Il M5S e il confitto di interessi. Il suo e di Parisi

Il sipario sulla parabola del professore del Mississippi Mimmo Parisi potrebbe alzarsi o calare del tutto nel cda dell’Agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) del prossimo 25 novembre. L’italoamericano, portato da Luigi Di Maio in Italia alla presidenza di Anpal e presentato nelle convention come guru del reddito di cittadinanza e padre dei navigator, lunedì tenterà l’ennesima carta per incassare la vendita della sua app “Italy Works”, che replicherebbe in Italia la piattaforma di incrocio tra domanda e offerta di lavoro che Parisi ha già venduto negli Usa allo Stato del Mississippi (Mississippi Works). La strategia del prof esperto di dati sarà quella di convincere gli altri membri del cda della parzialità del documento di consulenza prodotto dalla società Ernst & Young su richiesta di Anpal, che smonta pezzo per pezzo il piano milionario Parisi. Il commento di Lidia Baratta su Linkiesta.

Spreco di denari pubbici per far contento Luigi Di Maio e... Mimmo Parisi!

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Giorgetti, la mossa per non governare sulle macerie

L'idea che così la Lega possa conquistare «il centro della politica». Con Conte sempre più giù e Salvini sempre più su, a un passo e mezzo da palazzo Chigi, che senso ha proporre un «tavolo» alla maggioranza sui nodi più intricati del Paese? Secondo Giorgetti ha senso, perché «non si governa sulle macerie».

Quando l’ex sottosegretario alla Presidenza si trasforma in un grillo parlante, al leader del Carroccio viene sempre istintivo prendere un martello. E così ha fatto anche stavolta, dopo aver ascoltato l’offerta pubblica di accordo avanzata ai rivali dal compagno di partito, che pure aveva precisato di muoversi «senza l’autorizzazione di Matteo». Se non fosse che anche stavolta Salvini non ha affondato il colpo, siccome riconosce a Giorgetti un’autonomia di pensiero che non mira a ledere il rapporto di lealtà con il capo. Semmai la sua visione sullo stato delle cose è funzionale all’obiettivo della Lega, per evitare di trovarsi nel prossimo futuro a dover gestire una «vittoria mutilata».

Perché «qui tutti fanno i fenomeni e nessuno si occupa del sistema nazionale», ha spiegato l’uomo che parla con Draghi: «La Fiat se n’è andata. Arcelor Mittal sta per farlo. Le imprese italiane ormai faticano persino a esportare. La grande finanza internazionale sembra volerci mollare. Lo spread sta risalendo. Fra tre mesi vanno in scadenza miliardi di obbligazioni delle più grandi aziende di Stato, e non oso pensare cosa accadrebbe se quelle obbligazioni non venissero rinnovate. Insomma, qui viene giù tutto», e il rischio in prospettiva è di vincere le elezioni mentre nel frattempo si è perso il Paese.

Ecco cosa ha indotto Giorgetti a parlare «senza essere autorizzato». L’apertura sulle riforme è stato un modo per lanciare un segnale all’esterno e anche per tenere un piede nel campo di Agramante interno, per evitare — per esempio — che la maggioranza scriva la legge elettorale con intento punitivo nei riguardi del Carroccio. «Mettere in sicurezza il sistema» è una mossa che consente di «mettere a reddito il consenso del partito», perché — proprio per la forza che oggi esprime — la Lega deve dimostrare davanti all’opinione pubblica di avere «senso di responsabilità».

Certo, Salvini se l’è legata al dito con Conte e con Di Maio, e freme per prendersi la rivincita dopo agosto. Ma nei ragionamenti di Giorgetti l’idea bipartisan di realizzare una governance non sarebbe un aiuto agli avversari, se il Carroccio avesse in quel contesto un ruolo da protagonista. In termini di posizionamento, piuttosto, «consentirebbe al nostro partito di conquistare il centro della politica». E non ci sarebbe accredito migliore — a suo giudizio — verso l’elettorato e anche verso l’establishment, che guarda al leader leghista con sospetto se non con ostilità.

Perché la tesi «tanto vinco anche l’Emilia-Romagna» potrebbe non bastare se i nodi della crisi di sistema finissero per strangolare il Paese. Ed è evidente come la situazione sia «drammatica», e che le urne — da sole — non sanerebbero i problemi. Che poi Giorgetti alla storia delle elezioni anticipate non ci crede, o meglio non ci crede fino in fondo: sì, vede Conte azzoppato, vede l’operazione dentro i Cinquestelle a fare a meno di Di Maio, vede le difficoltà del Pd e la voglia matta di Zingaretti di tornare al voto senza però intestarsi la crisi di governo: «Ma anche se il governo cascasse, e lo voglio vedere, chi può esser certo che si andrebbe alle elezioni?».

Oltre non va Giorgetti, nei suoi colloqui, se non altro per non essere tacciato di eresia: già si è spinto ai limiti con la proposta del «tavolo» sulle riforme. Però è stato chiaro nel partito quando ha accennato al tema della «centralità» politica. Conquistare tutte le regionali di qui in avanti è obiettivo ambizioso quanto utile al disegno nazionale del Carroccio, ma l’ex sottosegretario ormai è vecchio del Palazzo, e la storia è piena di macchine da guerra che si sono ingrippate a un passo e mezzo dal traguardo. Vincere è fondamentale per «rientrare a Palazzo Chigi dal portone principale», come dice Salvini. Giorgetti vuole solo evitare rischi, perché poi «sulle macerie non si governa».

Francesco Verderami – Corriere della Sera – 16 novembre 2019

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Dove porta il declino del M5S

Venezia devastata diventa una tragica metafora del declino italiano nella sua evidente accelerazione. È un pensiero che hanno fatto in tanti nel corso della giornata, man mano che arrivavano le immagini della città sommersa e si ascoltavano le solite parole vuote. L’unico punto certo è che il Mose, la diga mobile che ha divorato 6 miliardi di euro ed è ancora in attesa di collaudo dopo anni, rappresenta il secondo tassello della stessa metafora, mentre il cortocircuito sull’Ilva di Taranto è il terzo. Tutti e tre stanno a simboleggiare l’inerzia, l’inefficienza e la retorica di un Paese in cui le classi dirigenti hanno smarrito, e certo non da oggi, il senso del bene comune e delle responsabilità istituzionali.

La sensazione è che il tessuto civile si stia sfaldando. Si approfondisce la frattura politica tra il governo, il Parlamento e un’opinione pubblica sconcertata, in particolare nel Nord produttivo. Nel 2013 e poi ancora nel 2018 il malessere già esistente prese la forma della marea che arrivò a fare dei Cinque Stelle il partito di maggioranza relativa, mentre cresceva la nuova Lega non più secessionista ma "sovranista".

Oggi che il movimento ha fallito in modo clamoroso ma non imprevedibile la prova del governo, la deriva spinge a destra. Si sconta fino in fondo l’errore della scorsa estate, quando si è preferito mettere insieme un esecutivo trasformista privo di nerbo e di sostanza politica invece di tentare la battaglia elettorale contro un Salvini in quel momento debilitato dai suoi passi falsi.

Due mesi dopo i sondaggi indicano la triade Salvini, Meloni, Berlusconi intorno al 50 per cento, una percentuale mai vista, figlia del mediocre governo dell’altra triade: Pd-5S-LeU.

I sondaggi dicono anche altro, in particolare fotografano le incognite nell’area della maggioranza. Con un interrogativo cruciale: fino a che punto il collasso dei Cinque Stelle trascina con sé il Partito democratico? Rispondere alla domanda è essenziale per capire quanto può durare ancora il governo Conte 2 — la cui agonia peraltro è evidente — e quale destino avrà la legislatura. Ebbene, i sondaggi più recenti, con poche differenze, indicano da un lato il precipizio del movimento di Di Maio e dall’altro una resistenza non scontata da parte del Pd. Si poteva immaginare che pagassero entrambi la semi-paralisi dell’esecutivo, invece il partito di Zingaretti per ora tiene e addirittura guadagna qualcosa.

S’intende, sullo sfondo c’è il successo virtuale del destra-centro, tuttavia il Pd si attesta tra il 19 e il 21 per cento, mentre i 5S sprofondano verso il 17-16, forse meno. Significa che il centrosinistra sta recuperando qualche voto ai "grillini", perlomeno una parte dei consensi ceduti negli ultimi anni.

Il dato non è trascurabile. Vuol dire che il Pd, se gli riesce di rovesciare sull’alleato le contraddizioni, è incoraggiato a far valere la sua maggiore solidità senza piegare le ginocchia di fronte al partner (come pure è accaduto). Ma significa anche che i 5S sono a un passaggio decisivo: l’idea di cambiare alleanze per governare fino al termine della legislatura si è rivelata un’illusione. Il movimento sta scomparendo nel Paese come la neve al sole, al punto di rinunciare alla lista per le regionali. Questo è il fattore destabilizzante per eccellenza: nessun governo può durare a lungo in tale squilibrio.

Stefano Folli –la Repubblica – 14 novembre 2019

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