Italia non protagonista

«Le posizioni degli Stati che hanno siglato l'accordo sono diverse perché in questa situazione diversi sono gli interessi. E poi c'è un problema più generale: non abbiamo più leverage sugli iraniani, non siamo stati in grado di salvare l'accordo sul nucleare in questi mesi, cosa può proporre, concretamente, l'Europa all'Iran adesso? Non siamo più molto credibili», dice un ex diplomatico italiano con una profonda conoscenza del dossier, molto critico con le ultime decisioni europee: «A Teheran l'Unione europea ha promesso di tutto e non ha mantenuto nulla». Il commento di Francesco Maselli di su Linkiesta.

L'Italia nel pantano non solo a causa del grillino Di Maio

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La politica estera questa sconosciuta

Una crisi internazionale drammatica, dall’Iraq alla Libia, trova un’Italia svagata, mai come oggi priva di una politica estera di cui sia possibile decifrare almeno le linee generali.

Eppure esisterebbero tutte le ragioni per mettere al centro del dibattito pubblico gli interessi geopolitici del Paese nonché un’analisi dei rischi concreti che si profilano, compresi quelli legati a una ripresa delle migrazioni di massa.

Senza nulla togliere al ritorno in campo di Di Battista o all’ultima foto dei pizzoccheri mangiati a cena da Salvini, resta il fatto che le missioni militari italiane sono numerose in Medio Oriente e Asia centrale e costituiscono un problema delicato. Le più importanti sono proprio a Bagdad ed Erbil, in territorio iracheno, poi in Libano (Unifil) e a Misurata, in Libia, dove opera da tempo un ospedale da campo con una rete di sicurezza garantita dai nostri soldati. Si tratta di scelte maturate negli anni: una politica militare, benché circoscritta e dal profilo limitato, al servizio di una certa idea della presenza italiana nelle aree più scomode.

Se tuttavia vengono meno i fondamentali della politica estera, anche lo strumento militare perde di significato e, anzi, genera pericoli immediati. Per qualche tempo a Roma ci si è cullati nella rassicurante gag di Trump che si rivolgeva a Conte chiamandolo “Giuseppi”: una storpiatura involontaria del nome da cui si è voluto dedurre una simpatia particolare, una familiarità dovuta a una sorta di asse preferenziale e personale tra il presidente americano e il premier italiano. Purtroppo sul piano pratico tale vicinanza non ha prodotto risultati di rilievo.

In Libia si pensava che il ruolo privilegiato dell’Italia sarebbe stato puntellato dagli Stati Uniti, magari solo per tagliare le unghie all’invadenza di Macron. Ma non è andata così.

L’appoggio italiano a Serraj, il leader riconosciuto formalmente dalla comunità internazionale, è diventato via via sempre meno incisivo, mentre il groviglio libico non riusciva ad attrarre l’attenzione di Washington.

A un certo punto il presidente del Consiglio ha definito “equidistante” la linea italiana tra lo stesso Serraj e il suo aggressivo rivale Haftar. E con l’equidistanza si capisce che l’influenza di Roma non si è consolidata. Ad aiutare Serraj ora provvederà Erdogan ed è sorprendente come lo stravolgimento degli equilibri in Libia avvenga nella sostanziale indifferenza delle maggiori forze politiche, quando invece potrebbe essere l’occasione per un momento di unità nazionale.

Ieri Gianluca Di Feo ha scritto su queste colonne che l’Italia, nonostante tutto, resta il Paese meglio titolato a parlare con tutti. È vero, ma è un’attitudine che è stata male esercitata negli ultimi tempi, anche per un palese deficit di credibilità politica. Si sconta l’aver affidato la Farnesina all’evanescente Di Maio, il quale oltretutto l’ha considerata un ripiego, non essendo riuscito ad avere la vice presidenza del Consiglio. Il resto è una conseguenza. Ora che la parola è ai cannoni e che Turchia e Russia sono in campo come mai era accaduto nel recente passato in questo settore del Mediterraneo, non c’è da fare molto affidamento nemmeno sull’iniziativa dei ministri degli Esteri dell’Unione prevista per il 7. Gli eventi precipitano e la mancanza di visione del governo giallo-rosso investe in pieno anche la politica estera.

Stefano Folli – la Repubblica – 4 gennaio 2020

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Conte 2 non può avere vita lunga

Questo governo non può durare. Il matrimonio tra il Movimento 5 Stelle ed il partito democratico è un’unione strampalata. Da più parti si è sottolineato come gli intenti di Luigi Di Maio, capo politico dei grillini, e di Nicola Zingaretti, segretario piddino, siano solamente ed escusivamente quello di tentare di sopravvivere. Se fossero andati anticipatamente alle urne nello scorso ottobre, avrebbero preso una scoppola di dimensioni ciclopiche. Le destre avrebbero certamente stravinto.

Al partito a guida Zingaretti non è parso vero cogliere l’opportunità di essere rimesso in pista dal clamoroso autogol di Matteo Salvini. Detto tra le righe, molti osservatori hanno suggerito che assai probabilmente il leader leghista di proposito ha sciolto il sodalizio con i pentastellati. Non aveva la minima voglia di attribuirsi la paternità di una legge finanziaria cosiddetta “lacrime e sangue”. Scelta che avrebbe dovuto fare se il matrimonio con i pentastellati fosse durato per tutto il periodo di gestazione della manovra di bilancio 2020. Con i 23 miliardi di euro di clausole Iva da sterilizzare. Con scarsissime risorse da disporre per rendere credibile un progetto di rilancio dell’economia del Belpaese (anche se Salvini aveva indicato in una cinquantina di miliardi di euro le somme da mettere a disposizione di cittadini e imprese per risollevare le sorti di un’economia che da più di vent’anni non cresce) il ragazzo ha fatto una furbata e ha lasciato il cerino nelle mani di Zingaretti e Di Maio. Certo che promettere un condono tombale avrebbe certamente solleticato le mire di milioni di evasori fiscali conclamati. Se è vero come è vero che il totale dei furti all’erario assommano a 109 miliardi di euro l’anno, di cui 36 miliardi per mancato pagamento dell’Iva e 34 miliardi per Irpef da lavoro autonomo e impresa. Fonte Il Sole 24 Ore. Insomma, la Lega non paga dazio. Ha lasciato ad altri la patata bollente di preparare la manovra di bilancio. Sostanzialmente una giocata da incallito pokerista. Un bluff che è, però, andato a segno.  Palazzo Chigi ha cambiato padrone, il Conte 1 non è uguale al Conte 2. Alla fine della fiera il buon Salvini riuscirà anche, alle prossime elezioni politiche (prima o poi si andrà a votare) a conquistare la premiership. In quel momento saranno dolori per l’attuale maggioranza. Che poi, in realtà, ha conquistato Palazzo Chigi in maniera un po’ truffaldina. Questo occorre, per onestà, riconoscerlo. Grazie al dettato costituzionale che consente un cambio di maggioranza senza dover ricorrere ad elezioni anticipate. Quelle a più riprese richieste, e non concesse dal Quirinale, dal leader leghista, nonostante ne sussistessero le condizioni, anche perché sia Zingaretti che Di Maio avevano sempre proclamato ai quattro venti che mai e poi mai avrebbero governato insieme, stante le distanze siderali dei rispettivi programmi.

Conte 2. L’anomalia di un capo del governo che passa da una coalizione ad un’altra è solo italiana. Quel che è accaduto è, costituzionalmente corretto, ma politicamente no. Si è sfaldata, ad agosto la maggioranza gialloverde,  e sarebbe stato più che conseguente e logico sciogliere le Camere e mandare tutti al voto. Ma a Sergio Mattarella non piaceva Salvini. Lo si è sempre intuito. Ha cercato di ostacolarlo e, Costituzione alla mano, c’è pienamente riuscito. Se avesse avuto il coraggio di mandare tutti a casa, avrebbe stravinto il centro-destra, e la situazione sarebbe stata assai più chiara. A questo punto bisognerebbe davvero por mano ad una riforma della Costituzione laddove dev’essere sottratta al Capo dello Stato la possibilità di essere il giudice di ultima istanza della vita del governo e lasciarla, come in Gran Bretagna, per fare un esempio, nella discrezionalità del capo dell’eesecutivo. Così ha fatto Boris Johnson a Londra. E opportuno, a mio avviso, riflettere anche sulla possibilità di passare da una repubblica parlamentare ad una di tipo presidenziale, come in Francia. Per evitare tre governi in un solo anno. Come di sovente è accaduto in Italia. Queste due ultime ipotesi migliorerebbero la vita politica del nostro malato e sciagurato Paese. Si dirà meglio tardi che mai. Con il governo giallo-rosso i problemi del Paese sono ben lontani dall’essere né affrontati né, tantomeno, risolti. E’ anche di tutta evidenza l’intenzione degli attuali governanti di evitare di andare al confronto elettorale prima dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica. C’è un non detto che vuole impedire la nomina al Colle di un uomo espresso dal centro-destra. C’è, infatti, chi parla dell’ipotesi di un Silvio Berlusconi al Quirinale,  di Liliana Segre o del pericolo Romano Prodi o Mario Draghi. Su quest’ultimo nominativo sembra, a dire la verità, che si siano pronunciati favorevolmente gli stessi leghisti. I quali, comunque, ultimamente, hanno espresso posizioni meno ostili verso l’Unione Europea e la Commissione di Bruxelles. D’altronde, siamo in Europa, e le aziende, in particolare quelle del Nord, ma non solo, ormai vivono in un contesto economico transnazionale e non si può certamente tornare indietro. Dall’introduzione dell’euro sono trascorsi quasi vent’anni. Non si può far finta di niente.

Le clausole di salvaguardia. L'incubo Iva è solo rimandato al prossimo anno.
Nella manovra economica, che il governo giallo-fucsia (per dirla con il filosofo Diego Fusaro) ha concordato con l'Europa, sono inscritte alcune clausole salva deficit tra cui il congelamento dei risparmi di Quota 100, il mantenimento del reddito di cittadinanza. La spada di Damocle delle clausole di salvaguardia ce le ritroveremo anche il prossimo anno. Purtroppo. Forse sarebbe stato preferibile rivoluzionare le aliquote Iva e liberare risorse per il sostegno delle retribuzioni di milioni di lavoratori dipendenti e non, oltre che dei pensionati a meno di 1000 euro al mese. Questo coraggio il governo M5S-Pd non lo ha avuto.

A mio avviso Conte 2 avrà vita breve. E’ guida di un esecutivo male assortito, che ha davanti a sé problemi insormontabili. La legge di bilancio da far quadrare. E non sarà impresa agevole. La legge elettorale da approvare nel giro di pochi mesi. La questione giudiziaria in tempi brevi da affrontare (dal primo gennaio dovrebbe entrare in vigore la riforma della prescrizione, che i pentastellati vogliono e i dem non amano eccessivamente). Si dovrà operare una scelta tra il sistema maggioritario e quello  proporzionale.

Infine ci sono i temi economici. Giganteschi. Il tema del Mes, del salva-stati. Con il Pd d’accordo ed il M5S contrario. La questione riforma della giustizia. Quella Alitalia. La questione ex Ilva, oggi Arcelor Mittal. I problemi del dissesto idrogeologico che interessa l’intero territorio nazionale, oggi un altro viadotto che è crollato sull’autostrada Torino Savona. Adesso si precipita a Roma Beppe Grillo a commissariare Luigi Di Maio. Con questo gesto mette il dito sulla crisi dei pentastellati che faticano a ritrovare una comunione di intenti, dibattuti tra la linea Di Maio, quella Fico e quella Di Battista.

Riuscirà il governo Conte 2 a fare la quadratura del cerchio e a sopravvivere con questa serie di Everest da scalare, d’inverno e a piedi nudi. Per questi motivi e per mille altre ragioni l’azzeccagarbugli Conte non riuscirà. Non è questione di essere di destra, di centro o di sinistra. Questo esecutivo si disinteressa dei drammi, su diversi fronti, del Belpaese e punta in modo plateale e strumentale ad arrivare con questa anomala maggioranza all’eezione del successore di Sergio Mattarella. Alcuni dicono per impedire l’ascesa al Quirinale di Romano Prodi e, magari, piazzare sul Colle il sig. Silvio Berlusconi. In mezzo c’è il gruppo di Italia Viva che può decidere in qualsiasi momento di togliere la fiducia a “Giuseppi”.

Marco Ilapi, 25 novembre 2019

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