Bellezza imperfetta tra vacche e stelle

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Quando ieri sera nella sempre suggestiva  scenografia del Teatro Olimpico di Vicenza, il camaleontico Diego Dalla Palma si è rivolto al numeroso pubblico presente ha chiesto in primis cosa si sarebbero aspettati da lui, esperto di bellezza. Un perché idoneo ad introdurre il tema dello spettacolo. Il suo titolo Bellezza Imperfetta si attacca tutto d’un fiato alla postilla Fra Vacche e Stelle e si stempera come un enigma da spiegare. Quale significato diamo alla Bellezza e come raggiungerla?

Come sgranando un rosario, le parole e i concetti di: coraggio, diversità, dolore, consapevolezza, disciplina e destino scanditi all’inizio, l’attore li ha poi calati nel racconto della sua vita, musicata dai timbri delle emozioni da lui provate nei momenti cruciali del suo percorso esistenziale. Ad aumentare la sensazione che essi fossero anche delle occasioni speciali, forse irripetibili e che condensavano sentimenti di stupore, la voce della cantante e attrice Vera Dragone, usciva dal suo profondo, quasi un tutt’uno  con la pelle di quelle braccia che si muovevano con eleganza sul palco per farci sentire dove si originavano, nella lontananza del tempo, le passioni e la tristezza del protagonista. Le voci di entrambi si univano nel narrare.

Fra Vacche e Stelle ci ha condotto ad  attraversare, con un’immagine dipinta a parole, un altopiano montano che, nelle belle notti appare interamente stellato, nel territorio di Enego, dove è nato Dalla Palma. Allora, lui ragazzo, il padre e alcuni aiutanti sono in baita con la madre, dentro sacchi a pelo. Fuori  le mucche, tante mucche che si scornano con il temporale che è scoppiato quella notte e rovescia acqua, molta acqua.  Bisogna uscire fuori dalla baita, bagnarsi oltre le tele cerate che li coprono. Sono fradici e ostinati. Sull’uscio la madre che, come l’autore si diverte a raccontare è sempre stata una donna diversa, li attende chiamandoli a bere un caffè d’orzo perché si possano riscaldare. Sembra anche a noi di vivere quel momento magico che  appartiene a quella  notte di montagna di molti anni fa.

Donna forte da sembrare imperitura e che il dolore non  scalfisce, Agnese, la mamma, ha la passione di tingersi le labbra di rosso in ogni occasione e forse di metterci un po’ di lacca per trattenere il colore. Un particolare quasi buffo per testimoniare una diversità che si lega in questo caso all’apparenza. La mamma, la mare, la madre: i tanti nomi usati sono evocativi e adatti a indicarci una figura che è fondamentale nella sua vita. Il ricordo si staglia forte, si colora del dolore e coraggio necessari quando giovane ambizioso, innamorato del sogno di un futuro radioso nella grande Milano, egli sceglie di andarsene da quei luoghi che appartengono alla sua infanzia e adolescenza.

La madre al figlio che va: “tieni 25.000 lire, non spenderli e non tornare”. Una cosa impossibile, come un serpente che si morde la coda. Una frase concisa, condensata che racchiude anche l’ambizione della figura materna. Due dolori, anche il suo, che seguono alla sua partenza. Si, perché per cercare la nostra bellezza incontriamo il dolore, ci serve coraggio. Ma non basta. Occorrono la consapevolezza e la disciplina. Oh! La disciplina che significa soprattutto fatica, … quasi ostinazione.

 E tutto non basterebbe se un destino avverso ponesse il suo grosso randello di traverso al nostro cammino. Dentro la vita di Diego Dalla Palma che egli non ha avuto timore e pudore a svelarci anche nei tormentati passaggi, mantenendo la sua innata eleganza, abbiamo distinto il ruolo della madre nel suo esserci quasi  come un faro, ritto fra le onde e  marosi, a segnare la via, o se preferiamo, i momenti fondamentali.

Martina Colombari, a fine spettacolo, ha letto quella lettera, non sappiamo se  vera o inventata, in cui donna Agnese rispondeva alla domanda del figlio sulle ragioni per cui non lo aveva mai accarezzato. Quali carezze sono possibili per una madre? Come si svela un amore come quello che ci accompagna dalla nostra venuta nel mondo? … Le risposte Diego Dalla Palma le ha suggerite e le proporrà ancora nello spettacolo di stasera e di domani. Un piccolo regalo per ogni donna e uomo all’uscita del teatro, offerto dall’attore,  ha donato la sensazione di bellezza  e amicizia a una serata che aveva dato emozioni originali.

La prima nazionale andata in scena ieri sera appartiene al 76° Ciclo Spettacoli Classici del Teatro Olimpico di Vicenza, che ha la direzione artistica di Giancarlo Marinelli.                                             

Patrizia Lazzarin, 21 ottobre 2023       

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L’Histoire du soldat

La melodia ci coglie e ci guardiamo attorno per capire da dove nasce, lì seduti mentre aspettiamo che lo spettacolo inizi. Stasera va in scena al Teatro Olimpico di Vicenza un’opera  del compositore  russo Igor’ Stravinskij: l’Histoire du soldat, non così nota come L’uccello di Fuoco, Petrushka e La sagra della primavera, le musiche che hanno accompagnato i suoi balletti più famosi. Davanti a noi, oltre quello che ci appare come un velo che copre gli ingressi trionfali del palcoscenico, ruota sulle punte, una ballerina con un vestito di tulle che ricorda nella leggiadria le danzatrici di Edgar Degas, avvolta in un’atmosfera di movimenti simili ad arabeschi tipici dell’Art Nouveau. Essa si muove sulla pedana tonda di un carillon, e gira e gira, mentre il suono riempie lo spazio e riflette la magia di un momento incastonato nel Tempo.  Stiamo entrando dentro una fiaba a passi lenti, simili a quelli del bambino in pigiama rosso che si muove gattonando sul palco  e gioca con fogli stropicciati, su cui scrive e legge. Ci incuriosisce il contenuto. Il bimbo accompagna l’inizio del racconto, testimone silenzioso e attento, assorto. Narrazione e coreografie servono per illustrare una vicenda che in maniera diversa può toccare tanti reduci di guerra: il ritorno a casa, magari dopo anni, quando le persone e le  cose nel frattempo sono cambiate e, ricominciare la vita di un tempo  sembra una scommessa da vincere con il destino. Se un soggetto o meglio un destinatario del discorso è chiaro, il dramma o se preferiamo la tragedia, riguarda ogni uomo e il suo desiderio di acquisire, di possedere sempre di più perché sembra così facile e raggiungibile la felicità che si lega alla ricchezza. Il soldato dell’Histoire che fa il suo ingresso danzando dentro un uniforme blu turchese, nel suo borsone tiene pochi oggetti: la foto della sua fidanzata, il santo protettore e il suo violino che ha acquistato per pochi soldi. Egli è  povero. L’apparizione del diavolo, travestito da vecchio signore con un retino acchiappafarfalle lo stupisce mentre sulla riva del fiume sta suonando il suo strumento, ma ancora di più lo meraviglia la sua domanda di fare uno scambio con il suo violino. Al soldato verrà dato al suo posto un libricino da cui possono scaturire immense ricchezze. Basterà chiederle, non serve saper leggere: la conoscenza non è necessaria, è bastevole il desiderio. Stravinskij racconta nelle Cronache della mia vita pubblicate a Parigi nel 1935 la genesi e il momento della nascita dell’Histoire du Soldat: La fine dell’anno 1917 fu uno dei periodi più duri della mia vita. Profondamente abbattuto dai lutti che mi avevano colpito, mi trovavo in una delle situazioni economiche più difficili. La rivoluzione comunista che aveva da poco trionfato in Russia, mi privava delle ultime risorse che mi giungevano di tanto in tanto dal mio paese. Mi trovavo di fronte al nulla, in terra straniera e nel mezzo di una guerra. Ma egli non è solo. Con gli amici lo scrittore Charles Ferdinand Ramuz e  il direttore d’orchestra Ernest Ansermet nacque il progetto di creare un piccolo teatro ambulante da portare anche nei piccoli paesi e  che diventerà realtà grazie al sostegno economico del mecenate Werner Reinhart. L’argomento della Histoire riceve nutrimento da una raccolta di fiabe popolari russe di Aleksandr Afanas’ev  che erano state pubblicate all’inizio della seconda metà dell’Ottocento e che a Stravinskij  piacevano molto. Nell’opera  egli  decise di valorizzare la parte narrata rispetto alla musica che impegna perciò pochi strumenti. Il narratore, la mitica Drusilla Foer, al Teatro Olimpico di Vicenza, in un angolo della scena, come nelle prime rappresentazioni, ha modulato con le sue tonalità e timbri di voce, lo stupore, la rabbia, il dolore, l’entusiasmo, la paura, la gioia e la tristezza dei protagonisti.  Il soldato, il diavolo, la principessa, … hanno “ceduto” la parola a Drusilla. A loro sono rimasti i gesti e la danza che comunicano con il corpo il loro sentire per parlare anche alle persone più semplici. La musica, diretta dalla stimata Beatrice Venezi, alternava una marcia, una pastorale, una marcia reale, un tango, un valzer e un rag- time. Il compositore era stato infatti entusiasta, come aveva scritto, di una quantità di musiche di carattere popolare, di origine afroamericana con un metro nuovo, sconosciuto che si sono ascoltate proprio in questa ultima parte dello spettacolo. Il nostro protagonista, il soldato, si farà tentare dalle lusinghe del diavolo, gli insegnerà a suonare anche lo strumento, ma … i tre giorni che aveva pattuito con Belzebù o Mefistofele, o se preferiamo ancora  Lucifero, nella realtà degli uomini si  erano trasformati in tre anni. Troppo tempo, quando egli tornerà a casa lo crederanno un fantasma e gli amici non lo riconosceranno. Così la madre, la fidanzata andata in sposa a un altro. La storia continua … egli diventa ricco, sempre più ricco, solo, sempre più solo, con l’unico rimpianto e desiderio  di tornare il giovane soldato di un tempo. Rinuncerà alle ricchezze, vincerà sul diavolo, sposerà una principessa, ma il desiderio di rivedere una volta la sua famiglia gli sarà fatale. La maledizione del Diavolo che gli vietava per essere salvo di non varcare i confini del suo regno, gli costò la vita nel momento che egli trasgredì il divieto. Ancora una volta il soldato non si era accontentato di sposare una principessa e di avere un regno, una nuova famiglia. Voleva ancora  … voleva anche il passato. La voce di Drusilla che ripete: Non si può avere tutto … Tutto è niente, niente è tutto …  tutto è niente, sigla il messaggio più forte dell’opera che si conclude con l’entusiasmo del pubblico che applaude.                                                                 Patrizia Lazzarin, 8 ottobre 2022

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Assassinio nella cattedrale al Teatro Olimpico di Vicenza

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Lo scenario profondo del Teatro Olimpico di Vicenza con le sue scultoree architetture è divenuto il luogo del sacro in Assassinio nella Cattedrale. La tragedia  consumatasi nel lontano Medioevo e, trasformatasi in  poesia nell’opera di Thomas Stearns Eliot, è stata trasposta in sentimento nello spettacolo di  Moni Ovadia e Marianella Bargilli, in questi giorni a Vicenza. Protagonista esemplare, l’artista di cultura ebraica Ovadia assieme a Bargilli, ma tutto il cast della rappresentazione nelle voci e negli animi che facevano da cassa di risonanza alla violenza del potere,  hanno saputo restituirci le sfaccettature complesse dell’animo umano. Ovadia vestiva le spoglie di Thomas Becket, vescovo di Canterbury, assassinato dai sicari di Enrico II nel 1170. Il luogo scenografico fornisce un prezioso ausilio all’incantesimo del momento storico, grazie alla sensazione prodotta dalle altezze degli eleganti palazzi in prospettiva che ci  convincono  di essere proprio giunti sulla soglia di una cattedrale inglese che, nella sua tipicità di costruzione gotica si innalza solenne  verso il cielo. Dentro la chiesa Becket venne ucciso perché non accettava le interferenze da parte del re nella sfera religiosa del suo ministero. Potere dei sovrani e governo dei vescovi, potere laico e sacro affilano le loro diverse armi negli anni più tormentati del Medioevo. Il concordato di Worms, noto anche come Pactum Calixtinum, stabilì dopo molte contese il riconoscimento dell'autonomia del papato nei confronti del potere imperiale e fu stipulato a Worms in Germania, il 23 settembre 1122, fra il sovrano del Sacro Romano ImperoEnrico V di Franconia e il papa Callisto II. Si poneva così  fine alla lotta per le investiture iniziata trent’anni prima tra Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV. Da allora l’anello e il bastone pastorale, emblemi del potere spirituale sarebbero stati conferiti dal Papa. Poco meno di cinquant’anni separano questo evento di cruciale importanza storica, da quello violento che è stato in messo scena in questi giorni, ma ancora meno tempo, solo cinque anni, dividono la prima rappresentazione del dramma di Eliot, nel 1935 nella sala capitolare della stessa Cattedrale di Canterbury, dalla seconda guerra mondiale causata dalla follia nazista  indifferente alla libertà dei popoli. Le voci del coro provenienti da un pio gruppo di donne, tra cui si riconosceva Marianella Bargilli, condensavano il senso tragico della vita e la percezione dell’imminenza della catastrofe che sembrava in ogni momento togliere la tranquillità del vivere. La violenza in agguato, il timore dell’ignoto e poi la fragilità dell’essere umano che si sente a volte oppresso e non sempre amato da qualcosa che è più grande di lui o, ancora dal vicino prepotente che gli strappa ciò che più gli è caro o serve alla sua sopravvivenza. Siamo nel Medioevo, ma in alcuni luoghi del mondo e in scenari non molto distanti da noi,  il più forte per mezzi spesso schiaccia l’uomo qualunque, il cui  maggiore anelito è vivere. Torniamo sulle scene, fra le voci della gente. Cosa sarà delle loro vite nello scontro fra i baroni, il re e il vescovo quando quest’ultimo tornerà? L’arrivo del cardinale a Canterbury, dopo un lungo viaggio in Francia, è seguito immediatamente da quello di tre uomini che fanno le veci dei Tentatori. Essi  ricordano a Becket i piaceri della vita, il suo ruolo politico quando era cancelliere del monarca e uno  di loro gli propone la ribellione.  Gli chiede “di unirsi a loro, i baroni”, in funzione antimonarchica. L’arcivescovo, ma anche uomo, allontana queste possibilità. Egli è tentato soprattutto dal martirio che lo avvicina all’esempio di Gesù, figlio del Dio Onnipotente. Peccato d’orgoglio … Le pie donne e lui si interrogano su agire e soffrire, sulla relazione fra azione e sofferenza e il binomio si fortifica e non si spezza nel dialogo. Nel sermone di Natale Thomas Becket ribadisce questo concetto e aggiunge che “il martirio fa parte del disegno di Dio e non è espressione della volontà dell’uomo”. Il ritorno dei Tentatori, diventati ora sicari mandati dal re, provoca la difesa da parte dell’arcivescovo del suo operato di fronte a un invisibile monarca ed è un’affermazione, al tempo stesso, dell’indipendenza del potere spirituale.  Si trasforma  in una  ricerca dentro il suo animo  nella consapevolezza dell’imminente epilogo del suo viaggio umano. Dopo la sua tragica fine, le donne esprimono il loro dolore unito al semplice desiderio  di rimanere gente comune e a non diventare delle eroine. Sull’altra riva del fiume dell’esistenza che scorre ininterrottamente, gli uccisori giustificano la loro azione con la superiore Ragion di Stato. La tragedia che ha aperto la stagione del Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, è stata eseguita ieri sera e lo sarà il 2 ottobre alle ore 18 da Romeo e Giulietta  e il 29, 30 settembre e il 1 ottobre, alle 21, da Prometeo con Gabriele Vacis e Pem. Il programma degli spettacoli, la cui direzione artistica è di Giancarlo Marinelli, proseguirà con varie date fino a oltre la metà di ottobre. Un accenno ad essi solo con i titoli: Filottete dimenticato, Milk Wood, Histoire du Soldat, la Voix humaine e poi Assassinio nella Cattedralea Vicenza di cui tutte informazioni sono reperibili nel sito http://www.classiciolimpicovicenza.it/

Patrizia Lazzarin, 26 settembre 2022

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