uno studio con il grande fotografo Edward Weston e riesce da subito ad affermarsi con un suo stile originale, ottenendo riconoscimenti già nelle mostre del 1924 e del 1925, dove le sue immagini dialogano da pari a pari con quelle di Weston. Nello stesso arco temporale  Tina posa per Diego Rivera, che la ritrae in diversi murales, che lei, a sua volta, documenta con la macchina fotografica. Sono anni di ricerca creativa e di passioni ed ella raggiunge pian piano un suo linguaggio inconfondibile. L’acme della sua attività creativa è compreso, fra il 1926 ed il 1929, quando  esso si alimenta del suo pensiero politico e  Tina si mette al servizio della causa messicana. Nelle sue foto si individua la lezione della cinematografia russa d’avanguardia, di Ejzenštejn e Dziga Vertov, e sarà da quest’ultimo che assorbirà “la genialità di ripresa, i movimenti di macchina, le coordinate insolite, la verità innovativa della narrazione priva di eroi, ma soprattutto la presa diretta sulla realtà”, come precisa Biba Giacchetti nel catalogo della mostra. Quelle di Tina sono immagini che sono diventate universali perché portatrici di un significato simbolico comunemente accettato. Fra queste riconosciamo il portatore di banane, le mani della lavandaia e dello zappatore:  esse stesse emblemi della fatica dell’uomo, come la figura che scompare sotto l’immenso peso del fieno. Simboli che ci lasciano quasi attoniti  a guardarli come la donna con la bandiera, dove lo stendardo diventa protagonista, astrazione che si solidifica come ghiaccio eterno,  proiezione di quel progresso che sembra mostrare i passi nella foto del campesino che legge, segnando le tappe di una rivoluzione che deve passare attraverso l’alfabetizzazione delle masse.  L’uccisione del suo nuove amore, l’esule rivoluzionario cubano, Julio Antonio Mella, con cui condividerà il credo politico e sperimenterà nuove forme di comunicazione legate alla fotografia, i fotomontaggi: una tecnica di divulgazione antesignana, che solo negli anni Cinquanta verrà codificata da testi scientifici sulla comunicazione, sancisce anche l’ultimo atto significativo nella sua parabola inventiva e l’inizio di un periodo di persecuzioni e di peregrinazioni, dopo il rifiuto dell’incarico di fotografa presso il Museo nazionale messicano. Nell’ottobre del 1930 allestisce a Mosca la sua ultima esposizione. A lei dopo la morte nel 1942, Pablo Neruda dedicherà la poesia Tina Modotti ha muerto, in difesa dell’amica, attaccata dalla stampa messicana.  Riccardo Toffoletti in Italia  riscoprirà Tina negli anni 70’ dopo un lungo oblio e, poco  dopo, la stessa cosa avverrà negli Stati Uniti.

Patrizia Lazzarin, 11 luglio 2021

 

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