Erdogan invia le truppe in Libia

La Turchia non si ferma. Il presidente Erdogan ha deciso di inviare per un anno in Libia un contingente militare di 5.000 soldati a sostegno del governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez Serraj contro l’assedio delle forze militari agli ordini dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar. Una mossa che ha provocato la condanna netta della Lega Araba e dell’Egitto e forti timori da parte dell’Onu che chiede di scongiurare il rischio di «internazionalizzazione del conflitto». Trump ha chiamato Erdogan: in Libia serve soluzione diplomatica.

La Turchia tira diritto e la guerra cresce d’intensità alla periferia di Tripoli. Con 325 voti favorevoli e 184 contrari il parlamento di Ankara ha approvato ieri pomeriggio la mozione fortemente voluta dal presidente Recep Tayyip Erdogan per inviare truppe in Tripolitania a sostegno del governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez Sarraj contro l’assedio sempre più serrato delle forze militari agli ordini dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar.

Non ci sono cifre ufficiali, ma negli ultimi tempi lo stesso Erdogan aveva accennato alla disponibilità di spedire almeno 5.000 soldati regolari. Potrebbero affiancarsi 1.600 volontari-mercenari siriani arruolati tra i miliziani sunniti emigrati a partire dal 2011 in Turchia per fuggire alla repressione di Bashar al Assad e già utilizzati come elementi combattenti da Erdogan per affrontare i curdi nelle enclave siriane di Afrin e Rojawa.

Per ora il mandato della forza di spedizione è limitato ad un anno. Ma in ogni momento potrebbe venire prorogato. «Una Libia il cui governo legale è sotto assedio minaccia i nostri interessi», spiegano da Ankara. Non sono invece chiari i tempi e le modalità dell’invio delle truppe. Al momento a Tripoli sono stazionate alcune centinaia di consiglieri militari turchi e nei giorni scorsi si sosteneva che i rinforzi potessero giungere gradualmente via nave e aereo già a partire da queste ore.

Erdogan in persona si era recato a Tunisi nei giorni scorsi per chiedere di utilizzare gli spazi aerei e marittimi tunisini. Tunisi nega però gli accesi e anche l’Algeria si dice contraria alle «interferenze militari straniere». Haftar minaccia raid aerei contro i porti e gli aeroporti di Tripoli e Misurata. E sostiene già di aver abbattuto un drone turco.

Condanna netta dalla Lega Araba e dal Cairo, dove il governo di Abdel Fattah al Sisi non ha mai fatto mistero del suo sostegno ad Haftar: «Il dispiegamento delle truppe turche potrebbe ripercuotersi negativamente sulla regione mediterranea». Così Trump: «Le interferenze straniere complicano la situazione». E l’Onu chiede di scongiurare il rischio di «internazionalizzazione del conflitto», sottolineando che dall’attacco di Haftar il 4 aprile 2019 il numero di sfollati ha raggiunto quota 342mila. Nelle ultime ore, le forze di Haftar sono avanzate ulteriormente verso il centro di Tripoli dal quartiere meridionale di Salhaddin. Tre civili sarebbero rimasti uccisi e cinque feriti sotto le bombe, mentre il centro città torna a riempirsi di sfollati. «I bombardamenti sono molto intensi. Il rumore degli scoppi è udibile ovunque. La gente abbandona le case e dorme nelle auto parcheggiate verso centro e lungomare», raccontano reporter locali.

Situazione che rende ancora più difficile la visita della delegazione Ue prevista il 7 gennaio in Libia. Sarà guidata dall’alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Josep Borrell, vi parteciperà anche Luigi Di Maio. Non è invece definita la possibilità di visita da parte di Haftar a Roma, che era stata prospettata dopo il suo incontro con Di Maio. Aspettative più alte desta l’incontro Erdogan-Putin, l’8 gennaio. Non è escluso che i partner militari più importanti dei due fronti avversari possano infine trovare un accordo, come del resto hanno già fatto per lo scenario siriano.

Lorenzo Cremonesi – Corriere della Sera – 3 gennaio 2020

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Sindrome siriana in Libia

Se non credessimo che la storia pregressa condizioni il presente, potremmo dire «finalmente, meglio tardi che mai» di fronte all’incontro di pochi giorni fa tra Conte, Merkel e Macron sulla situazione libica. La Libia pone un problema urgente e grave di sicurezza per l’Europa. Parrebbero buone notizie sia la fine delle rivalità che fino a ieri hanno diviso Italia e Francia sia la decisione di Italia, Francia e Germania (a cui presto dovrebbe aggiungersi la Gran Bretagna) di coordinare gli sforzi per favorire una soluzione negoziata che pacifichi e mantenga unito il Paese africano. Ma le apparenze ingannano, la storia passata pesa e spazio per l’ottimismo ce n’è poco. Né per ciò che riguarda il futuro della Libia né per ciò che riguarda (anche al di là del caso libico) la capacità dei governi europei di coordinarsi efficacemente per fronteggiare le crescenti minacce alla sicurezza del vecchio continente.

L’incontro fra le principali (im)potenze europee è il segno della loro debolezza. Russi e turchi ci stanno «scippando» la Libia: non solo a noi europei ma anche agli americani, primi responsabili, a causa della loro latitanza strategica, di quanto è già avvenuto in Siria e di quanto si sta replicando in Libia. Ciascuno è schierato dietro il proprio cliente locale (il signore della guerra, generale Haftar, è sostenuto dai russi, e il capo di governo di Tripoli, al-Sarraj è appoggiato dai turchi).

Ammesso che sia improbabile, come sostengono gli esperti, che Haftar conquisti Tripoli e il resto del Paese con le armi, restano solo due possibilità: o la guerra civile continuerà ancora a lungo, magari per anni, oppure russi e turchi troveranno un accordo anche sulla Libia (come già sulla Siria) favorendo una soluzione negoziata che metta termine alla guerra civile e che possa soddisfare gli interessi degli uni e degli altri (magari anche con qualche vantaggio per altri Paesi coinvolti, dall’Egitto al Qatar). Nell’uno come nell’altro caso saranno guai per l’Europa. Nella prima eventualità la Libia resterà una porta spalancata a disposizione di trafficanti di esseri umani e di terroristi decisi a colpire i Paesi europei. In caso di soluzione negoziata fra turchi e russi, il controllo su cruciali risorse energetiche nonché il potere di usare i rischi di destabilizzazione dei Paesi europei per ricattarli saranno nelle mani di potenze ostili all’Europa. Non è tale solo la Russia. Lo è anche la Turchia nonostante l’ipocrita tentativo occidentale di fingere che sia ancora un Paese membro della Nato uguale a tutti gli altri.

Proprio perché la storia passata pesa, quando si parla di Europa l’attenzione si concentra sempre sui problemi della governance economicofinanziaria e sulle questioni commerciali. Cose importantissime, certamente, sulle quali, peraltro, le divisioni sono oggi in Europa assai forti. Gioca però anche un riflesso antico. C’è stato un tempo in cui l’Europa poteva essere solo «Europa economica» (gli aspetti politici e di sicurezza erano delegati agli Stati Uniti). Il mondo è radicalmente cambiato ma a giudicare da certi summit europei sembra che leader e opinioni pubbliche non se ne siano accorti. Le questioni della sicurezza dovrebbero essere ora il principale assillo dell’Europa, il primo punto all’ordine del giorno in tutti gli incontri nelle sedi europee. Ma gli europei non sono riusciti a trovare una posizione comune nemmeno sulla questione dei foreign fighters (i combattenti islamici di ritorno, molti dei quali pronti a fare scorrere il sangue in Europa). Anche la vicenda Brexit non dovrebbe essere considerata solo per le sue conseguenze economico-finanziarie e commerciali. Il fatto che la prima potenza militare europea (insieme alla Francia) se ne vada dall’Unione certo non le impedirà di collaborare con gli altri europei in materia di sicurezza. Però rende evidente la futilità, non dico di allestire, ma ormai anche solo di ipotizzare, piani per una futura difesa europea. Piani che erano comunque deboli già prima di Brexit: le opinioni pubbliche erano e sono indisponibili a pagare il tanto che dovrebbero pagare per tutelarsi contro le minacce. Brexit ha solo chiuso il discorso.

Che fare allora? Gli europei, grazie alla lunga pace di cui godono dal 1945, sembrano pensare che questa sia una condizione naturale, non revocabile, della vita sociale e politica. Immemori della storia pensano che pace e sicurezza — da cui dipendono la libertà, la democrazia, il benessere economico — siano beni acquisiti per sempre. Questa mancanza di realismo contribuisce a spiegare perché gli europei non possano fare a meno dell’alleanza atlantica. Se saranno gli americani a sancirne definitivamente l’irrilevanza, gli europei si troveranno nudi, inermi.

Nel frattempo, i vecchi tic politici sono duri a morire. Il presidente francese Macron dichiara la «morte celebrale» della Nato non solo per scuotere dal torpore americani ed europei ma anche per richiamare implicitamente, a beneficio dell’opinione pubblica francese, l’antica polemica gollista contro l’alleanza atlantica. Dimenticando che in età bipolare, dominata dalle due superpotenze, il generale de Gaulle poté permettersi il lusso di recitare la parte dell’eretico all’interno del sistema occidentale solo perché quel sistema era forte e vitale, non in coma come oggi. Il neo-gollismo non ha più senso.

Chi non ha la forza né la volontà di decidere il proprio destino diventa preda degli appetiti altrui. Già oggi si può constatare, e verosimilmente sarà ancora di più così in futuro, quanto siano disponibili vari Paesi europei a impegnarsi, separatamente, in giri di valzer con i russi o con i cinesi. Facendo finta di non sapere che i prezzi che si pagano nello stabilire rapporti privilegiati con potenze autoritarie diventano, nel lungo periodo, assai alti.

Russi e turchi si prendono la Libia, minacce terroriste incombono, predatori affamati circondano la debole Europa. Gli europei più consapevoli dei pericoli si chiedono se i cittadini americani, nelle prossime elezioni presidenziali, premieranno chi pensa che il legame con l’Europa sia nell’interesse degli Stati uniti oppure chi ritiene che sia tempo di abbandonare il vecchio continente al suo destino. In ogni caso, plausibilmente, le decisioni che più contano non le prenderanno gli europei.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 16 dicembre 2019

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L'inferno nei confini tra Libia e Tunisia

  • Pubblicato in Esteri

Alcune officine costruiscono serbatoi di carburante extra che possono essere installati alla perfezione su quei modelli di automobile. Con un simile serbatoio si possono trasportare fino a duemila litri di carburante. Gli autisti lo comprano a Zuara e in altri posti subito oltre il confine con la Libia. Il carburante in Libia costa meno di 0,15 dinari libici (0,09 euro) al litro, molto meno che in Tunisia (in media 2,7 dinari tunisini, ossia 0,8 euro). Fanno il pieno, attraversano il confine e rivendono il carburante in Tunisia. Ovviamente le squadre su entrambi i lati del confine lavorano insieme facilitando questa operazione quotidiana. Tutti ne ricavano qualcosa. Il reportage di Khalifa Abo Khraisse su Internazionale.

Da Liibia e Tunisia i pericoli per l'Italia

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