Dr. Fauci e mr. Trump

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Un’influenza” è stato a lungo il ritornello del presidente degli Stati Uniti Donald Trump), ha messo la lotta al Covid-19 nelle mani espertissime di un luminare della immunologia come Anthony Fauci, 79 anni, italoamericano di Brooklyn, scienziato e funzionario pubblico. E’ lui il Colin Powell, tanto per assecondare la nostra metafora bellica. Suo aiutante di campo, Deborah “Debbie” Birx, distaccata dal dipartimento di Stato dove ha lo status di ambasciatrice, medico militare, sotto le armi dal 1980 al 1994 fino a raggiungere il grado di colonnello, grande esperta, anche sul campo, di virus ed epidemie. Nel 2014 è stato Barack Obama a nominarla alla testa del piano di emergenza per la lotta all’Aids da lui voluto. Ciò poteva renderla sospetta a Donald Trump, ma per lei ha garantito il vicepresidente Mike Pence che l’ha introdotta alla Casa Bianca per coordinare la task force messa in piedi allo scopo di combattere il Covid-19.

Fauci-Birx, il generale e il colonnello, una coppia solida, esperta, affiatata, eppure ha dovuto sudare sette camicie prima di convincere il presidente che la faccenda si stava facendo davvero seria. Tanto da non evitare gli errori iniziali (messaggi pubblici contraddittori, ritardi persistenti nei test e nelle forniture sanitarie necessarie), per colpa dei quali gli Stati Uniti sono precipitati nell’inferno della pandemia e battono giorno dopo giorno ogni record di vittime tra infetti, malati e morti. Ancor oggi il team di scienziati si trova in contrasto con il primo cerchio dei consiglieri politici ed economici che hanno messo in discussione l’accuratezza dei loro modelli, fino al punto da negare l’evidenza, lamentandosi in privato della loro enorme influenza.

Il gioco del potere non si ferma davanti alla morte. E l’entourage trumpiano è perennemente diviso tra i lealisti e gli esperti sui quali viene gettata l’ombra del sospetto. L’ultimo caso riguarda il rimedio miracoloso, l’idrossiclorochina utilizzata, tra le altre cose, contro la malaria. Trump ci crede in base a quelli che egli stesso chiama “aneddoti”. Fauci è contrario: non si fida, non ci sono risultati clinici validi. In realtà, anche qui è in atto un braccio di ferro per ottenere le grazie del sovrano, perché a insufflare il presidente è il cerchio magico formato da fedelissimi come Rudy Giuliani, Larry Ellison e Laura Ingraham, tutte personalità di valore, ma digiuni di immunologia: il primo è un avvocato ed ex magistrato, campione della lotta alla mafia; il secondo, fondatore di Oracle è un guru high tech; la terza non sa nulla di preciso e di tutto un po’, è una conduttrice di Fox News la rete televisiva conservatrice, e proprio lei ha più degli altri l’orecchio di Trump. La settimana scorsa, racconta il Washington Post, ha accompagnato alla Casa Bianca due medici ospiti abituali della sua rubrica in tv, ferventi adoratori della colorochina.

Forse hanno ragione, però Fauci non si piega e non esita a contraddire Trump anche in pubblico, durante i briefing per la stampa. Lo scienziato riprende il presidente il quale trattiene a stento la sua irritazione. Il primo dice che il vaccino è ancora lontano e la situazione non può che peggiorare, il secondo sostiene che ci siamo quasi e a Pasqua sarà tutto finito. Il battibecco tra i due è diventato una situation comedy televisiva, anche se bisogna dire che Trump, impaurito e incerto, è pronto a cambiare rapidamente idea, più presto del solito. “Abbiamo discusso vigorosamente con il presidente di non ritirare queste linee guida dopo 15 giorni, ma di estenderle e ascoltarle”, ha raccontato Fauci alla Galileus Web: “Il dottor Birx e io siamo entrati insieme nell’ufficio ovale, ci siamo chinati sulla scrivania e abbiamo detto: ecco i dati, diamo un’occhiata. Il presidente li ha guardati, ha capito, e ha semplicemente scosso la testa replicando: ‘Credo che abbiamo da fare’”. Il vantaggio è che The Donald, sebbene detesti essere contraddetto (fin da quando era piccolo sostengono i suoi biografi), apprezza l’approccio diretto e chi gli tiene testa lealmente. Una volta ha ricordato l’abilità di Fauci come giocatore di basket, definendo lui e la Birx “grandi geni”, un po’ per celia un po’ per sincerità. La dottoressa colonnello ha un approccio meno frontale, forse perché, sostengono le malelingue, essendo di nomina politica può essere cacciata in ogni momento. In realtà, è proprio la sua formazione militare a spiegare un atteggiamento ispirato a disciplina e obbedienza alla catena di comando, diverso da quello scanzonato e irriverente del proprio mentore.

Il tono è certamente meno terra terra alla corte di sua maestà britannica, ma le tensioni tra politica e scienza non sono minori, anzi sono aggravate dal conflitto interno allo stesso mondo della medicina. All’ombra della “immunità di gregge” che aveva conquistato il primo ministro Boris Johnson desideroso di mostrarsi ancora una volta degno del suo mito Winston Churchill, si svolge lo scontro tra gli scienziati di Oxford e quelli londinesi dell’Imperial College. I primi, guidati dalla professoressa Sunetra Gupta, sostengono, cifre alla mano, che la mortalità del Covid-19 è inferiore rispetto alle stime ufficiali e il visus, il Sars-Cov-2, è meno aggressivo di quel che sembra. Gli altri, guidati da Roy Anderson e sostenuti dal suo protetto Neil Ferguson, hanno rigettato lo studio oxoniense considerandolo “fondamentalmente speculativo”. E mentre gli esperti si schiaffeggiavano a suon di rapporti e contro-rapporti, il governo esitava, gli ospedali si riempivano di malati, la pandemia colpiva a ritmo accelerato, come in Italia, come in Spagna, forse anche di più. C’è chi insinua che dietro lo scontro tra Oxford e l’Imperial College ci siano antiche rivalità: il trait-d’union sarebbe Anderson il quale vent’anni fa, quando era a Oxford, fece pesanti apprezzamenti sull’allora giovane collega Sunetra Gupta, arrivando a sostenere che aveva ottenuto la cattedra perché andava a letto con il capo dipartimento. Ne seguì uno scandalo, Anderson ci rimise il posto e si trasferì a Londra. Non sappiamo se abbia perdonato, certo non ha dimenticato. In ogni caso, alla fine, anche BoJo si è convinto a seguire l’Imperial College, pagando personalmente il prezzo della hybris. La politica al primo posto, ma quando la politica non è in grado di conoscere la realtà, quando in politica prevale l’incompetenza e quando vince la presunzione? Che fare allora, una volta delegittimato chi è in grado di sapere? “Conoscere per deliberare”, il monito platonico di Luigi Einaudi risuona in questi giorni, ovunque, e naturalmente anche in Italia.

Una volta scoppiata la crisi del 2008, la regina Elisabetta con il candore che solo una sovrana può permettersi, chiese ai massimi esponenti della London School of Economics perché mai non avessero capito quel che stava accadendo. Ricevette una risposta compita e contrita, piena di spiegazioni razionali e di una conclusione anch’essa candida, cioè sincera: non abbiamo capito, ci siamo sbagliati. L’episodio torna attuale ora che si scatenano le polemiche sul collasso dei sistemi sanitari e proprio nei loro punti più alti: Milano, Londra, New York. Ci vorrebbe qualcuno altrettanto sincero da porre la stessa domanda e qualcun altro così onesto da rispondere “ci siamo sbagliati”. Invece è tutto un rimpallo di responsabilità: la regione Lombardia, alla quale spetta la gestione della sanità, se la prende con Palazzo Chigi il quale replica elencando giorno dopo giorno le incongruenze e i ritardi di Milano. Intanto, il Veneto gonfia il petto arrogandosi un modello più efficace. Bella forza, replicano i lombardi, da voi si è abbattuto un temporale, su di noi un uragano. E sì che anche il governo giallorosso si è affidato a un quartetto di esperti: Walter Ricciardi, consulente numero uno, proviene dall’Università cattolica e dal policlinico Gemelli, attore per diletto, politicamente vicino a Luca Cordero di Montezemolo ai tempi di Italia Futura; accanto a lui Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità; Angelo Borrelli, un funzionario pubblico, capo della Protezione civile, è il controllore supremo; Domenico Arcuri, sceso in campo per ultimo, fa il commissario straordinario. Insomma, due medici e due amministratori. Nemmeno loro si trovano sempre d’accordo, le dichiarazioni televisive sono talvolta contraddittorie, i messaggi confusi, ma bisogna capire che Fauci-Birx, il generale e il colonnello, hanno dovuto sudare per convincere il presidente che la faccenda si stava facendo seria.

La politica al primo posto, ma quando in politica prevale l’incompetenza oppure quando vince la presunzione, come si fa?

Anche in Italia, ora che appaiono barlumi di speranza e serve una road map per la fase due, sono tornati gli scontri tra politica e scienziati nessuno possiede la ricetta, finché non ci sarà (se ci sarà) il vaccino o finché non verrà trovato un cocktail di farmaci efficace, come per l’Aids.

L’idea di mettersi nelle mani di personalità super partes è senza dubbio corretta. Tuttavia questo continuo ripetere “lo dicono gli scienziati, ci affidiamo alle loro decisioni” può sembrare un modo per diluire le responsabilità ultime che sono di chi decide sullo stato d’eccezione. Ora che appaiono barlumi di speranza ed è arrivato il momento di scegliere se e quando riaprire le gabbie in cui siamo rinchiusi da un mese, politica e scienza tornano a dividersi. Prima è cominciata la cacofonia. Poi il dissenso. Ricciardi è netto: “Sconsiglio l’apertura di fabbriche e scuole”. Conte replica: “Non siamo in Cina, la gente non può stare troppo a lungo in casa”. Gli industriali premono: “L’economia deve ripartire”. I sindacati frenano: “La salute innanzitutto”. Gli unici a tacere, sconfitti dalla falce nera del Covid-19 sono i no vax. Ma non per molto, siamo pronti a scommetterlo.

La gestione del dopo, la riapertura progressiva, è ancora più difficile. Passare dalla strategia della soppressione a quella del contenimento flessibile è rischioso (a Singapore siamo alla terza ondata, a Hong Kong alla seconda, in Cina il virus si sposta da un distretto all’altro) e soprattutto estremamente complesso, richiede controlli a tappeto e la mobilitazione di una struttura sanitaria oggi sotto stress e in pieno collasso nelle regioni più colpite, dalla Lombardia all’Emilia. Affinché riesca occorre una collaborazione stretta tra tutte le istituzioni e la politica, ci vuole soprattutto fiducia negli amministratori e negli esperti. Torniamo così a Clemenceau. Si potrebbe replicare che la pace è troppo seria per lasciarla ai governi, del resto il vecchio radicale francese fu tra i protagonisti del rovinoso trattato di Versailles che nel 1919 emarginò l’Italia vincitrice e aprì la strada a Mussolini, ma soprattutto umiliò la Germania, innescando quel sentimento di rivalsa cavalcato dai nazionalisti e da Hitler. Allora, attenti al primato della politica, che ha le sue ragioni anche se la ragione talvolta non riesce a comprenderle.

Stefano Cingolani  - Il Foglio – 13 aprile 2020

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Gli eserciti della salvezza

Le Idi di marzo nell’anno di disgrazia 2020, saranno ricordate come il giorno in cui il mondo intero si è bloccato, messo sotto sequestro per difendersi dalle forze del male. E’ stato nel fine settimana tra il 14 e il 15 del mese, infatti, che tutti, anche i più riluttanti, hanno sbarrato le porte e alzato i ponti levatoi. Che altro si poteva fare? Siamo in guerra e bisogna mettere sacchetti di sabbia alle finestre. Ma in guerra non basta difendersi, per vincere bisogna contrattaccare, quindi ci vogliono grandi eserciti ben preparati. Il primo fronte è quello sanitario il secondo quello economico perché alla pandemia non segua una carestia. Le Banche centrali hanno cominciato a stampare moneta a più non posso, i governi la distribuiscono e si indebitano. Non ci sono scappatoie, lo ha scritto Mario Draghi sul Financial Times: “Fronteggiamo una guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza… Livelli di debito pubblico molto più alti diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato… l’alternativa sarebbe una distruzione permanente della capacità produttiva e della base fiscale”. L’ex presidente della Bce chiede “forza e rapidità” di intervento da parte dei governi e delle banche che debbono concedere crediti anche senza interessi garantiti dallo stato, quanto all’Europa deve sostenere una causa comune. Soprattutto invita a “cambiare mentalità”, l’armamentario ideologico e dottrinario del passato oggi non serve. L’articolo colloca Draghi in testa all’esercito della salvezza che si affanna a scongiurare la peggiore sconfitta del mondo civilizzato; è un altro “whatever it takes” destinato ad avere un effetto politico anche in Italia. La Ue ha sospeso il patto di stabilità, ma a questo punto bisogna chiedersi se serve così com’è. Il Meccanismo europeo di stabilità è davvero efficace e a quali condizioni? Occorre creare nuovi strumenti per indebitarsi ancora e indebitarsi meglio. Salvati dai debiti, sembra un paradosso, ma tutte le guerre sono state finanziate così. I governi non si sono mossi per primi. A far da avanguardie, ancora una volta, le Banche centrali, in Cina, in Giappone. L’Occidente ha perso tempo, poi si è svegliata la Federal Reserve seguita dalla Banca d’Inghilterra e dalla Banca centrale europea. Il costo del denaro è stato portato vicino allo zero, la Federal Reserve ha deciso di acquistare titoli pubblici e privati senza alcun limite, più timida la Bce ha messo sul tappeto mille miliardi di euro, poi si è corretta seguendo l’esempio americano. I banchieri centrali hanno abbastanza munizioni? Philipp Hildebrand, vicepresidente di BlackRock il più grande fondo di investimento al mondo, ed ex presidente della Swiss National Bank chiede “un approccio coordinato in cui i governi forniscono i fondi necessari a famiglie e imprese, mentre le Banche centrali saranno chiamate ad assicurare che i tassi di interesse non crescano in modo incontrollato. Parte di questo compito riguarda l’acquisto di titoli su larga scala direttamente dal mercato”. Christine Lagarde ha sbagliato nel dire “non siamo qui per combattere lo spread”, non solo per la sua ruvidezza e perché ha fatto uno sgarbo all’Italia, ma anche perché la presidente della Bce non ha colto la sostanza del problema: un aumento dei rendimenti e dei tassi di mercato, crea una stretta creditizia mai vista perché le imprese e le famiglie non sono in grado di restituire i prestiti né di ripagare immediatamente le imposte sospese. “Il mestiere di banchiere centrale deve essere reinventato in modo radicale”, insiste Hildebrand, “è tempo di coordinarsi con i governi di fronte a una espansione senza precedenti del debito pubblico”. Questo significa garantire direttamente i buoni del Tesoro. La Fed lo ha già annunciato e si sta muovendo, sulla scia della Banca centrale giapponese, verso un controllo della curva dei rendimenti. Secondo molti analisti “in sostanza sta nazionalizzando i mercati”. E la Bce che cosa farà? E’ la fine del divorzio come è stato chiamato in Italia? Il ritorno alla normalità richiede che i debiti vadano ridotti e i titoli rimessi sul mercato, ma la ritirata potrà avvenire una volta vinta la battaglia. La moneta serve per non far restare a secco le famiglie che perdono i loro redditi e le imprese che perdono le loro entrate. E’ lo choc da domanda, ma attenzione, siamo in presenza di un secondo choc che è la vera causa del primo: si è spezzata la catena della produzione, quella internazionale ormai essenziale, e di conseguenza quelle nazionali. Dunque, la crisi viene anche dal lato dell’offerta e contro questa bisogna far scendere in campo truppe diverse con armi diverse. Le Borse non hanno creduto alle Banche centrali, aspettando che scendesse in campo l’artiglieria e tuonassero i cannoni dei governi. Ancora una volta i mercati finanziari anticipano i movimenti profondi non perché manovrate da pochi lupi di Wall Street o dagli gnomi di Zurigo, ma perché mosse dalle aspettative, dagli interessi, dai desideri e dalle paure di milioni e milioni di persone, dal tolstoiano “movimento dei popoli” sia pur dentro la cornice del capitalismo. Gli americani hanno fatto partire gli elicotteri per gettare moneta non bombe al napalm come in “Apocalypse now”, rispolverando un’idea enunciata da Milton Friedman nel 1969 e rilanciata nel 2002 da Ben Bernanke anche lui convinto che la politica monetaria abbia una chance quando le politiche convenzionali falliscono. In realtà ha anticipato tutti Hong Kong fin da febbraio: diecimila dollari equivalenti a 1,270 dollari americani, a chiunque sia affetto da virus. Donald Trump per non restare indietro ha proposto di dare a ciascun americano almeno 1.200 dollari più 500 ogni figlio, in contanti, da spendere come si vuole. La misura è entrata in un mega pacchetto di spesa pubblica, il più massiccio mai fatto: ben duemila miliardi di dollari. Il Congresso, dopo qualche giorno di manfrina tenendo d’occhio le elezioni presidenziali, ha dato via libera. Il comandante in capo, recalcitrante, inebriato da tweet contraddittori e grotteschi, alla fine si è arreso alla evidenza. Il dubbio è se basterà. L’Economist dice di no, in fondo rappresenta solo il 10 per cento del prodotto lordo americano e secondo molti analisti ce ne vorrà il doppio se la crisi non si ferma. La scorsa settimana ben tre milioni e trecentomila lavoratori hanno chiesto l’indennità di disoccupazione, mai così tanti dal 1967.

Gli eserciti europei della salvezza hanno il loro avamposto a Bruxelles. Dovrebbe essere lì il quartier generale. Ursula von der Leyen ha dato buona prova: tenuta, stile, capacità diplomatica e senso della realtà, è la presidente della commissione europea ad aver anticipato la sospensione del patto di stabilità. Ma a decidere sono sempre i governi nazionali e la Ue è divisa sulle scelte di fondo: mutualizzare i debiti, emettere titoli speciali, i cosiddetti corona bonds (come chiedono Italia, Francia, Spagna e altri sei paesi), aprire il portafoglio del Mes, il meccanismo europeo di stabilità, che mette a disposizione mezzo miliardo di euro, ma alle sue condizioni: troppo rigide secondo l’Italia, troppo lasche secondo l’Olanda spalleggiata da Austria e Finlandia. Angela Merkel media tra nord e sud, tra est ed ovest, ma a lei tocca scegliere. La chiave di tutto, come dice Draghi, è il debito: la Germania sosterrà quello italiano e degli altri paesi in sofferenza? Intanto il governo tedesco si è mosso e come. Berlino ha deciso di investire 350 miliardi di euro, pari al 10 per cento del prodotto lordo (la stessa quota americana) per le misure d’emergenza e rifinanziare con 100 miliardi la Banca di stato, KfW; più un fondo per salvare le imprese pari a 650 miliardi, in grado anche di intervenire nella proprietà, ma il ministro delle finanze Olaf Scholz si dice pronto a estendere le garanzie dello stato per mettere al sicuro la metà del pil, circa 1.500 miliardi di euro.

L’Italia finora non ha speso molto, anche se quando è scoppiata la pandemia si trovava già in recessione. I vincoli europei sono troppo stretti, si dice, ma anche ora che il patto di stabilità è stato sospeso siamo bloccati da un debito pari a duemila e rotti miliardi di euro, il 135 per cento del prodotto lordo. Si stima che i paesi esposti pesantemente al virus tra spesa pubblica diretta e prestiti garantiti dovranno mettere in conto il 20 per cento del loro prodotto lordo in pochi mesi, il che vuol dire 340 miliardi e rotti nel caso italiano. Il debito sta già salendo verso il 150 per cento, dove potrà arrivare e chi comprerà i nuovi buoni del tesoro, sotto qualsiasi forma e in quantità necessaria? La Bce ha messo in campo mille miliardi di euro, poi ha allargato i cordoni non ponendo più limiti. La quota dell’Italia nel capitale è pari al 17 per cento complessivo, i nuovi buoni del Tesoro per quest’anno superano i 300 miliardi, ma cresceranno ancora. Quanta parte delle nuove emissioni sarà assorbita dalla banca centrale? L’Italia, sostenuta da Francia e Spagna, chiede di introdurre titoli europei, i cosiddetti corona bonds, e potrebbe ricorrere alla linea precauzionale prevista dal fondo salva stati: pro quota si tratta di 70 miliardi di euro. Lo scontro è sulle condizioni: spingeranno l’economia verso un’altra lunga recessione quando l’emergenza sarà finita? L’Italia è solvibile, lo ha detto la Banca d’Italia che se ne intende, lo ripetono tutti a cominciare dalle società che danno i voti ai debiti pubblici e privati. Ma non sappiamo fino a quando.

L’intervento dello stato è fondamentale in caso di calamità. Ciò vuol dire che il Leviatano risorge dalle acque profonde? Calma ragazzi, perché la doppia crisi, sanitaria ed economica, mette sotto pressione l’intero sistema pubblico, proprio quello che dovrebbe salvarci. Prendiamo la Sanità, in sofferenza proprio nei suoi punti più alti. Colpa dei tagli? Secondo Francesco Longo, osservatorio della spesa sanitaria dell’università Bocconi, l’Italia spende 115 miliardi l’anno, 1.850 euro per abitante. L’Inghilterra con un sistema sanitario simile al nostro spende 2.500 euro pro capite, la Francia 2.800, la Germania 3.200. Spendiamo meno e nei ranking mondiale di efficacia in rapporto ai costi siamo tra i migliori. Non manca la qualità, ma semmai la quantità. Intendiamoci, lo choc è stato improvviso e inatteso: i ricoveri medi mensili in terapia intensiva in Lombardia sono stati circa 680 tra il 2013 e il 2017, mentre solo per Covid- 19, sono ricoverati due volte tanto. Tuttavia il numero di posti letto ospedalieri ogni mille abitanti in Italia è più basso rispetto a Francia e Germania, vicino al Regno Unito e alla Spagna, molto lontano dal Giappone e dalla Corea del sud. Quattro ricercatori – Marta Angelici, Paolo Berta, Francesco Moscone e Gilberto Turati – hanno calcolato che tra il 2010 e il 2018 la riduzione media complessiva delle dotazioni di posti letto dei dipartimenti medici è stata di poco inferiore rispetto a quella registrata nei dipartimenti chirurgici: 11,4 per cento contro 12,8 per cento. Sono aumentati, però, i posti letto in terapia intensiva. Forse anche per questo il sistema ospedaliero per il momento continua a garantire cure a tutti.

C’è un’altra questione sollevata da Laurie Garrett, che da decenni scrive sulla nostra eterna vulnerabilità ai microbi: nel suo ultimo libro Betrayal of Trust: Collapse of Global Public Health, spiega che in un’èra in cui la minaccia percepita viene dalle malattie non trasmissibili (cancro, ipertensione arteriosa, diabete) ci si è concentrati su queste, trascurando la minaccia collettiva proveniente dalle epidemie che mettono in primo piano la necessità di antibiotici e vaccini. Anche gli ospedali, come le imprese manifatturiere hanno ragionato con il come le imprese manifatturiere, svuotando i magazzini, riducendo al minimo indispensabile le scorte, scommettendo sulla efficienza della catena produttiva globale. Adesso lo stato deve far fronte, ma nessuno stato è in grado di assicurare la protezione totale contro la pandemia. Raghuram Rajan, influente economista che dopo il Fondo monetario internazionale è diventato governatore della Banca centrale indiana sottolinea la necessità di coinvolgere il settore privato per aumentare la capacità della filiera sanitaria, la domanda c’è non devono mancare i finanziamenti.

Qui entrano in gioco le imprese ed è la loro sorte a rendere incerte le Borse che pure sono sobbalzate di fronte alla potenza di fuoco americana. I mercati finanziari non sono terrorizzati dal fallimento degli stati, ma dalla catena di fallimenti privati. Le fabbriche si stanno riconvertendo a una economia di guerra: quelle tessili fanno mascherine, quelle meccaniche ventilatori, la Michelin distribuisce cibo, le aziende farmaceutiche non ce la fanno a tener testa agli ordini, i laboratori di Big Pharma come delle start up lottano per trovare un vaccino; il mondo digitale è sotto pressione perché è attraverso di esso che tutti noi possiamo tenerci in contatto con il mondo reale. E’ fondamentale che dove si può il lavoro prosegua senza interruzione, ma è essenziale che venga fornita la liquidità necessaria e le banche facciano credito a costo zero, come propone Draghi. Finora, a parte poche eccezioni, il sistema bancario è rimasto alla finestra. Il bollettino di guerra ci dice che i generali hanno tentennato, gli eserciti si sono mossi in ritardo anche se stanno combattendo con tutte le loro forze, le armi attuali non sono sufficienti. Non bastano quelle monetarie, non bastano quelle economiche, non bastano quelle sanitarie. Ogni conflitto fa compiere un salto al complesso militar-industriale, alla ricerca, alla scienza e alla tecnica, ma sono tecnologie che portano la morte. Anche questa guerra può far compiere un balzo, ma saranno tecnologie che portano la vita. just in time

Stefano Cingolani - Il Foglio - 28 marzo 2020

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Marshall, chi era costui?

Un piano Marshall contro la pandemia. E’ il mantra che in Italia corre di bocca in bocca. Un piano Marshall per l’Italia o per l’intera Europa? Erogato da chi? Dall’Unione europea è la risposta; alcuni dicono dalla Banca centrale, ma nell’un caso o nell’altro paghiamo anche noi pro quota. Il vero piano Marshall fu tutt’altro: sostanzialmente un dono da parte del paese vincitore ai paesi distrutti dalla guerra, una iniezione di denaro dall’esterno, per l’84 per cento a titolo gratuito. L’Erp, cioè lo European recovery plan, varato nel 1948, erogò circa 12,730 miliardi di dollari in tre anni, che al cambio attuale si avvicinerebbe a 128 miliardi (ma ancor oggi gli storici non sono in grado di stabilire l’ammontare esatto). La Gran Bretagna ha ottenuto la fetta maggiore (circa 3,3 miliardi pari al 26 per cento del totale) poi la Francia (2,3 miliardi di dollari) seguiti da Germania occidentale (1,5 miliardi) e Italia (1,2 miliardi). A proposito dell’auspicato piano europeo si sono sentiti i numeri più diversi: dai tremila miliardi evocati da Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, ai 100 miliardi dei quali ha parlato il Pd. Carlo Cottarelli – che certo di queste cose se ne intende visto che erogava prestiti per conto del Fondo monetario internazionale – ha proposto 36 miliardi per l’Italia erogati da Bruxelles con l’emissione di speciali titoli. Un indebitamento insomma, anche se su un mercato a bassi interessi e lunghi tempi di restituzione. Il governo italiano è arrivato a 25 miliardi di euro dopo essere salito da 3,6 a 7,5 miliardi, e forse non saranno sufficienti, anche perché non si tratta solo di iniettare moneta per oliare il sistema, ma di proteggere lavoro, redditi, produzione. E di che cosa avranno bisogno la Francia, la Spagna e la Germania se è vero come sostiene Angela Merkel che fino al 70 per cento dei tedeschi potranno essere infettati dal Covid-19? E’ davvero difficile oggi come oggi fare i conti. La Bce ha riaperto il cassetto del quantitative easing, comprando titoli in cambio di denaro liquido, la via maestra visto che il costo del denaro è addirittura negativo. Sono 120 miliardi di euro, per il momento; troppo poco secondo le Borse che precipitano. La Federal Reserve ha ancora spazio per ridurre i tassi dopo il taglio “preventivo” dello 0,5 per cento, seguita dalla Banca d’Inghilterra. La Banca del Giappone continua stampare valuta, come fa anche quella cinese. La politica monetaria aiuta, ma non è da qui che verrà il sollievo. Sei economisti europei di primo piano (Agnès Bénassy-Quéré, Ramon Marimon, Jean Pisani-Ferry, Lucrezia Reichlin, Dirk Schoenmaker, Beatrice Weder di Mauro) hanno proposto un intervento anti-catastrofe diverso anche dalle misure prese per combattere la crisi del 2008-2010. L’effetto economico della pandemia combina un doppio choc, da offerta e da domanda, e si articola in quattro fasi: la prima cominciata in Cina ha spezzato la catena industriale; la seconda riguarda le ricadute settoriali; la terza è una crisi generale come nel caso dell’Italia; la quarta sarebbe la ripresa che può cominciare da maggio e giugno. Ogni fase ha bisogno di una risposta adeguata: sostegno al lavoro e cassa integrazione nella prima, liquidità abbondante nella seconda, nella terza misure di emergenza che vanno dal potenziamento della sanità alla sicurezza. Se la chiusura dell’Italia durerà un mese, è prevedibile che verrà perduta circa la metà dell’attività produttiva e il sostegno necessario potrebbe arrivare all’1,5 per cento del prodotto lordo (grosso modo i 25 miliardi annunciati dal governo). 

La fase 4 sarà, se possibile, ancor più complicata: affinché si avvii una vera ripresa, c’è bisogno di politiche fiscali consistenti con il sostegno parallelo della Banca centrale per evitare un blocco del credito a causa dell’aumento dei prestiti deteriorati. I sei economisti propongono che la Ue decida di detrarre tutte le spese aggiuntive dal patto di stabilità e di ricorrere a interventi straordinari coordinati a livello nazionale ed europeo, attingendo a ogni fondo già esistente. E’ questo il piano A; se non viene accolto non resta che il piano B, cioè l’intervento del meccanismo di salvataggio europeo per i paesi con l’acqua alla gola. Il primo dei quali sarebbe l’Italia. Tutto ciò non assomiglia granché al piano Marshall. Vediamo perché. Gli Stati Uniti avevano erogato già aiuti, soprattutto alimentari e umanitari, con le misure varate da Henry Morgenthau, segretario al Tesoro di Franklin D. Roosevelt, che si aggiungevano ai sostegni dell’UnRra (United nations Relief and rehabilitation administration, istituita il 9 novembre del 1943 per assistere economicamente e civilmente i paesi usciti gravemente danneggiati dalla Seconda guerra mondiale (entrata a far parte dell’Onu nel 1945, è stata sciolta il 3 dicembre 1947). Ma la ripresa stentava. L’Inghilterra era a terra, la Germania a pezzi. L’Italia non se la cavava meglio: anche se l’apparato industriale era meno distrutto (i danni peggiori li avevano subiti la metalmeccanica e i trasporti), un cittadino su quattro si trovava senza lavoro, il reddito medio era caduto indietro di mezzo secolo in termini reali, mancavano i generi di prima necessità e le materie prime. “Grano e carbone” chiedeva il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. La svolta arrivò in gennaio quando il presidente americano Harry Truman nominò Segretario di Stato il generale George Marshall (capo di stato maggiore dell’esercito americano dal 1939 per tutta la guerra, il braccio militare di Roosevelt) il quale cominciò una trattativa con il suo pari sovietico Vyacheslav Molotov soprattutto sul destino della Germania. Stalin aveva scelto una linea punitiva e non intendeva sostenere la re-industrializzazione tedesca, atteggiamento simile a quello dagli inglesi subito dopo la vittoria, condiviso anche negli Usa, per esempio dallo stesso Morgenthau. Secondo Marshall, sostenuto da Truman, ripetere l’errore commesso dopo la Prima guerra mondiale sarebbe stato fatale. 

La cortina di ferro, come la chiamò Winston Churchill, non era ancora calata del tutto sull’Europa, ma Usa e Urss già incrociavano i ferri, mentre l’ambasciatore George Kennan elaborava la dottrina americana del contenimento. Il 5 marzo 1947, Marshall parlò all’Università di Harvard. “Gli Stati Uniti – esordì – dovrebbero fare tutto quello che sono in grado di fare per aiutare il ritorno della naturale salute economica nel mondo, senza la quale non ci può essere né stabilità né pace. La nostra politica non è rivolta contro nessun paese, ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos”. E’ il “whatever it takes” al quale si è ispirato nel 2012 Mario Draghi. Chi oggi è capace di ripeterlo? 

Quella di Marshall era ancora una proposta, aperta all’Urss che inglesi e francesi volevano tenere agganciata. Stalin e Molotov la respinsero imponendo agli stati dell’Europa orientale sotto il loro controllo (soprattutto Polonia e Cecoslovacchia), di fare altrettanto. Non furono facili nemmeno i negoziati tra i paesi destinatari degli aiuti. La Gran Bretagna insisteva che le fosse riconosciuto uno status particolare. Si formò un Comitato europeo per la cooperazione economica, primissimo nucleo delle successive istituzioni comunitarie, che chiese 22 miliardi di dollari. Truman li tagliò a 17 convinto che il Congresso, controllato dai repubblicani, avrebbe puntato i piedi. Ottenuto il via libera non senza fatica, il presidente firmò il 3 aprile 1948 l’Economic cooperation act che affidò a una speciale amministrazione (nota con l’acronimo Eca) la gestione del piano. Alla sua guida un manager, Paul Hoffman, dirigente della casa automobilistica Studebaker, il quale spiegò che l’obiettivo era non solo sostenere la ricostruzione, ma favorire “una integrazione economica con la formazione di un ampio mercato unico all’interno del quale sarebbero state spazzate via per sempre restrizioni quantitative ai movimenti di beni, barriere monetarie ai flussi di pagamenti e alla fine tutte le tariffe”. Insomma, si trattava di “creare un’area permanente di libero scambio comprendente 270 milioni di consumatori dell’Europa occidentale”. 

Era il 1949, e si pose subito anche la questione delle monete, con la sterlina che aveva un ruolo predominante (il 36 per cento degli scambi mondiali era in valuta britannica) e il Fondo monetario internazionale, creato nel 1944 alla conferenza di Bretton Woods, che ancora non aveva attivato tutte le sue funzioni. Il numero due dell’Eca, Richard Bissel, propose una Intra-European Clearing Union, un pool di valute dotato di mezzo miliardo di dollari in base al quale ogni paese concedeva agli altri una linea di credito pari al 10 per cento del proprio scambio commerciale. I saldi negativi dovevano essere regolati con una sola operazione nei confronti dell’Unione considerata come un tutto. “L’unicità del sistema suggeriva l’adozione di un’unità di conto europea”, ha scritto Guido Carli, che nel 1950 divenne presidente della Uep. Nel duro, talvolta feroce scontro odierno sull’euro e le sorti della Ue, non fa male ricordare come e quando tutto è cominciato. Fin dal 1946 Roma aveva bussato alle porte di Washington ottenendo aiuti con il contagocce. Si era distinta la Fiat che, grazie all’abilità e alle amicizie di Vittorio Valletta, aveva ottenuto 10 milioni di dollari dalla Bank of America, primo credito post-bellico all’industria tricolore. Nel 1947 il plenipotenziario degli Agnelli viene scelto da Alcide De Gasperi come una sorta di ambasciatore economico dell’Italia. Il capo del governo italiano si era recato a Washington nel gennaio di quell’anno, ma era stato accolto freddamente portando a casa una promessa: un prestito all’Italia di 100 milioni di dollari da parte della Export-Import-Bank. Davvero poca cosa. A quel punto entra in scena Valletta, ricorda Piero Bairati nella biografia del Professore, come veniva chiamato il gran capo della Fiat. Il 7 marzo fa tappa a Londra dove incontra il banchiere Charles Hambros, governatore della Banca d’Inghilterra. Atterrato a Washington si reca subito al Dipartimento di stato, si sposta a New York e a Wall Street, vede i vertici della Chase Manhattan Bank (che faceva capo ai Rockefeller) e delle principali banche d’affari, oltre a Henry Ford II. Poi via a San Francisco per un meeting con Amedeo Giannini, il fondatore della Bank of America, “in segno di riconoscenza”. 

Valletta precostituisce le condizioni affinché la Fiat diventi tra i principali beneficiati dei finanziamenti americani, quelli del piano Marshall e altri aggiuntivi, ma fa molto di più: riesce a mobilitare l’attenzione degli americani sul caso italiano – lo racconta Ugo Stille, fresco corrispondente del Corriere della Sera a Washington, e come ha confermato poi l’ambasciatore Egidio Ortona che aveva sollecitato i viaggi di Valletta. Quel ruolo lo ha poi svolto Gianni Agnelli, oggi non c’è più nessuno. Tornato a Roma, il Professore riferisce i risultati del suo viaggio direttamente a De Gasperi il quale il 30 aprile 1947 dichiara al Consiglio dei ministri: “L’America vuole trovare in noi la stabilità democratica. Il direttore della Fiat, l’ingegner Valletta, ora ritornato dagli Stati Uniti, mi ha confermato questa impressione. Ecco perché ritengo utile e necessario imbarcare qualche elemento tecnico-finanziario delle destre”. E’ l’inizio della svolta che porterà alla rottura con il Partito comunista e il Partito socialista. 

La maggior parte degli aiuti (compresi quelli alla Fiat) arriva dopo le elezioni del 18 aprile 1948, che segnano la vittoria della Democrazia cristiana. Valletta entra in rotta di collisione con la politica di stabilizzazione decisa da Luigi Einaudi, ministro del Bilancio nel nuovo governo De Gasperi. La sua posizione contraria alla stretta monetaria e all’austerità einaudiana coincide con le valutazioni critiche da parte degli americani, ispirati sostanzialmente da una impostazione keynesiana. La missione dell’Eca a Roma nel 1949 e il Country study sull’Italia del 1950 esprimono pubblicamente il loro dissenso chiedendo di privilegiare il rilancio dello sviluppo rispetto alla lotta all’inflazione.  A proposito dell’auspicato piano europeo si sono sentiti i numeri più diversi. Il governo italiano è arrivato intanto a 25 miliardi contro “le interferenze estere”. Poi scoppia la guerra di Corea e un anno dopo il piano Marshall si esaurisce. In Italia è servito a comprare grano, carbone, acciaio, macchinari, petrolio. Oggi gli storici, anche quelli non liberali né liberisti, danno ragione a Einaudi: “La svolta monetaria del 1947 costituì il fondamento dello sviluppo senza precedenti sperimentato dall’Italia dal 1950 al 1973”, ha scritto Pierluigi Ciocca in “Ricchi per sempre?”. Concorsero però due scelte strategiche: la liberalizzazione degli scambi con l’estero e l’aumento della produttività che è la chiave della crescita, anzi della ricchezza delle nazioni. 

Se vogliamo ricordare l’impatto economico dell’Erp, al di là del mito, non possiamo non notare che ha rappresentato appena il 3 per cento del prodotto lordo dei 18 paesi interessati e ha contribuito alla loro crescita nei tre anni per meno di mezzo punto percentuale. Gli Stati Uniti hanno continuato a finanziare l’Europa occidentale per almeno altri dieci anni, ma secondo molti storici ed economisti, più degli aiuti hanno contributo in modo determinante al miracolo economico post bellico l’apertura degli scambi commerciali e monetari. Non sono solo schegge della storia, perché tutto ciò parla molto al presente. I doni di zio Sam sono stati fondamentali per girare la chiavetta, ma il motore ha funzionato con la miscela del lavoro e del commercio internazionale. 

Questa lezione vale anche per qualsiasi progetto straordinario di rilancio dopo la pandemia: chiudere i confini economici e fisici aggiunge catastrofe alla catastrofe. Oggi le fabbriche ci sono e continuano a funzionare. I salari vengono garantiti anche se subiranno dei tagli. I posti di lavoro non saranno cancellati grazie alla cassa integrazione. Abbiamo le macchine e abbiamo i maccheroni, per citare una battuta alla quale era affezionato Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia (e lui sosteneva di preferire sempre i maccheroni). Da qui deve partire un piano che con quello di Marshall ha da spartire solo il suo potere evocativo, un progetto basato sulle condizioni del presente, non sulla nostalgia del passato.

Stefano Cingolani - Il Foglio - 14 marzo 2020

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