Settant’anni dopo la grande alluvione del Polesine

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Dopo la Rinascita. Acqua che straripa, trascina, avvolge e trasforma animi e cose. Le immagini dell’alluvione del 1951 nel Polesine ci consegnano, a distanza di molti anni, la fisionomia di una terra e di un popolo che appaiono in tutta la loro forza e sincerità, dove sentimenti e volontà non si vollero piegare, ma si misurarono, nel risollevarsi dal fango e dall’acqua che avevano modificato i contorni di quel territorio. La mostra che apre i battenti sabato 23 ottobre a Palazzo Roncale, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e curata da Francesco Iori, con la collaborazione di Sergio Campagnolo, ci restituisce istantanee di vita, nella lotta contro l’acqua che irrompe e sovrasta, ma non è vittoriosa. Le date e i luoghi che tornano alla memoria sono quelli noti del 14 e 15 novembre quando, alle otto del primo giorno, si rovesciarono otto miliardi di metri cubi d’acqua nella provincia di Rovigo, allagando due terzi delle sue terre. “Fu la più grande alluvione d’Italia in epoca contemporanea”, come riferisce Jori. Nell’arco di appena mezzora si susseguirono tre devastanti rotte: la prima ebbe luogo a Vallice di Paviole nelcomune di Canaro, le due successive nel territorio di Occhiobello. Il momento più drammatico si verificò quando un camion partito da Rovigo per portare i soccorsi tra Pincara e Fiesso Umbertiano, con all’interno novanta profughi, venne sommerso dall’acqua. Morirono 84 persone, tra cui molte donne e bambini. L’Italia e il mondo non rimasero insensibili e giunsero tantissimi aiuti. Fra i primi ad accorrere sul posto il presidente della Repubblica Luigi Einaudi ed il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. L’invito fu ad evacuare la città di Rovigo. In quarantamila risposero all’appello, altri si trasferirono nei piani alti dei palazzi, mentre il Po inondava le zone centrali. Per la prima volta l’attenzione si concentrò sul Polesine in maniera pregnante. Da sempre questa regione contende i suoi spazi al mare, lotta contro le tracimazioni dei fiumi che la attraversano, tra cui il maestoso e sinuoso Po con le sue distese d’acqua che sembrano riempire di liquido ogni anfratto o spazio intorno a lui, conducendo il nostro sguardo verso l’infinito. Questi luoghi hanno un fascino peculiare testimoniato anche dal riconoscimento da parte dell’Unesco del Delta come Patrimonio della Biosfera. Le fotografie di Marco Beck Peccoz, che possiamo ammirare in esposizione e anche nel catalogo pubblicato da Silvana Editoriale, ci restituiscono la bellezza di paesaggi che sanno ricolmare il nostro animo. Le sue parole l’hanno correttamente classificato: “un Eden tra cielo e mare”. Come ha spiegato anche il presidente della Fondazione, Gilberto Muraro, “la mostra, ripercorre la tragedia di quei giorni, sia per ribadire l’importanza della cura dei fiumi e dell’ambiente, sia per mostrare la rinascita del Polesine che grazie alle sovvenzioni statali e agli aiuti ricevuti ha avviato il volano della ricrescita”. Nel 2007 infatti il reddito pro capite ha superato stabilmente la media italiana, mentre il tasso di crescita è ormai pari a quello del Veneto. Se ritorniamo al racconto di quei giorni, merita di essere ricordata Lina Merlin, la senatrice eletta per il Psi in Senato nel 1948 e che, già dal 16 novembre era ad Adria per coordinare i soccorsi recandosi di casa in casa, a bordo di un’imbarcazione, per fornire i beni di prima necessità. Sono momenti essenziali di una rinascita, anche morale di tutti gli italiani, compresi i reporter come Enzo Biagi, Oriana Fallaci ed Orio Vergani, che si recheranno camminando in mezzo all’acqua a raccogliere le testimonianze degli avvenimenti e in particolare della gente. Primo evento mediatico, ancora senza televisione, dove i giornali che diventano lo strumento per far conoscere le difficoltà di questa terra, nel muovere gli animi, sapranno riunire energie e risorse da destinare al Polesine. “Tante belle pagine di giornalismo, afferma il curatore Jori, come il capolavoro Cronache dell’alluvione di Antonio Cibotto, meritano di essere rilette”. Il risultato è quello che possiamo oggi constatare di una rinascita economica e di alcune eccellenze. La mostra le rileva. Da secoli l’agricoltura è stata il fondamento dell’economia polesana. L’insalata di Lusia che vediamo in mostra nell’ambientazione di un’opera d’arte in progress e che potrebbe sfidare per i significati la famosa opera di Giovanni Anselmo sullo stesso soggetto, offre un esempio di tenacia, intelligenza ed operosità. Per l’insalata di Lusia è utilizzata una coltura indoor idroponica /aeroponica, che non usa la terra, evitando così di generare funghi e parassiti, e poca acqua. Una tecnica che si adatta anche ad ambienti “delicati” e promossa dalla Comunità Europea. Dal 2009 ha ottenuto il marchio IGP che ne certifica la qualità. Lo stesso riconoscimento ha ricevuto anche il riso del Polesine che vanta una storia antica che risale al Quattrocento. Oggi le risaie coprono una superficie di novemila ettari. Le eccellenze sono tuttavia anche altre, come l’aglio polesano, il melone e il miele del Delta, la zucca di Melara, la vongola verace e il cefalo del Polesine, la cozza di Scardovari e il pesce azzurro. L’industria della giostra sviluppatasi nell’area compresa fra i comuni di Bergantino, Melara, Calto, Castelnovo Bariano e Ceneselli merita sicuramente una menzione, avendo una rilevanza di carattere internazionale. Il Delta del Po, definito la Camargue italiana, accanto alle tante testimonianze storiche del Polesine, dai teatri ai musei che raccontano, come quello dei Grandi Fiumi, il tessuto culturale di questo territorio, assieme alle grandi mostre promosse nella città di Rovigo dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, si uniscono nel proporre un’idea di valore che la mostra che si chiuderà a fine gennaio 2022 intende far conoscere.

Patrizia Lazzarin, 23 ottobre 2021

 

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Il fascino storico delle donne asolane

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Ad Asolo, candidata capitale della Cultura 2024, si inaugura il 3 ottobre all’interno delle sale del Museo cittadino, la mostra Divine Armonie. Il rinascimento in Tobia Ravà, rassegna sull’artista concettuale veneziano che ha ritratto per questa occasione le tre donne, la cui vita si è intrecciata alle vicende di  questa città, adagiata sui colli della Pedemontana: Caterina Cornaro, Eleonora Duse e Freya Stark.  Caterina Cornaro entra ufficialmente ad Asolo l’undici ottobre del 1489, accompagnata da molti esponenti della nobiltà cipriota.  La ricca veneziana   apparteneva ad una delle famiglie più influenti della città lagunare ed  aveva sposato Giacomo II Lusignano, re di Cipro, diventando "rejna de Jerusalem Cypri et Armeniae". Dopo la morte del marito avvenuta nel 1473 e del figlio di lì a poco, Caterina abdica  in seguito alle lunghe minacce e pressioni legate alle dinamiche di successione e ai grossi  interessi economici in gioco,  in questa che era una delle più ricche isole del Mediterraneo,  consegnando il suo regno a Venezia che le offrirà in cambio la cittadina asolana. Qui  Caterina riuscirà  a realizzare la corte ideale, non lontano dai luoghi simbolo del Rinascimento, come  Venezia, Mantova, Ferrara ed Urbino. Volle alla sua corte artisti e letterati, fra cui si annoverano  GiorgioneLorenzo LottoPietro Bembo  che in questi luoghi ambientò la sua opera: Gli Asolani. Ad Altivole farà realizzare un complesso all’orientale, affrescato da Giorgione,  su un’area di oltre cento ettari, tutto circondato da mura, adorno di statue, giardini, orti, peschiere e fontane. Ammiriamo la sovrana, nel quadro di Tobia, quasi  richiamata  da una forza evocatrice capace di ricondurla  fra noi,  mentre passeggia lungo i portici del borgo Asolano. Essa  ci ricorda l’opera  di Tiziano ora alla Galleria degli Uffizi a Firenze, dove appare  autorevole, ma solo in parte decifrabile. Del  volto di Caterina e delle sue espressioni e  pose  possiamo scoprire  nelle sale del museo le interpretazioni anche di pittori veneti del Seicento e dell’Ottocento, dove lei è giovane e  concentrata, cosi come nella lastra della matrice incisa, su suo disegno, da Samuele Levi Polacco che traduce un dipinto ritenuto di Tiziano della Collezione Manfrin a Venezia. L’eleganza delle sue vesti orientaleggianti, nell’opera di Ravà sembra rivestire di bellezza anche l’intero spazio che la circonda e trascolorare nell’aria e sulle pietre.  L’armonia ricercata nel Rinascimento diventa nel pittore veneziano metro di un’immagine offerta allo sguardo dello spettatore, dove alla misura dello spazio si lega la viva presenza umana, vicina,  percepibile al nostro educato sentire. Quale sarà il messaggio che Caterina consegna ai posteri? Numeri e lettere  si rincorrono nella grafica dell’artista  dove le forme e i colori  si legano in un’alchimia o caleidoscopio  di segni che esprimono valori e  sono veicolo di narrazioni, grazie anche ad una interpretazione ispirata alla ghematria. Continuando il nostro cammino fra le sale del museo, in un viaggio che si snoda nel tempo, incontriamo  Eleonora Duse che, quasi come la divina Sarah Siddons nelle interpretazioni dei pittori inglesi Joshua Reynolds e Thomas  Gainsborough, è immersa in una  luce che la avvolge pienamente, dopo che il sipario che si è chiuso per la fine dello spettacolo,  si è poi riaperto velocemente, per un successivo batter di mani di un pubblico entusiasta. Una silhouette che pare far parte di un teatro contemporaneo, e rimandarci al tempo stesso istantanee di vita,  come nella statuina in avorio che ritrae Eleonora Duse, opera di Ermete Zacconi, che ci coglie ammirati, nella sala dedicata a lei nel museo, mentre  si piega in un inchino. In Ravà la  luce che sembra nella sua opera così potente,  quasi uno strumento scappato dalle mani di un demiurgo, svela l’acume  dello sguardo intelligente dell’artista di teatro. L’atmosfera che sembra diventare pulviscolo, irrompe fuori del quadro, rileva il genio della Duse  che recitava con una grande capacità espressiva. Eleonora fu un’interprete straordinaria dei drammi di Ibsen che amava molto e anche delle prime opere drammatiche di Gabriele d’Annunzio. Acclamata in Italia e nel mondo, nel quadro di Ravà,  sembra porgere, attraverso l’orecchio  che risalta ai nostri occhi,  ascolto ai suoni del mondo contemporaneo, per rielaborarli in seguito, in una sua personale visione ricca di passioni contrastanti. L’ultimo piano del museo accanto alla Duse accoglie anche la memoria di Freya Stark, questa viaggiatrice instancabile, fotografa, cartografa, archeologa  e scrittrice che ha scritto più di trenta libri e che rimase sempre molto legata ad Asolo, dove riposano le sue spoglie. Freya Stark ha viaggiato molto, soprattutto in Medio Oriente, nei paesi del Libano, Siria, Iraq, Iran, Arabia Meridionale e Afghanistan.Il suo primo viaggio è in Siria nel 1927, l’ultimo a ottantotto anni, nel 1981, sulle vette dell’Himalaya, sul dorso di un mulo tibetano alla ricerca delle tracce degli asceti. L’immagine che ci consegna Ravà, mostra Freya  mentre si ferma  all’interno di quei portici che ci rimandano a città antiche, ma che ricordano anche Asolo. Il suo  turbante la trasporta  fra  le dune del deserto, in un tappeto grafico di lettere, numeri e radici che mirano alla ricerca dell’essenza dell’umano, ancora oggi, come ieri, lungo le  terre del Medio Oriente  dove si colgono i frammenti di un uomo “caduto” in guerre senza senso e  si raccolgono i pezzi di monumenti andati in frantumi a causa dell’odio, in un’eterna fuga dal Male che spesso l’essere umano ha dovuto sfidare per sopravvivere, un male spesso banale come scrisse la scrittrice Hannah Arendt raccontando dell’Olocausto. Nella mostra  che rimarrà aperta fino al 9 gennaio possiamo vedere  numerosi pezzi dell’arte di Tobia, dalle tele sulla creazione dell’Universo alle foreste di alberi, dalla città lagunare  alle antiche città orientali fino ai tanti animali scolpiti o dipinti che  rivestiti  di numeri e lettere, ci interrogano e ci  pongono come un antico filosofo quesiti su cui necessita fermarsi a riflettere per acquisire nuova consapevolezza. La rassegna è stata curata da Patrizia Lazzarin e Maria Luisa Trevisan.

Patrizia Lazzarin, 29 settembre 2021

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Venezia 1600. Nascite e rinascite

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Un importante genetliaco a Palazzo Ducale

La grande mappa di Venezia del 1500, ideata da Jacopo De’ Barbari, riunendo tante vedute parziali carpite dai campanili della città lagunare, è una delle prime immagini che ci accoglie come un lacchè in livrea, a Palazzo Ducale, nel capoluogo veneto, per annunciare ai visitatori l’inizio di una rassegna “monumentale” dal titolo: Venezia 1600 - Nascite e Rinascite. La storia di questa città e delle sue grandi imprese, la sua forza commerciale e culturale nei secoli, e la bellezza dei suoi palazzi adagiati sull’acqua, sulla quale sembrano, nel riverbero della luce, ondeggiare come le gondole e i battelli che scivolano ora lenti, ora veloci, ci racconta la sua determinazione nell’aver affrontato guerre, pestilenze, incendi ed inondazioni, dai quali ha saputo riemergere e risollevarsi. La rassegna, promossa dalla Fondazione Musei Civici di Venezia che inizia, oggi 4 settembre, e si concluderà il 25 marzo 2022, con la direzione scientifica di Gabriella Belli e la curatela di Robert Echols, Frederick Ilchman, Gabriele Matino e Andrea Bellieni, ci restituisce la magia fatta anche di ori, smalti, mosaici che hanno legato la città lagunare all’Oriente ed, in particolare a Costantinopoli, dalla quale giunsero anche gli artisti che decorarono parti delle pareti musive della Basilica di San Marco. Dalla data mitica della sua fondazione, il 25 marzo 421, fino ad oggi sono trascorsi milleseicento anni e la città di Venezia festeggia il suo genetliaco narrandoci la forza del suo mito, in quel grande leone che riempie la tela di Vittore Carpaccio, sullo sfondo della laguna, accanto ai monumenti rappresentativi dell’urbe, e che sancisce la sua trasformazione da paese formato di pochi isolotti in un impero che si estende su buona parte del Mediterraneo. La nascita di Venezia, nello stesso giorno che la tradizione religiosa cattolica indica come quello dell’Annunciazione, rafforza l’idea dell’origine divina di questa città, esemplificata in mostra da alcune tele che spiegano la presenza del divino nella vita quotidiana ed in particolare negli eventi che sanciscono le tappe salienti del suo sviluppo e nei momenti di crisi, come durante le pesti o le guerre. Il dipinto con la Vergine Assunta che assiste all’Incoronazione di Venezia fatta dal Vescovo San Magno, del pittore Jacopo Palma il Giovane, commissionato dal Senato per la chiesa di San Geremia, ricorda il vescovo sepolto in questa tempio, che avrebbe fondato le più antiche chiese di Venezia. Il mosaico a tessere vitree e lapidee, opera di Giovanni Novello e proveniente dalla Scuola Grande di San Rocco che raffigura l’Annunciazione in un paesaggio veneto, incanta per la concentrazione delicata dei volti dell’angelo e di Maria. Il pannello musivo è una delle tante opere di raffinata fattura che noi possiamo ammirare in mostra come i preziosi messali del XIV secolo, mai esposti in precedenza, smalti e pietre preziose del IX e XI secolo provenienti dalla Biblioteca Marciana e parte del tesoro della Basilica, fra cui troviamo il famoso Bruciaprofumo a forma di edificio a cupole insieme alla Coppa di Chorasan, di manifattura iraniana. Oggetti che brillano fra lo sfavillio dei colori delle tele come la Pala Barbarigo di Giovanni Bellini dipinta nel 1488 e il quadro dell’artista Bonifacio Veronese, raffigurante San Marco che consegna lo Stendardo a Venezia, quel Santo di cui Tintoretto ha narrato l’avventuroso trafugamento delle spoglie da Costantinopoli e a cui, un angelo, mentre l’evangelista si trovava a Venezia, aveva preannunciato il ritorno delle sue spoglie nelle terre lagunari. Antichi portolani, carte nautiche, atlanti e astrolabi, modellini di galere da guerra e vedute dell’Arsenale illustrano ancora la forza commerciale di Venezia e la sua capacità di penetrazione sui mari. Dipinti raccontano battaglie navali cruciali per la sua esistenza, come quella di Chioggia nel 1381 o quella di Lepanto del 1571. Le insegne dei diversi mestieri ed oggetti di diversa provenienza testimoniano l’alacrità del popolo veneziano e l’intreccio di relazioni fra Occidente ed Oriente, in un mercato amplissimo, dove il ducato, di cui vediamo alcuni esempi coniati dalla zecca doganale, aveva raggiunto un enorme successo diventando il “dollaro” del momento. Molti uomini d’affari si affidavano alla stabilità di questa moneta, coniata per la prima volta nel 1284 e che già nel 1400 si ritrovava in India come testimonia un viaggiatore di quel periodo. A fine Quattrocento Venezia conosce anche un altro momento felice, dal punto di vista culturale, con lo sviluppo dell’editoria. L’ancora e il delfino ci riportano alla marca tipografica di Aldo Manuzio, il primo editore moderno, inventore del corsivo e del libro tascabile. Alcuni quadri del pittore Vittore Carpaccio ci restituiscono brani della ricca vita di Rialto, ma anche il ritratto di quel famoso doge Leonardo Loredan che promosse la ricostruzione, dopo l’incendio nel 1505 del Fondaco dei Tedeschi e nel 1514 del Mercato di Rialto. Con il doge Andrea Gritti ebbe inizio una “renovatio urbis”, che può qualificarsi come il progetto più ambizioso di rinnovamento urbano dell’Europa cinquecentesca, con la trasformazione ad opera dell’architetto fiorentino Jacopo Sansovino della Piazza e della Piazzetta di San Marco, dove vengono eretti edifici in stile classico che evocano l’antica Roma, formando così una quinta scenografica per le solenni processioni. Canaletto, Lazzaro Bastiani e Gian Antonio Guardi restituiscono scorci di quella Venezia. Una Venezia dove presente e passato sono saldamente stretti e si comprendono quindi le scelte di non riedificare interamente in stile classico il Palazzo Ducale, quasi distrutto dalle fiamme nel 1577, ma di operare interventi di consolidamento sull’esistente. Quel palazzo, mai realizzato, lo vediamo in mostra nel modello successivo dell’architetto Antonio Foscari, ispirato al progetto di Palladio. Il buon governo di Venezia, incarnato anche da quella statua policroma che raffigura la Giustizia che abbiamo incontrato nelle prime sale, si dovette scontrare con la piaga della peste del 1576 e del 1630 che fece 46.000 vittime la prima volta e 47.000 la seconda. Venezia fu divisa fra la salvaguardia del commercio e la salute pubblica e l’emergenza attuale ci avvicina alla città di allora. Le chiese del Redentore e di Santa Maria della Salute furono edificate per combattere le pestilenze ed invocare la presenza divina, come nel quadro di Domenico Tintoretto, con Venezia supplica la Vergine di intercedere con Cristo per fermare la peste e la tela del Padovanino con Il doge Alvise Mocenigo inginocchiato davanti al modello del Redentore. Il Settecento si chiude con la fine della Serenissima, e l’epilogo è preceduto da tanti fuochi che illuminano come in un tramonto, la bellezza del giorno che finisce. Della metà del Settecento è il grande olio di Giambattista Tiepolo, dove egli rappresenta Nettuno che offre a Venezia i doni del mare. Venezia, centro culturale che attirava i viaggiatori del Gran Tour con la bellezza della sua arte e storia, si animava delle feste del Carnevale e non solo, come vediamo nei quadri di Pietro Longhi, di Guardi, ma anche nelle vivaci scene di un anonimo pittore veneto. La vita pubblica si trasformò allora in un palcoscenico. Monteverdi, Vivaldi, Rossini e Verdi ambientarono qui i loro capolavori e Goldoni trasformò, grazie alle sue osservazioni sulle vicende umane, la tradizione comica. Cinque anni prima della sua fine a Venezia venne inaugurato il Gran Teatro La Fenice. Ancora tanti racconti e opere ci spiegano in mostra l’arrivo dei francesi e poi degli austriaci e infine l’Unità d’Italia, fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando Venezia nel 1948 inaugurò la XXIV Biennale e iniziò anche la sua ripresa. Si accese allora un grosso dibattito tra pittura astratta e figurazione, animato dal Fronte Nuovo delle Arti, e negli stessi anni, si registra in laguna l’arrivo della grande collezionista americana Peggy Guggenheim, con la sua grande collezione d’arte e la sua attenzione ai giovani artisti internazionali, come Jackson Pollock, di cui in rassegna possiamo vedere Circumcision. Giuseppe Santomaso ed Emilio Vedova del Fronte Nuovo delle Arti e poi, Tancredi Parmeggiani con le loro opere astratte tradussero pensieri ed emozioni in un personalissimo linguaggio. Venezia, che è la città sede del più antico Festival del Cinema che si svolge ancora oggi al Lido, è anche simbolo del dibattito sempre in atto tra conservare ed innovare in architettura, come ci rammenta il modello di Ospedale Civile di Le Corbusier, non realizzato. La fotografia narra, alla fine della rassegna, i momenti di crisi più vicini, come l’Acqua Granda del 1966, la crisi industriale che colpisce Porto Marghera negli anni Settanta, l’incendio della Fenice nel 1996 o l’ultima alta marea del 2019.

Patrizia Lazzarin, 4 settembre 2021

 

 

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