Quella brutta bestia che è l’Io

Questa settimana piena di sconvolgimenti politici, economici e giuridici per la pestilenza mondiale ha portato con sé ulteriori aggravamenti di cui i giornali, a cominciare dal nostro, si sono ampiamente occupati. Non sembri strana la decisione da me presa in accordo con il nostro direttore Carlo Verdelli di lasciar da parte questi argomenti e personalmente occuparmi invece di un tema del tutto diverso: ciò che io concepisco come la sostanza dell’Essere umano. Ho scritto molte volte su questo argomento. In realtà non è affatto estraneo alle vicende politiche che si succedono da molti mesi in tutto il mondo. In gran parte esse dipendono dal soggetto che siamo, da quando la nostra specie esiste e quindi da milioni di anni. Io ho più volte affrontato questo tema ma lo avevo messo da parte in questi ultimi mesi perché mi sembrava troppo remoto rispetto al coronavirus. In realtà non lo è: il coronavirus non aggredisce le automobili, i treni, gli aerei e via dicendo; aggredisce in realtà chi ci sta dentro e quindi questa è la vera realtà dei fatti. Chi ci sta dentro è anche (non soltanto) l’uomo. E chi è l’uomo? Da quali forze è animato o combattuto: la terra, il sole, la luna, l’Io e naturalmente anche Dio e tutti gli elementi universali così come noi li concepiamo, esistenti o inesistenti, amici o avversari, protagonisti o subordinati ad altre forze che a volte conosciamo e altre volte ci limitiamo a supporne l’esistenza. Io ho scritto, nel corso della mia vita intellettuale, molto spesso di questo aspetto e oggi ritengo opportuno ritornarvi. I malanni che infuriano su quasi tutto il mondo sono già ben noti e li do quindi per acquisiti. Questa settimana non mi occuperò di essi ma di tutto quel mondo che sta dietro di noi, dentro di noi e nell’universo che ci circonda. La mia presentazione è questa: «Io sono stato un mercuriale che sognava d’essere un saturnino. Sono stato un mediatore di scambi, di commercio, di conflitti e anche un accompagnatore spesso di interessi, talvolta anche di sentimenti e di anime». E come dice Ulisse che parla rivolto a Dante nella Divina Commedia: "Io misi me per l’alto mare aperto". Cominciamo.

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Ci hanno provato in molti a scrivere la biografia dell’Io e in molti ancora ci proveranno. Tra tante sorprese che il futuro ci riserva, c’è almeno un punto assolutamente scuro: quest’esercizio biografico continuerà fino a quando la razza umana non sarà estinta. L’Io è una brutta bestia, ciascuno di noi lo sa per conoscenza diretta. Ti morde il cuore, ti becca il cervello, si agita dentro lo scafandro-prigione nel quale l’hai rinchiuso, picchia colpi sordi alle tue interne pareti. Vuole esser preso in considerazione, manifestarsi, essere guardato e ammirato. Da chi? Da te, naturalmente. E tu muori dalla voglia di ammirarlo. Tu sei venuto al mondo apposta per questo. Parliamoci chiaro: tu sei venuto al mondo soltanto per questo e non sai far bene che questo. In tutte le altre occupazioni sei un dilettante, ma nella professione di ammiratore dell’Io, del tuo naturalmente, tu sei uno specialista eccellentissimo, un artigiano rifinito; che dico?

Un artista senza rivali, nessuno può battersi, su quel terreno non hai concorrenti, non c’è gara per il semplice fatto che i tuoi possibili competitori sono tutti occupatissimi a mandare avanti la stessa mirabile impresa: anch’essi ammirano l’Io, naturalmente il proprio. Sicché ciascuno vive in mezzo agli altri, a contatto sempre più stretto con gli altri, visto che il pianeta si va rapidamente affollando, intento a carezzare, vezzeggiare, applaudire, propagandare la propria immagine. Sento parlare di bisogni primari e li sento elencare: cibo, sesso, vesti, riparo. Ma niente è più sbagliato di un elenco del genere. Il solo, unico bisogno primario è quello di autoammirarsi: esso per di più non si sazia mai né si estingue neppure per un attimo. È il solo desiderio impossibile da spegnere che condiziona tutte le altre scelte e comportamenti.

Il lato comico della situazione sta nel fatto che noi escludiamo con tutte le nostre forze che quel desiderio esista dentro di noi. Noi non sappiamo e anzi neghiamo che esso sia all’origine di tutte le passioni, gli amori, gli odii che albergano nell’animo nostro. E perfino di quello che chiamiamo il sentimento morale.

Bestemmio forse? Il sentimento morale come effetto dell’amore di sé? Il sentimento morale come risvolto del più radicato e permanente egoismo?

Esattamente questa è la deplorevole situazione nella quale ci troviamo da molte migliaia di anni. Ho la sensazione che con il passare del tempo essa si sia alquanto aggravata e che la tendenza all’aggravamento prosegua con crescente rapidità.

Voi vedete a questo punto che la faccenda è diventata terribilmente complicata. Dal canto mio, sono consapevole che il problema mi affascina esclusivamente perché mi offre una buona motivazione per continuare ad ammirarmi, almeno per tutto il periodo in cui cercherò di risolverlo. Del resto che altro potrei fare? E voi, tutti voi, che altro state facendo?

Si scopre ora che questo despota è tuttavia condizionato dalla qualità del sangue che lo nutre, dall’intensità degli impulsi, infine dalla potenza degli istinti, giovani leoni accovacciati ma tuttora ruggenti.

La partita comunque è sempre quella di Io contro il resto del mondo, sicché non è una scoperta il constatare che un fegato affaticato, un cuore intermittente, un arto azzoppato, una vista menomata porranno al despota dell’organismo condizioni che lo segneranno in modo di governare e di esprimersi. Ma pur entro i limiti che lo determinano, è Io che si pensa responsabile delle scelte e dei comandi. È uscito trionfatore da una battaglia lunghissima, ha distrutto una parte della bestia dalla quale era nato, una ricchezza felina è stata amputata o debilitata; si è in qualche modo ritirato dal corpo per potersi separare e distinguere dalla circostante natura; si è arroccato lassù, in quella specie di fortezza tra la fronte e la nuca e da lì vigila, si arroga, progetta. Pensa se stesso, pensa Dio, pensa la morte. Ambigui noi siamo, l’ambiguità è la nostra forza e il nostro mistero, sorridente malinconia ti circonda le spalle, occhio azzurro desidera il mondo, occhio nero vanifica la speranza.

Vuoi tu, gentile principe, rosmarino per i ricordi e viole per i pensieri? Dissente il corpo meglio del pensiero?

Anche il pensiero è un sentimento. Noi siamo la bestia che pensa il pensiero che erompe dal corpo, lo sovrasta e lo frusta perché si adegui ai suoi comandi, ne è piegato a sua volta in una lotta che sempre si ripete con esiti alterni, infine ti affioca mentre i veleni della vecchiezza irrigidiscono i tessuti, rallenta il battito del cuore, si disseccano le linfe e gli umori. Quando si spegne il lucignolo esausto nel vaso senza più olio, del corpo che l’ha prodotto e ospitato in così lunga e contrastata convivenza non resta che la gelida spoglia riconsegnata alla natura da cui orgogliosamente la bestia che pensa si era separata.

Voi temete la morte. Chi non la teme? Cercate di scordarvene, non vi riguarda, non è vero? Cadono accanto a voi le vite degli altri, ma che vi importa?

L’umana pietà vi commuove appena un istante se avete un tempo vuoto per soffermarvi.

Così è per tutti. Se così non fosse saremmo già pazzi furiosi. E quando per un più lungo tratto di tempo la commozione sovrasta e tu soffri la morte altrui come un’assenza crudele è perché la morte ha portato con sé una parte di Io che a quell’altrui era stata affidata, ha infranto uno degli specchi in cui una parte di Io si rifletteva e di lì tornava a te per confortare la tua solitudine. Tu non piangi il morto ma la scheggia di te che andrà sepolta con lui.

Quanta energia sviluppa il sentimento della morte?

Tale è la forza immensa di quella paura che per liberarcene dobbiamo dimostrare ogni giorno di essere simili agli dèi.

L’Io, statene certi, è nato per questo, questo sa fare, di questo si gratifica. Io ha creato Dio e dunque è potente almeno quanto lui.

Accade talvolta nei rapporti tra le persone che vi sia un immedesimarsi reciproco, un desiderio e anzi un bisogno di capire e di esser capiti, dedicarsi e ricevere dedicazione. In questi casi, che in verità non sono frequenti perché la paura di darsi è di solito assai più forte del coraggio di aprirsi e di giocare se stessi in una libera partita, è molto difficile, anzi impossibile stabilire chi possiede e chi è posseduto, chi cattura e chi è catturato. Se il desiderio è sincero, se il bisogno è intenso, il gioco del vincitore e del vinto non ha luogo.

Il fondamento di questo genere di rapporti sta nella disponibilità di vagheggiare l’immagine dell’altro più della propria, arrivando a una sorta di trasfigurazione reciproca e infine – quando lo scambio affettivo si verifica a livelli profondi – in un mutamento di sé, un allargamento della persona e dello sguardo per mezzo del quale essa riesce ad accogliere la circostante realtà.

A me è accaduto di avere rapporti di questa profondità due volte nel corso della vita: lo considero un privilegio, un’inestimabile ricchezza per me, anche se non sono affatto sicuro che lo sia stato in termini di felicità per le persone che in quel tipo di rapporto sono state le mie interlocutrici. A chi poi mi domandasse se il mio è stato un carattere felice risponderei di sì, che lo è stato nonostante le fatiche della vita che sono state molte, le contraddizioni che spesso sono state laceranti ma non hanno lacerato perché il tessuto ha resistito e ha acquistato col passare degli anni una forza connettiva sempre più robusta.

Io mi sono vissuto quasi possessivamente come un Ulisse che viaggiava e una Penelope che tesseva; adesso che sono arrivato al colmo dei miei anni mi piace immaginarmi come una sorta di Noè alla guida di un’arca nella quale sono entrati in molti e diversi.

Quasi nessuno ne è uscito. L’arca ha affrontato parecchie tempeste come è naturale per tutte le arche che si rispettino. E io sono stato di volta in volta leone e colomba, fiore e ape, ma anche lucertola e formica.

Sono debitore per questo alla formica e alla lucertola, all’ape e al fiore e a tutti coloro che nell’arca hanno trovato riparo e forse anche prigione. Ciascuno decide per sé. Per questo dico che, quando guardo indietro al passato, scopro di me che forse sono stato più un luogo che un carattere. O forse il carattere di un luogo.

Quest’immagine non mi dispiace, anzi mi consola.

Sono stato più esteso che profondo. Non ho conosciuto né vette né abissi, ma vasti altopiani.

Mi vengono in mente alcuni versi:

"Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io Fossimo presi per incantamento…" "Perch’i’ no spero di tornar giammai …" "Noi siamo della stessa stoffa di cui son fatti i sogni E da un sonno è racchiusa la nostra piccola vita".

Eugenio Scalfari – la Repubblica – 19 aprile 2020

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La dignità smarrita dell’Europa

Ho ritrovato tra i miei vecchi libri, sui quali ho formato una parte notevole di me stesso, il Discorso sulla servitù volontaria scritto verso la fine del Cinquecento da Étienne de La Boétie. L’autore non ha scritto altre cose ma questo testo, che in tutto è lungo una cinquantina di pagine, ha segnato una svolta notevole nel pensiero politico di quel secolo che apre la modernità. Aveva studiato la vita pubblica di quel periodo nella Francia ancora in buona parte feudale. Aveva per amico molto intimo Montaigne.

I Saggi di Montaigne erano stati cibo intellettuale per La Boétie ma si era verificato anche il contrario e cioè che il pensiero di La Boétie aveva notevolmente influenzato l’amico.

La Boétie aveva visitato la casa di Montaigne e specialmente la sua torre con le iscrizioni culturali che erano state scritte sul soffitto. Quanto a Montaigne, che abitava nel Bordolese, era andato più volte a trovare l’amico Étienne a Sarlat dove poi fu sepolto quando, ancor giovane, morì tra le braccia di Montaigne.

L’opera che ha fatto di La Boétie una delle grandi menti della cultura politica si chiama Servitù volontaria così spiegata dall’autore: «Com’è possibile che tanti uomini sopportino un tiranno che non ha forza se non quella che essi gli danno. Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia se voi non glieli forniste? Siate risoluti a non sortire più ed eccovi liberi».

Mi resi conto che si trattava d’un libro e di un pensiero di grande modernità: è il popolo che costruisce lo Stato e lo amministra. Le monarchie e i nobili che hanno avuto nella storia poteri spesso regali hanno preparato senza saperlo la modernità politica.

Non ho conosciuto altri di meglio se non il pensiero che Marx manifestò nel 1848 mentre si trovava per un periodo di breve durata a Parigi e assisteva e partecipava ai moti politici che in quell’anno si diffusero in tutta l’Europa occidentale. Marx scrisse un breve saggio nel quale diceva che la rivoluzione francese aveva ottenuto la libertà e con questo aveva fatto un passo avanti di grandissimo interesse, ma si trattava solo del primo dei passi, il secondo doveva essere l’eguaglianza e spettava al partito comunista nato proprio in quei mesi quarantottini, in Francia e in Inghilterra. Libertà ed eguaglianza: col passar del tempo l’eguaglianza avrebbe preso maggiore importanza della libertà che comunque era ormai acquisita senza più alcun dubbio. Le previsioni di Marx (e di Engels) erano che dopo la società liberale e quella liberal-comunista, il comunismo sarebbe rimasto la sola realtà politica, poi tutte queste chiavi di lettura sarebbero scomparse e il popolo non avrebbe avuto più bisogno di seguire un particolare vocabolario politico: avrebbe ormai vissuto con libertà, eguaglianza, socialità.

In qualche modo questo discorso di Marx riesumava quello di La Boétie che lo precedeva di quasi tre secoli.

Tra un secolo e l’altro c’era stata nientemeno che la Rivoluzione francese che toccò il suo massimo con la battaglia di Valmy con l’esercito rivoluzionario che bloccò i conservatori europei mobilitati dalla Germania, dall’Austria e dalla Prussia.

È incredibile guardare all’Europa di oggi: dà la sensazione d’essere un Continente salito a galla dopo secoli di inesistenza politica e culturale. Non è naturalmente affatto così, ma è tuttavia avvenuto che l’Europa dal Cinquecento a oggi ha fatto una strada formidabile ma tuttavia scomparsa negli ultimi cinquant’anni. Esiste l’Europa d’oggi con la dignità d’un tempo? A me non sembra.

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C’è un altro evento su uno scacchiere del tutto diverso: quello religioso dove la figura da sette anni dominante è quella di papa Francesco.

Di lui abbiamo infinite volte parlato su questo giornale, sia per l’importanza e l’assoluta novità del suo pontificato e sia per l’ultima situazione dovuta alla pestilenza di questi ultimi mesi. Papa Francesco ha rappresentato e tuttora rappresenta una figura addirittura rivoluzionaria: il Dio Unico da lui invocato fin dall’inizio del suo pontificato nella primavera del 2013.

Questo è stato fino a qualche settimana fa il Papa. Non s’era mai vista una figura simile nella storia della Chiesa che iniziò duemila anni fa ma che finora reclutava per quanto riguarda il cristianesimo 2,4 miliardi di cattolico-cristiani che sono una parte molto importante ma ancora lontana dalla complessità religiosa del mondo intero. Prima di papa Francesco del Dio Unico nessuno aveva mai parlato. Da questo punto di vista lui è una personalità del tutto nuova e molto aderente ai tempi.

La novità tuttavia si è verificata da qualche settimana: per la prima volta il Papa dice messa e si raccoglie nelle varie preghiere da solo, con l’aiuto e la presenza di quattro o cinque segretari di rango vescovile e perfino cardinalizio che aiutano le preghiere di Sua Santità.

Ciò che sta accadendo in questi giorni ha creato una situazione del tutto diversa: c’è una malattia che infuria e che si tenta di combattere isolando le persone, sottraendole in tal modo alla pestilenza in corso nel mondo intero. Il Papa effettua i suoi atti religiosi da solo, talvolta nella chiesa di San Pietro assolutamente deserta e altre volte in altre basiliche romane chiuse al pubblico senza eccezioni.

Questa è la posizione di papa Francesco. Era accaduto ai tempi di Bonifacio VIII, ma lì erano intervenute ben altre ragioni di tipo politico-religioso. Ragioni analoghe si verificarono di nuovo quando Roma fu occupata dai patrioti garibaldini e mazziniani nel ’48-’49 e il Papa dell’epoca si era rifugiato alla corte borbonico-napoletana. Papa Francesco sta rivivendo la storia cristiana dei primissimi secoli che culminarono con un Santo che il nostro Papa considera tra i grandissimi della Chiesa cristiana: Agostino, vescovo di Ippona. Anche in quell’epoca un vescovo di grande rilievo nella società medievale era stato costretto ad astenersi dalla preghiera perché il territorio a lui affidato veniva spesso percorso da genti barbare anticattoliche che mettevano quei luoghi a ferro e fuoco.

Per fortuna non è questo che sta accadendo adesso ma è una pestilenza che ci ricorda la Spagnola del primo Novecento e la peste raccontata ne I Promessi sposi di Alessandro Manzoni.

Tutti speriamo che la situazione attuale si ricomponga il più rapidamente possibile. Sua Santità attraversa una fase della sua vita assolutamente nuova. Ho la fortuna di conoscerlo molto bene e so che una vita solitaria come quella che è costretto a fare potrà avere un’influenza positiva: Francesco non l’aveva mai vissuta una vita solitaria, sarà un’esperienza di grandissimo valore. Questo penso e questo spero vivamente per lui.

Eugenio Scalfari – la Repubblica – 12 aprile 2020

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Il passo storto del mondo

La tragedia del coronavirus sta interessando l’Italia ancor più che gli altri Paesi europei e qui da noi è concentrata soprattutto nelle regioni del Nord. Abbiamo per fortuna un presidente del Consiglio che ha il senso dello Stato, confortato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ieri è stato un altro giorno disperante. Il Paese è blindato nella speranza che tra due o tre settimane i contagi diminuiscano e consentano un minimo di libertà della propria esistenza. Ce lo auguriamo e abbiamo anche fiducia nelle disposizioni del nostro governo.

Quanto è accaduto finora ci induce comunque a delle riflessioni.

Riflessioni che danno all’opinione pubblica una maturità maggiore di quanto finora non ci sia stata. Il presidente del Consiglio, ovviamente, è un leader politico e tutto ci fa ritenere che questa sua leadership aumenti nell’emergenza.

Abbiamo già un governo di centro-sinistra con ovvie ripercussioni favorevoli che daranno all’Italia una fisionomia di modernità, nei limiti del possibile, anche ai Cinque Stelle, ma comunque soprattutto all’Italia socialdemocratica, con la speranza che anche Zingaretti esca dal suo malanno e possa riprendere la guida del Pd.

Questa situazione complessiva del nostro Paese mi induce però a riprendere un passato culturale che ebbe il suo massimo dai primi dell’Ottocento e arrivò fino al fascismo che ne fu il maggiore avversario fino a quando fu spazzato via dalla seconda Guerra mondiale.

*** Scrisse Friedrich Nietzsche ne La gaia scienza il tema della morte di Dio vista come l’evento culminante del nichilismo, ossia di quel fenomeno che per Nietzsche segnò la modernità per la quale tutti i valori assoluti si svalutano. Riproduco qui quanto scritto da Nietzsche in quella occasione: «Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: cerco Dio! Cerco Dio. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto? disse uno. Si è perduto come un bambino, fece un altro. Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato? gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e gridò: Dove se n’è andato Dio? — gridò — Ve lo voglio dire: siamo stati noi a ucciderlo, Voi ed Io! Siamo noi tutti i suoi assassini. Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dove che ci muoviamo noi? Non è il nostro un eterno precipitare? Non stiamo forse vagando attraverso un infinito nulla? Dio è morto e resta morto e noi lo abbiamo ucciso».

Insieme a Nietzsche in piena consapevolezza del proprio pensiero gli si affianca Schopenhauer innestando sul suo tronco elementi provenienti da Schelling e da Hegel. Questa è l’atmosfera filosofica di quel ricco periodo che prosegue a suo modo la filosofia messa in moto dalla Rivoluzione francese.

Ci sono molti ulteriori uomini di pensiero che nel tempo si sono avvicendati e direi che uno dei più interessanti è Arnold Schönberg. Questo è un personaggio di interesse notevole: musicista molto moderno ma anche filosofo, era grafomane, rifletteva su tutto e non si limitava a mettere per iscritto i suoi pensieri, ma li catalogava con cura e conservava anche il più piccolo foglietto.

Gli scritti sulla musica sono ovviamente i più interessanti e i più autorevoli rispetto a quelli di tipo filosofico. Col passar degli anni Schönberg fornì una serie di riflessioni di notevole interesse, alcune delle quali meritano di essere ricordate.

«L’artista sa rappresentare molto meno di quello che può immaginare. Il dilettante molto di più».

«Quale sia la differenza tra talento e genio si comprende dal fatto che esiste l’espressione "talento imitativo"».

«Il ritratto non deve somigliare al modello ma al pittore».

«Si impara: ormai mi so comportare molto bene con i principi ma non ancora con i camerieri».

«Un povero diavolo deve stare attento a non pagare una cosa più di quello che vale. Per questo motivo chi amministra le propri inclinazioni e opinioni con la stessa economia con la quale amministra i propri soldi ha il terrore di poter un giorno sopravvalutare qualcuno».

«La mia originalità consiste nell’aver imitato subito tutto ciò che di buono ho visto e riconosciuto. Anche quando non lo avevo ancora visto in altri».

«Nella mia professione non ho superiori , sono tutti già morti: Beethoven, Bach e Wagner».

«Mi reputo una delle menti più acute perché scopro errori logici perfino in me mentre altri non trovano neppure i loro».

«L’uomo è malvagio. Non solo si difende, ma va anche all’attacco: non chiede giustizia ma potere. Non aspira soltanto al necessario ma vuole anche il superfluo. Non si accontenta del proprio vantaggio ma vuole anche danneggiare l’avversario. Non gli basta salvaguardare se stesso ma deve anche soggiogare il prossimo».

«Ogni scimmia che imita un uomo sicuramente non sa se a scimmiottare ha cominciato lei o l’uomo».

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Ce ne sarebbero molte altre di formulazioni in favore di se stessi e in disprezzo e ironia per gli altri, ma credo che abbiamo dato un discreto esempio citando un filosofo importante e pigliatutto come si dice per chi ha stima di se e disprezzo per gli altri rischiando di ottenere un giudizio assolutamente contrastante con la realtà. Noi sappiamo che la politica è gremita di questo stesso sentimento del meglio per sé e peggio per gli altri. Debbo dire che noi per fortuna abbiamo avuto una politica relativamente seria.

Relativamente. La classe politica dalla metà dell’Ottocento fino alla nascita del fascismo è stata abbastanza autorevole e ben preparata. Il capitalismo in Italia non c’era a metà dell’Ottocento: veniva dall’estero, dalla Francia, dalla Germania, dall’Austria ma si limitava a trarre dalla sua presenza vantaggio economico senza tuttavia ridurre al peggio l’economia italiana. Strano a dirsi: per l’Italia fu più importante la politica che il capitalismo economico.

Attualmente è il mondo intero che si muove a volte dritto e a volte storto ma con modalità abbastanza conformi: quando è il momento della dirittura è il mondo intero che si muove in quella posizione e così anche avviene quando è la stortura che ha la meglio. Bene o male sono conformi e questo è comunque un bene. Così può sembrare. Attenzione però: che il mondo intero vada allo stesso passo a me non piace, la conformità assoluta non va bene per la democrazia. Demos e kratos sono due elementi la cui combinazione è il meglio. Il populismo e la dittatura sono il peggio. Non perdiamo mai di vista questo aspetto della nostra vita pubblica e privata, Leopardi ce lo insegna con i suoi versi meravigliosi e Machiavelli con le sue lettere e il suo Principe .

Eugenio Scalfari – la Repubblica – 22 marzo 2020

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