Chagall, il colore dei sogni

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Chagall, il colore dei sogni, la mostra visibile da oggi al Centro Culturale Candiani di Mestre, narra della bellezza dell’immaginazione. Accanto alle opere del pittore di origini russe, nato nella città di Vitebsk, i quadri e le sculture di artisti del ‘900 e di oggi, contengono luoghi e forme che racchiudono una realtà intima. Gli artisti, anime belle, quasi stranieri nel proprio mondo, cosa amano di più? Eh! Che ami dunque, straordinario straniero? Amo le nuvole … le nuvole che passano … laggiù … laggiù … le meravigliose nuvole!

Le parole appartengono al Sognatore evocato da Baudelaire nella pubblicazione Spleen de Paris del 1869 e potrebbero adattarsi benissimo al pittore francese Odilon Redon, il simbolista visionario, votato al sogno, alla metafora e con una vena di melanconia.  Le sue opere sono fra le prime che vediamo  al nostro ingresso nella rassegna. L’opera di Chagall che potremmo quasi centellinare, come un calice di vino rosso dal sapore al tempo stesso indistinguibile e universale, viene comparata, in questa occasione, ad artisti a lui vicini per poetica e ricerca.

Il paese che è nell’anima mia è il titolo della sezione dedicata al mondo immaginifico del pittore–poeta che traduce nella sua arte la levità del sentimento del vivere. La esprime allo stesso tempo facendo navigare nello spazio, appena sopra i nostri  occhi, sopra gli alberi e forse ancor più su, fino a quelle nuvole che amavano anche Redon e Baudelaire, gli affetti suoi più cari, come l’amata moglie Bella, i personaggi simbolici del suo universo religioso come il rabbino e gli animali che, nei colori e forme, sembrano incarnare gli spiriti buoni della realtà.

Chagall  venne formando il suo stile sulla lezione del primitivismo russo, dell’arte popolare e delle avanguardie che egli aveva conosciuto durante il suo soggiorno parigino. Ancora una volta attingiamo alle sue impressioni, come a una riserva utile alla comprensione della sua arte. E soltanto mio il paese che è nell’anima mia. Vi entro senza passaporto. Come a casa mia. Vede la mia tristezza e la mia solitudine. Mi addormenta e mi copre con una pietra profumata.

 In quello spazio facciamo la conoscenza del Rabbino che ha il volto  dai tratti marcati, con la  pelle lucente e scura, avvolto da un abito coperta, marezzato sul collo bianco da strisce nere.  Esso  è l’icona dell’esposizione che potremmo visitare fino al 13 febbraio 2024. Il capolavoro che è stato acquisito dal Comune di Venezia alla Biennale del 1928, fa parte del patrimonio della collezione Ca’ Pesaro – Galleria Internazionale d’Arte Moderna ed è qui posto accanto  all’opera Vitebsk. Scena di Villaggio della Collezione Batliner dell’Albertina Museum di Vienna.

La rassegna  nasce da un progetto della Fondazione Musei Civici di Venezia  e  ha la curatela di Elisabetta Barisoni.  In essa si trovano riunite accanto alle opere della Collezione Ca’ Pesaro, lavori del maestro russo provenienti da prestigiosi musei internazionali, quali  l’Albertina Museum di Vienna, il Musée National Marc Chagall di Nizza, il Szépművészeti Múzeum di Budapest e l’Israel Museum di Gerusalemme.

 Protagonista è anche il mondo religioso del pittore di Vitebsk, declinato nelle sue creazioni  e maturato attraverso  il viaggio in Terra Santa, Siria ed Egitto e la riflessione sulle contemporanee persecuzioni antisemitiche. Si percepisce un’umanità violata che cerca espressione anche nel simbolo della Croce. Le sue opere commissionategli tra il 1923 e il 1930  dal famoso mercante francese Ambroise Vollard, fra cui quelle che vediamo al Candiani, sono servite per illustrare la Bibbia.

Qui sono messe in relazione, a rafforzare il loro grado di drammaticità, con i lavori di artisti di luoghi e tempi differenti. Essi sono Georges Rouault, Frank Brangwyn, Veikko Aaltona, Istvàn Csòk, Tullio Garbari, Lynn Chadvick per giungere al giovane artista Nicolò De Mio.

Virtù e vizi  dell’animo umano sono racchiusi nelle ancora attuali Favole dello scrittore francese del XVII secolo, Jean de La Fontaine e che Vollard, nel 1923, incaricherà Chagall di illustrare. Sono 240 poemi e racconti che spaziano dal folclore alla mitologia greca e  storie in cui gli animali hanno le stesse qualità e difetti degli esseri umani. Ancora una volta il messaggio di Chagall all’umanità si dispiega attraverso segni e forme che, nella loro linearità e semplicità, sanno toccare i fondamenti dell’animo di chi li osserva, per quella sensazione di magia che recano in sé.

Nell’ultima sala un’opera di George Grosz, esponente della Nuova Oggettività Tedesca, Una natura morta con gatto  entra in dialogo in modo assai curioso  con l’espressione poetica di Chagall.

Patrizia Lazzarin, 30 settembre 2023

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La natura e le impronte umane

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È pensiero diffuso che il Patrimonio Mondiale sia rappresentato solo da siti che mostrano monumenti e rovine dei tempi antichi. Fanno parte di quel Patrimonio anche altre costruzioni e architetture, beni naturali, passaggi culturali e quelle “eredità culturali intangibili”, ancora presenti e vive, trasmesse da generazioni che sono divenute segni d’identità di comunità e gruppi sociali. Sono espressioni orali, arti dello spettacolo, pratiche sociali, riti e feste, artigianato tradizionale.

Anche luoghi e beni, quindi, che testimoniano tradizioni e culture dell’Uomo e del suo genio creativo, la sua interazione con l’ambiente e le sue costruzioni architettoniche, la Natura, i paesaggi, gli habitat di biodiversità.

La mostra "Patrimonio Mondiale: la Natura e le Impronte Umane", ospitata al Museo delle Mura dal 29 settembre al 3 dicembre 2023, ne presenta alcune importanti testimonianze attraverso 51 immagini fotografiche di Michele Spadafora, suddivise in 7 aree tematiche: Civiltà scomparse, Natura e paesaggio, Disegno urbano, Architettura difensiva, Luoghi di culto, Tradizione e vita, Eredità del passato.

L’esposizione, ideata da Michele Spadafora, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali.

Tra cittadelle fortificate, architetture urbane, centri storici e giardini, luoghi culturali e spirituali, monasteri, templi e chiese, castelli del deserto e piramidi a terrazze, deserti, savane e foreste, le foto ritraggono 39 siti Patrimonio Mondiale:

 Ait-Ben-Haddou, El Jadida, Essaouira, Fez, Marrakesh,  Meknes, Rabat  e Volubis (Marocco), Alcobaça, Alto Douro, Batalha, Coimbra e Oporto  (Portogallo), Amsterdam (Paesi Bassi), Anjar (Libano), Antigua, Quiriguá e Tikal (Guatemala), Baalbek e Ouadi Qadisha  (Libano),  Brugge (Belgio), Chiloé, Rapa Nui   e Valparaíso (Cile), Haghpat, Sanahin  Echmiatsin e Zvartnots (Armenia),  Altopiani Centrali, Dambulla, Galle, Kandy, Polonnaruwa e Sigiriya (Sri Lanka),  Lago Ovest e Suzhou  (Cina),  Ngorongoro e Serengeti (Tanzania),  Quseir Amra , Wadi Rum e Petra (Giordania).  

Si aggiungono all’esposizione le immagini relative a 3 elementi compresi nella lista del patrimonio culturale immateriale dell'Unesco, indagati dall’obiettivo di Michele Spadafora.

Tra questi, il Fado portoghese, il canto popolare triste e nostalgico dell’animo portoghese eseguito da una voce che dialoga con una o due chitarre, accompagnate a volte da una o due viole. Nato nel quartiere di Alfama, a Lisbona, alla fine delle guerre napoleoniche, il Fado (da “fatum”), oggi si canta nelle taverne e case di fado della parte antica della città: un uomo o una donna cantano di amori di miserie e di morti, di dolore e disperazione, di destino cupo e ineluttabile.

E ancora, la piazza Jemaa el-Fna, simbolo di Marrakesh e della tradizione popolare del Marocco, posta all’ingresso della Medina e punto d’incontro di giorno e di notte, gremita di venditori e bancarelle, suonatori e cantastorie, danzatori e guaritori, predicatori ed indovini, portatori d’acqua e incantatori di serpenti.

E infine l’Armenia con la sua “croce di pietra” o Khachkar, una stele commemorativa in pietra che racchiude una croce finemente scolpita poggiata sul simbolo del sole (o della ruota eterna), ornata con rosette, intrecci e motivi vegetali (raramente figure divine o di santi), rappresentazione dell’albero perenne della vita. Una volta eretta viene benedetta ed unta, e diviene segno religioso.

Patrizia Lazzarin, 29 settembre 2023

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Tina Modotti, emozioni senza trempo

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I colori e gli aromi della vita si possono afferrare nella loro intensità anche  in una fotografia in bianco e nero. Lo sguardo di Tina Modotti lo conferma nel cogliere, con giochi di luci e di ombre, i volti di donne e bambini, fiori meravigliosi e molti luoghi simbolo intorno a lei. Le immagini nate dall’osservazione puntuale sono una cartina al tornasole capace di rivelare i sentimenti e le sfumature di un  mondo che insegue a volte, altre invece coglie rapita e rapida nel suo cammino. Dopo due grandi nomi della storia della fotografia, quali Robert Doisneau e Robert Capa, Palazzo Roverella, a Rovigo, ospita la più ampia selezione di scatti mai esposta in Italia di una tra le più importanti fotografe del XX secolo.

Nella mostra che si può ammirare nella città rodigina, potremmo “attraversare” l’intera sua opera: dai ritratti ai reportages, dalle foto nella natura a quelle che denunciano le ingiustizie sociali, fino alla ricostruzione dell’unica mostra che l’artista realizzò  nel 1929, dove furono esposte una sessantina dei suoi lavori. Il profilo dell’artista si completa con i documenti quali filmati, riviste, scritti, ritagli di quotidiani e un’ampia collezione di ritratti di Tina, scattati da alcuni tra i più importanti fotografi dell’epoca.

Una vita straordinaria, quella di Modotti, se si pensa anche al periodo nel quale è vissuta. La sua  passione per la fotografia si è accompagnata infatti a un intenso impegno politico e sociale che questa esposizione fa conoscere attraverso immagini che ci fanno rivivere il  Messico, la Spagna e l’Unione Sovietica di quasi un centinaio di anni fa. Riccardo Costantini, il curatore della rassegna,  traccia un profilo completo  di Tina, nel catalogo dell’esposizione edito da Cimorelli.

Tina Modotti  ebbe una vita breve: morì a soli 46 anni.  Costantini racconta: “Partita da Udine, dal contesto di una famiglia semplice ed emigrante di inizio Novecento ha attraversato alcuni momenti chiave del secolo in vari luoghi del mondo. Per testimoniarne l’eccezionalità …  basta ricordare come abbia infatti vissuto periodi  significativi in otto Paesi diversi (spesso incrociando momenti chiave per la storia degli stessi): Italia, Austria, Stati Uniti d’America, Messico, Germania, Russia, Francia, Spagna... Non bastasse, sul fronte linguistico è stata capace di parlare cinque idiomi diversi, con cambi repentini: sicuramente il friulano della Udine natale, l’italiano, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo … e probabilmente un po’ di russo e francese.

La vita errante e le lingue sono due dati culturali fondamentali, ma non possiamo dimenticare come sia stata anche attrice teatrale e cinematografica, attivista politica, combattente, animatrice del Soccorso Rosso Internazionale, traduttrice, perfino – seppur con minore intensità – autrice di saggi, pittrice, poeta... e anche – fino a oggi poco noto – maestra di fotografia. Una personalità sfaccettata, una vita intensissima, un’intelligenza e un talento fuori dal comune”.

 Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina nasce a Udine nel 1896 da una famiglia operaia: è la terza di sei fratelli. Lo zio Pietro ha uno studio di fotografia e da lui probabilmente apprende alcuni insegnamenti fotografici.

Giunge  a San Francisco nel 1913 e comincia a lavorare in una fabbrica tessile. Dopo pochi anni è già acclamata nei teatri degli emigranti di Little Italy e nel 1920 fa il suo esordio cinematografico a Hollywood, posando anche come modella per importanti fotografi. L’eccezionalità della sua vita si manifesta subito. Dotata di naturale fascino e, eclettica per talento, è mossa  da un’inquietudine che la rende curiosa verso differenti  forme di arte.

Aggiunge, successivamente nel catalogo,  la studiosa Giuliana Muscio: Insieme con la cantante Lina Cavalieri, Tina Modotti fu l’unica attrice italiana a interpretare un ruolo di protagonista nel cinema muto americano.Di certo Modotti ha espresso il suo sguardo percettivo e sensibile, incredibilmente moderno, nella fotografia, ma ha posto grande attenzione anche nel costruire la propria immagine, come dimostrano le foto in cui posa per Edward Weston, soprattutto nella serie intitolata proprio “Tina che recita”.

Su incarico dell’antropologa, archeologa e scrittrice Anita Brenner nel 1926 Tina Modotti, Edward e Brett Weston, viaggiano in varie regioni del Messico con lo scopo di documentare il folclorismo dei luoghi. Nel 1929 sarà pubblicato il libro della Brenner Idol: Behind Altars. The Story of the Mexican Spirit con una selezione di circa settanta immagini. Il lavoro fu un autentico esempio di “etnografia” L’attenzione di Tina al popolare, allo spettacolo, al divertimento “di strada”, all’arte di tutti è però trasversale alla sua carriera: in questo senso vanno letti anche i lavori dedicati alle processioni con pupazzi, all’intrattenimento ambulante e, più tardi alle marionette. Modotti riscontrava in queste forme “archetipiche” la possibilità per il popolo di avere un racconto proprio, e  attraverso la lineare metafora della marionetta criticava il  potere precostituito.

Le donne rivestono un ruolo privilegiato nella sua fotografia. Molti dei suoi scatti più famosi  in questo ambito nascono  da un viaggio solitario a metà del 1929 nella regione dell’Istmo di Tehuantepec, fatto dopo l’omicidio dell’amato Julio Antonio Mella e la successiva condanna  mediatica che la indicava come colpevole. Scatta con particolare velocità, nel tentativo di fermare nel “senza tempo” fotografico la fiera bellezza delle donne tehuane, caratterizzate da una organizzazione matriarcale in cui il loro ruolo sociale, anche politicamente ed economicamente, è particolarmente significativo. Il suo sguardo diventa poi particolarmente dolce quando ritrae le maternità. Alcuni degli scatti dedicati ai bambini in braccio o mentre vengono allattati sono fra i più belli non solo del suo percorso artistico, ma anche del genere fotografico di quel genere.

Diventa in seguito interprete dei forti contrasti sociali del paese in cui vive, frequenta attivisti,  partecipa a comizi, si iscrive  al partito comunista messicano nel 1927 e per questo viene  messa al bando da parte del governo.  La sua eterna e spontanea partecipazione per la causa dei più deboli la porta a una  naturale evoluzione della sua comunicazione fotografica.

Le foto di Tina Modotti dei murales, vendute anche come cartoline e scatti singoli, hanno un ruolo fondamentale nel far conosce l’arte messicana per eccellenza alle gallerie e ai musei statunitensi.

Fino al 28 gennaio potremmo conoscere Tina Modotti in questa rassegna promossa  dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, e sostenuta da Intesa Sanpaolo. Essa è stata prodotta da Dario Cimorelli Editore con Cinemazero – “Tina Modotti. L’opera”, che ripercorre il lavoro della leggendaria fotografa, con oltre 300 scatti, molti mai visti in Italia

Patrizia Lazzarin, 27 settembre 2023

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