Il grande show dei nazionalisti in mutande

Se fossero quei due balconi lo specchio migliore per capire cosa poteva essere l’Italia senza l’Europa e l’Europa senza l’Italia? Proveranno a dire ancora che l’Europa non esiste, che l’Italia ha di nuovo calato le brache, che la Troika arriverà presto nei nostri confini, che i burocrati di Bruxelles ci faranno fare la fine della Grecia. Ma quando la demagogia si sarà sedimentata, quando la retorica si sarà placata e quando la realtà risulterà evidente anche a chi si ostina a negarla, non si potrà fare a meno di notare un concetto semplice e lineare: la tragica stagione della pandemia ha mostrato con chiarezza che di fronte al tentativo di risolvere i problemi della modernità la dottrina nazionalpopulista ha a che fare più con la sfera dei problemi che con la sfera delle soluzioni. E per quanto si possa sempre sostenere che l’Europa possa fare di più, che l’Italia debba chiedere di più e che il Parlamento debba pretendere di più è difficile non riconoscere che nella notte tra giovedì e venerdì i paesi europei con più testa sulle spalle, guidati dalla Francia e dalla Germania, sono riusciti a trovare un’ottima terza via tra il populismo rigorista di alcuni stati del nord e il populismo antieuropeista di alcuni stati del sud. Il risultato è più che soddisfacente. E solo chi non vuole capire oggi finge di non capire cosa è successo in Europa negli ultimi mesi e finge di non vedere che la politica è riuscita a fare quello che finora in Europa erano riusciti a fare solo i tecnici: fare tutto il necessario per salvare l’Europa e considerare i problemi di un paese europeo come i problemi dell’intera Europa: whatever it takes. Succede così che nel giro di un mese l’Europa si ritrova ad avere una Banca centrale più forte di prima, capace di stanziare in pochi giorni 750 miliardi di euro aggiuntivi per acquistare titoli di stato. Succede così che nel giro di un mese l’Europa grazie alla Banca europea degli investimenti si ritrova ad avere un nuovo arsenale finanziario da 200 miliardi di euro con cui sostenere le piccole e medie imprese. Succede così che nel giro di un mese l’Europa grazie alla Commissione europea si ritrova tra le mani uno strumento da 100 miliardi di euro chiamato Sure con cui oggi potrà sostenere politiche contro la disoccupazione, senza condizionalità, e con cui un domani potrà emettere titoli di stato, per creare il famoso fondo da 2 mila miliardi di euro capace di sostenere dopo i lockdown il rilancio dell’Europa. E mentre succede tutto questo – e mentre gli antieuropeisti sono lì a chiedere all’Europa di fare quello che hanno sempre chiesto di non fare all’Europa, ovvero esistere – succede che l’Europa riesce a trovare un compromesso per modificare il Mes e permettere ai paesi più in difficoltà di avere accesso a linee di credito del Fondo salva stati senza condizionalità fino a somme pari al due per cento del pil nazionale per spese dirette e indirette legate alla sanità (l’Italia ha versato 14,3 miliardi di euro al Mes, ne otterrà il doppio, circa 37 miliardi, senza che questo abbia un peso sul debito). L’Europa c’è, esiste, cresce, matura, si rafforza – e nel frattempo è stato sospeso il Patto di stabilità, è stata resa più flessibile ogni regola sugli aiuti di stato, è stato permesso l’utilizzo immediato dei fondi strutturali Ue ancora disponibili – e per quanto possa sembrare incredibile, uno dei paesi che hanno contribuito a rendere possibili alcuni passi in avanti dell’Europa è stato un paese come l’Italia che con i suoi tempi, i suoi problemi, i suoi guai, le sue lentezze e le sue contraddizioni è riuscita in un piccolo miracolo politico: far nascere nella legislatura con il più alto tasso di antieuropeismo della sua storia recente un governo capace di attivare in Europa le giuste leve per contare qualcosa. E il fatto che nel giro di due anni, con lo stesso Parlamento, il motore dell’Italia sia passato dall’essere guidato da un asse governato da Luigi Di Maio e da Matteo Salvini a un asse governato da Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Paolo Gentiloni dovrebbe far capire ai professionisti del dettaglio che certamente si può chiedere di più, che certamente si può fare di meglio, che certamente si può ambire a qualcosa di diverso ma che nel frattempo vale la pena accontentarsi, vale la pena tenersi stretta l’Europa e vale la pena pensare a ciò che poteva essere l’Italia senza l’Europa e l’Europa senza l’Italia. E per farlo, per pensare a tutto questo con un sorriso, ci sono due balconi in qualche modo iconici utili a fotografare lo spirito del tempo. Il primo balcone è quello famoso di Palazzo Chigi, quando un gruppo di irresponsabili, un anno e mezzo fa, si affacciò rovinosamente per festeggiare l’approvazione di una manovra populista. Il secondo balcone è meno famoso ma non meno iconico ed è quello che ha involontariamente mostrato Salvini due giorni fa durante un collegamento in streaming con i suoi follower. E mentre Salvini, affacciato a una finestra, spiegava come l’Italia avrebbe dovuto farsi rispettare in Europa, a un certo punto dall’altra parte del condominio un vicino di casa di Salvini interrompe in diretta il leader della Lega spiegando il suo punto di vista in modo efficace: “Matteo, sono tutte stronzate”. Quando si dice lo spirito del tempo. Buona Pasqua a tutti.

Claudio Cerasa – Il Foglio – 11 aprile 2020

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La piccola Italia da Roma a Bruxelles

Nella serata in cui l'Eurogruppo approda a un modesto risultato, si può misurare quanto sia limitata la capacità dell'Italia di essere ascoltata sul piano internazionale. La battaglia per gli eurobond (o coronabond che dir si voglia) era già persa da giorni, ma si è voluto farne la bandiera di una sorta di sfida al resto dell'Unione che è finita in un nulla di fatto. In sostanza con un rinvio delle decisioni ai capi di Stato e di governo, ma su una base poco propizia alle posizioni italiane. L'intesa con la Francia – e anche questo era prevedibile –, lungi dall'essere un patto di ferro, come a Roma qualcuno ha voluto far credere, sembra vedere il ritorno di Parigi al rapporto privilegiato con Berlino. E ora, una volta che Angela Merkel ha di nuovo e in via definitiva escluso qualsiasi strumento volto a rendere comune il debito dei singoli Paesi, per l'Italia si tratta soprattutto di evitare l'isolamento. Perché questo è e resta il vero rischio all'orizzonte dopo che per giorni si è detto «no al Mes, sì ai coronabond», garantendo che altrimenti «siamo pronti a fare da soli». Una linea poco prudente in sintonia con i Cinque Stelle, a loro volta impegnati a tagliare l'erba sotto i piedi di Salvini attraverso un "sovranismo" grillino in discreta continuità con il "sovranismo" di destra del governo Conte 1. Resta da capire se sul piano elettorale questa strategia riuscirà a trasferire un po' di opinione pubblica ostile all'Europa nei ranghi dei 5S (e in parte, chissà, del Pd che tace e sembra acconsentire). Ovvero se alimenterà con nuovo carburante il nazionalismo di Salvini, le cui fortune elettorali – a dar retta ai sondaggi – sembrano in declino. A differenza di Giorgia Meloni. Non solo. La paralisi dell'Europa ha fatto subito riemergere un istintivo provincialismo, alimentando polemiche di corto respiro utili a misurare la statura politica dei protagonisti. È singolare, ad esempio, che il ministro degli Esteri, Di Maio, si rivolga al governo di Berlino perché prenda le distanze da un articolo della Welt molto sgradevole verso l'Italia. Come se nell'occidente liberale un governo eletto potesse chiudere la bocca a un giornale o anche solo intimidirlo. Ma Di Maio è pure sfortunato. Qualcuno ha ritrovato e subito messo in Rete l'intervento di Beppe Grillo sei anni fa nella sede del Parlamento europeo, nel quale il capo carismatico del movimento diceva a chiare lettere le stesse cose scritte ieri dalla Welt : in sostanza, non date soldi all'Italia perché finirebbero alla mafia a causa della corruzione generale. Quindi Grillo, nel pieno della battaglia anti-casta e anti-politica, usava un argomento esplosivo contro il suo Paese. La Welt usa lo stesso argomento contro l'Italia per dar voce all'opinione dei suoi lettori contrari a caricarsi pro quota il nostro debito. E Di Maio se la prende con Berlino mentre era stato assai tiepido, giorni fa, nel difendere un giornalista italiano attaccato non da un quotidiano, bensì dal ministero della Difesa di Mosca. Per tornare al Mes, il fondo salva-Stati, l'Italia rischia di intestarsi in modo involontario la crisi in cui si dibatte l'Europa. A meno che non abbia deciso di far esplodere tutte le contraddizioni, che certo esistono, dell'Unione europea. Se fosse così, qualcuno dovrebbe averne valutato le conseguenze. E magari dovrebbe riferirne in Parlamento.

Stefano Folli – la Repubblica – 10 aprile 2020

 

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Di Maio si aggrappa ancora alla Via della Seta per non sparire

  • Pubblicato in Esteri

“Chi ci ha deriso sulla Via della Seta ora deve ammettere che investire in questa amicizia ci ha permesso salvare vite in Italia”, ha detto l’altro ieri al Tg2 il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Non bastava la diretta Facebook con cui ha atteso il primo volo umanitario proveniente dalla Cina, non bastava la conferenza stampa seduto a fianco dell’ambasciatore cinese in Italia durante la quale si guardava bene di chiarire quanto materiale l’Italia avrebbe acquistato dalla Cina e quanto invece sarebbe stato donato. In una situazione d’emergenza come quella che sta vivendo l’Italia la trasparenza, cioè l’unico punto del programma elettorale dei Cinque stelle, dovrebbe essere un punto fermo della comunicazione. E invece Di Maio, nel suo tentativo ormai quasi grottesco di salire su un palcoscenico politico in questa pandemia, è riuscito a trovare un sistema per giustificare la firma della Via della Seta di un anno fa usando la peggior retorica, quella delle vite umane da salvare. E però la sua vicinanza a Pechino e le sue parole continuano a essere un problema per la credibilità dell’Italia sul piano internazionale e per la coerenza diplomatica. Dicono: sono aiuti, non si mettono mai in discussione gli aiuti. Purtroppo però questa non è una riunione di condominio, e la politica internazionale si fa anche nelle situazioni d’emergenza, con metodo. Di aiuti all’Italia ne stanno mandando anche altri paesi, così come la Cina sta mandando donazioni anche al resto del mondo – quindi la Via della Seta non è in alcun modo collegata con le donazioni. Ieri il presidente Xi Jinping ha parlato con la cancelliera tedesca Angela Merkel, qualche settimana fa aveva avuto un colloquio telefonico anche con il premier spagnolo Pedro Sánchez. Da noi, l’unico interlocutore di Xi resta il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quindi non un rappresentante del governo. All’inizio del contagio, quando la situazione sembrava ancora sotto controllo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciò, durante la prima di una lunga serie di conferenze stampa notturne, lo stop ai voli da e per la Cina. Una misura ormai ritenuta da più parti inutile, perché metteva a terra i voli ma non permetteva il controllo capillare degli ingressi. Per quella decisione, l’ambasciatore italiano a Pechino ricevette non poche telefonate dal ministero degli Esteri cinese. “L’Oms ha esortato i paesi a evitare le restrizioni sui viaggi, ma alcuni paesi hanno fatto il contrario”, ha detto all’inizio di febbraio la portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying. “E’ un comportamento cattivo, esagerato”. Nella stessa conferenza stampa diceva che “un amico si vede nel momento del bisogno”, facendo l’elenco dei paesi che si erano già messi a disposizione per aiutare la Cina: l’Italia non c’era in quell’elenco. La retorica dell’amicizia è la stessa usata da Di Maio quando alcuni paesi hanno iniziato a mettere avvisi di viaggio nei confronti dell’Italia, e se la rivende ora con la Cina: è grazie alla nostra amicizia che ci aiutano. Beh, no. C’è poi un altro problema, che è quello organizzativo. Perché nessuno sa esattamente tutto quello che sta entrando in Italia dalla Cina. Nessuno ha un elenco, un inventario, nemmeno alla Farnesina. I voli cinesi sono liberi dai controlli perché sono tecnicamente “voli umanitari”. Ma dentro a quei cargo ci sono anche gli acquisti effettuati da aziende e cittadini in Europa, acquisti diretti di materiale magari da donare, magari da rivendere. Quotidianamente però l’ambasciata cinese in Italia (la stessa che accusò i nostri parlamentari di aver fatto “un grave errore” organizzando una conversazione in videoconferenza con gli attivisti di Hong Kong) celebra la partenza e l’arrivo degli “aiuti cinesi”, creando (forse di proposito) confusione. Il risultato è che in questa Italia intossicata da anni di antieuropeismo la gente sui social – e c’è molta gente sui social network, in questo periodo di quarantena – vede soltanto gli aiuti cinesi esaltati dal nostro ministro degli Esteri. I media cinesi rilanciano i video dell’inno nazionale cinese cantato dagli italiani in quarantena. La Cina salvatrice, un modo per far dimenticare le sue responsabilità. Ma per devozione e dedizione Giggino il cinese ha superato perfino il suo compare leghista Michele Geraci, il vero China man del vecchio governo gialloverde in questi giorni impegnato in un’opera di convincimento della bontà del “modello cinese”. L’ex leader del M5s esattamente un anno fa – da ministro dello Sviluppo economico – ha posto la firma sull’intesa con la Cina, il famigerato memorandum con il quale l’Italia, primo paese del G7, è entrato ufficialmente nelle grazie propagandistiche di Pechino. Allora Di Maio cercava di convincere i suoi detrattori che si trattasse non di un accordo politico ma di un accordo “puramente commerciale. Con questi accordi ci aspettiamo un riequilibrio della nostra bilancia commerciale con la Cina. C’è troppo Made in Cina in Italia e poco Made in Italy in Cina. L’accordo stipulato ha l’obiettivo di invertire questa tendenza”. Ecco, obiettivo non riuscito, perché a un anno di distanza, a parte le famose arance siciliane, nulla si è visto delle promesse che faceva Di Maio. E non c’entra l’emergenza pandemia: l’export italiano verso la Cina è perfino calato rispetto al 2018, ed è arrivato a 12.992 miliardi di euro. L’import di prodotti cinesi, invece, quello sì, è cresciuto: da 30,8 miliardi di euro nel 2018 a 31.665 miliardi nel 2019. Il pasticciato passaggio di parte del commercio estero dal ministero dello Sviluppo economico alla Farnesina, voluto da Di Maio, ha compromesso ancora di più la capacità dell’Italia di gestire i rapporti commerciali con il colosso cinese. Delle 19 intese istituzionali e le dieci commerciali firmate lo scorso anno, quelle che hanno avuto più successo, a quanto pare, sono quelle che hanno permesso a Pechino la mano libera sulla propaganda in Italia. Anche perché degli altri accordi non sappiamo poi molto: più di un mese fa il Foglio ha chiesto al Mise di visionare i testi delle due intese firmate il 23 marzo dell’anno scorso con l’omologo ministero cinese – quella sulla cooperazione nel settore del commercio elettronico e quella per la promozione della collaborazione tra startup tecnologiche. L’ufficio stampa del ministero ha risposto che “non è nostra abitudine divulgare i testi di intese tecniche”. Trascorsi i trenta giorni dall’invio di una richiesta formale, il ministero non ha ancora risposto: attendiamo fiduciosi.

Giulia Pompili – Il Foglio – 26 marzo 2020

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