Sindrome siriana in Libia

Se non credessimo che la storia pregressa condizioni il presente, potremmo dire «finalmente, meglio tardi che mai» di fronte all’incontro di pochi giorni fa tra Conte, Merkel e Macron sulla situazione libica. La Libia pone un problema urgente e grave di sicurezza per l’Europa. Parrebbero buone notizie sia la fine delle rivalità che fino a ieri hanno diviso Italia e Francia sia la decisione di Italia, Francia e Germania (a cui presto dovrebbe aggiungersi la Gran Bretagna) di coordinare gli sforzi per favorire una soluzione negoziata che pacifichi e mantenga unito il Paese africano. Ma le apparenze ingannano, la storia passata pesa e spazio per l’ottimismo ce n’è poco. Né per ciò che riguarda il futuro della Libia né per ciò che riguarda (anche al di là del caso libico) la capacità dei governi europei di coordinarsi efficacemente per fronteggiare le crescenti minacce alla sicurezza del vecchio continente.

L’incontro fra le principali (im)potenze europee è il segno della loro debolezza. Russi e turchi ci stanno «scippando» la Libia: non solo a noi europei ma anche agli americani, primi responsabili, a causa della loro latitanza strategica, di quanto è già avvenuto in Siria e di quanto si sta replicando in Libia. Ciascuno è schierato dietro il proprio cliente locale (il signore della guerra, generale Haftar, è sostenuto dai russi, e il capo di governo di Tripoli, al-Sarraj è appoggiato dai turchi).

Ammesso che sia improbabile, come sostengono gli esperti, che Haftar conquisti Tripoli e il resto del Paese con le armi, restano solo due possibilità: o la guerra civile continuerà ancora a lungo, magari per anni, oppure russi e turchi troveranno un accordo anche sulla Libia (come già sulla Siria) favorendo una soluzione negoziata che metta termine alla guerra civile e che possa soddisfare gli interessi degli uni e degli altri (magari anche con qualche vantaggio per altri Paesi coinvolti, dall’Egitto al Qatar). Nell’uno come nell’altro caso saranno guai per l’Europa. Nella prima eventualità la Libia resterà una porta spalancata a disposizione di trafficanti di esseri umani e di terroristi decisi a colpire i Paesi europei. In caso di soluzione negoziata fra turchi e russi, il controllo su cruciali risorse energetiche nonché il potere di usare i rischi di destabilizzazione dei Paesi europei per ricattarli saranno nelle mani di potenze ostili all’Europa. Non è tale solo la Russia. Lo è anche la Turchia nonostante l’ipocrita tentativo occidentale di fingere che sia ancora un Paese membro della Nato uguale a tutti gli altri.

Proprio perché la storia passata pesa, quando si parla di Europa l’attenzione si concentra sempre sui problemi della governance economicofinanziaria e sulle questioni commerciali. Cose importantissime, certamente, sulle quali, peraltro, le divisioni sono oggi in Europa assai forti. Gioca però anche un riflesso antico. C’è stato un tempo in cui l’Europa poteva essere solo «Europa economica» (gli aspetti politici e di sicurezza erano delegati agli Stati Uniti). Il mondo è radicalmente cambiato ma a giudicare da certi summit europei sembra che leader e opinioni pubbliche non se ne siano accorti. Le questioni della sicurezza dovrebbero essere ora il principale assillo dell’Europa, il primo punto all’ordine del giorno in tutti gli incontri nelle sedi europee. Ma gli europei non sono riusciti a trovare una posizione comune nemmeno sulla questione dei foreign fighters (i combattenti islamici di ritorno, molti dei quali pronti a fare scorrere il sangue in Europa). Anche la vicenda Brexit non dovrebbe essere considerata solo per le sue conseguenze economico-finanziarie e commerciali. Il fatto che la prima potenza militare europea (insieme alla Francia) se ne vada dall’Unione certo non le impedirà di collaborare con gli altri europei in materia di sicurezza. Però rende evidente la futilità, non dico di allestire, ma ormai anche solo di ipotizzare, piani per una futura difesa europea. Piani che erano comunque deboli già prima di Brexit: le opinioni pubbliche erano e sono indisponibili a pagare il tanto che dovrebbero pagare per tutelarsi contro le minacce. Brexit ha solo chiuso il discorso.

Che fare allora? Gli europei, grazie alla lunga pace di cui godono dal 1945, sembrano pensare che questa sia una condizione naturale, non revocabile, della vita sociale e politica. Immemori della storia pensano che pace e sicurezza — da cui dipendono la libertà, la democrazia, il benessere economico — siano beni acquisiti per sempre. Questa mancanza di realismo contribuisce a spiegare perché gli europei non possano fare a meno dell’alleanza atlantica. Se saranno gli americani a sancirne definitivamente l’irrilevanza, gli europei si troveranno nudi, inermi.

Nel frattempo, i vecchi tic politici sono duri a morire. Il presidente francese Macron dichiara la «morte celebrale» della Nato non solo per scuotere dal torpore americani ed europei ma anche per richiamare implicitamente, a beneficio dell’opinione pubblica francese, l’antica polemica gollista contro l’alleanza atlantica. Dimenticando che in età bipolare, dominata dalle due superpotenze, il generale de Gaulle poté permettersi il lusso di recitare la parte dell’eretico all’interno del sistema occidentale solo perché quel sistema era forte e vitale, non in coma come oggi. Il neo-gollismo non ha più senso.

Chi non ha la forza né la volontà di decidere il proprio destino diventa preda degli appetiti altrui. Già oggi si può constatare, e verosimilmente sarà ancora di più così in futuro, quanto siano disponibili vari Paesi europei a impegnarsi, separatamente, in giri di valzer con i russi o con i cinesi. Facendo finta di non sapere che i prezzi che si pagano nello stabilire rapporti privilegiati con potenze autoritarie diventano, nel lungo periodo, assai alti.

Russi e turchi si prendono la Libia, minacce terroriste incombono, predatori affamati circondano la debole Europa. Gli europei più consapevoli dei pericoli si chiedono se i cittadini americani, nelle prossime elezioni presidenziali, premieranno chi pensa che il legame con l’Europa sia nell’interesse degli Stati uniti oppure chi ritiene che sia tempo di abbandonare il vecchio continente al suo destino. In ogni caso, plausibilmente, le decisioni che più contano non le prenderanno gli europei.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 16 dicembre 2019

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Scontro sulla Nato di domani

  • Pubblicato in Esteri

(Grazie all'attegiamento del presidente Usa, il vertice Nato è in confusione, ndr) e questa non è una situazione sopportabile a lungo. Molti sperano che l’anno prossimo Trump non sia rieletto e che il nuovo Presidente americano eserciti una leadership più stabile e sicura. Nulla è meno certo. Non solo Trump ha oggi molte possibilità di essere rieletto, ma non è affatto detto che un nuovo Presidente democratico sarebbe più conseguente e più attento alle preoccupazioni europee. Il commento di Stefano Silvestri su Huffington Post.

Nato in crisi, Erdogan vuole dettare le regole

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I veleni che minano la Nato

Se Emmanuel Macron sperava di evidenziare le carenze della Nato proclamandone la «morte cerebrale», la festa di compleanno dell’alleanza che si apre oggi a Londra gli procurerà un amaro risveglio. Spaventati dall’eccesso dialettico del capo dell’Eliseo, tutti gli alleati, a cominciare dalla Germania, si sentiranno tenuti a celebrare in riva al Tamigi l’ottimo stato di salute del settantenne Patto Atlantico, con il risultato di spingere ancora una volta sotto il tappeto proprio quelle manchevolezze che Macron voleva sottolineare. Persino Donald Trump, che continua ad avercela con gli europei perché «fanno pagare agli Usa il prezzo della loro sicurezza», avrebbe deciso di abbassare i toni e di non ripetere la traumatica esibizione del luglio 2018. Trombe e bandiere al vento, allora? Se così sarà, Macron avrà di che mordersi le labbra per il boomerang diplomatico innescato dalla sua fuga in avanti. Perché in realtà la Nato, settant’anni dopo quell’aprile del 1949 ancora segnato dalla Seconda guerra mondiale, oggi attraversa davvero la sua prima crisi d’identità immersa com’è in un disordine globale che non risparmia i rapporti transatlantici e minaccia il concetto stesso di Occidente. I dissensi tra l’America e la grande maggioranza degli Stati europei si sono moltiplicati negli ultimi tre anni, dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca: difesa dell’ambiente, dazi e regole commerciali, disarmo nucleare, Medio Oriente e Iran, sbocchi della Brexit, multilateralismo sono soltanto gli esempi più rilevanti.

A Washington la presidenza Trump ha portato sugli scudi l’ideologia della America First, poco compatibile con una grande alleanza che si vuole tra pari almeno in teoria. In Europa le conseguenze ancora vive della crisi economica del 2008-2009, le ricadute di una globalizzazione non governata che nei Paesi sviluppati ha favorito il declino delle classi medie, e l’instabilità politica innescata da populismi e sovranismi, hanno aperto una fase «di transizione» che non si sa dove debba portare. Non basta. Questa Europa esangue, a dispetto della Nato, nel mondo nuovo si sente insicura. Teme di rimanere schiacciata dalla competizione tecnologica e commerciale tra gli Usa e la Cina, paventa la vicina potenza militare della Russia, vede una somiglianza di intenti tra

Putin e Trump desiderosi entrambi di avere a che fare con singoli Stati europei non più legati tra loro, e così progetta una difesa europea che talvolta manca di realismo ma la cui urgenza tiene banco almeno nella parte occidentale dell’unione. Ai metodi irrituali e alle sfide di Trump, insomma, la sponda europea risponde con paure e confusione.

Proprio per questo il primo passo per rilanciare la Nato, al di là dei compleanni e degli umori di Trump o di Macron, passa da una presa di coscienza chiarificatrice su ognuna delle due sponde atlantiche. La difesa europea è necessaria, merita stanziamenti straordinari e deve puntare alle cooperazioni rafforzate tra chi è interessato. Ma non potrà, nel futuro prevedibile, sostituirsi all’ombrello nucleare Usa. Si tratta piuttosto di creare un «pilastro europeo» nella Nato, capace di agire autonomamente quando necessario. Parallelamente gli europei devono aumentare le spese per la Nato nel suo insieme (l’Italia è in cattiva posizione con il suo 1,2 per cento del Pil a fronte del 2 per cento promesso da tutti entro il 2024, ma Trump, di solito, preferisce prendere di petto la Germania poco più brava di noi). Sull’altro fronte l’America deve riconoscere, perché anche questo ha un prezzo, che dall’Europa le viene una profondità strategica cui non può rinunciare se vuole continuare ad essere grande potenza. La Nato fa bene a scegliere una linea di contenimento della Cina e delle sue ambizioni geopolitiche, ma questa linea deve risultare accettabile per tutta l’alleanza, senza diktat. E opportuno, in aggiunta ai progressi in tema di sicurezza cibernetica, sarà l’annuncio che lo spazio diventa terreno di confronto. Ma non è accettabile (e su questo Macron ha perfettamente ragione) che gli Usa ritirino il loro contingente dal confine turco-siriano e che la Turchia scateni un’offensiva anti-curda in Siria senza che gli altri alleati atlantici vengano avvertiti o consultati adeguatamente.

Proprio qui, con la Turchia che vuole l’approvazione della Nato per le sue gesta in Siria, e che in teoria potrebbe domani dichiararsi aggredita da Damasco, spunta dalla generale ortodossia il più grave dei problemi che insidiano il futuro dell’alleanza: l’inconfessata crisi di fiducia sull’applicazione dell’articolo 5 del Patto Atlantico, che prevede una reazione armata di tutti se un solo alleato viene aggredito. Nel ’39 la Nato non esisteva, ma le democrazie occidentali decisero di «morire per Danzica». Oggi esiste l’articolo 5 che anche Trump ha confermato dopo qualche resistenza. Ma saremmo pronti, l’America sarebbe davvero pronta a morire per Tallinn, o per Vilnius, o per Riga, o per Varsavia, scatenando una guerra generalizzata contro la Russia (per stare al copione sul quale la Nato si esercita)? Gli odierni Parlamenti, le opinioni pubbliche, i governi occidentali, seguirebbero l’ormai lontano esempio di Danzica?

Non è un caso che Paesi come la Polonia abbiano voluto e ottenuto la presenza di forze Nato, in particolare americane, sul loro territorio: in caso di attacco russo gli Usa sarebbero costretti a difendere i propri boys, che con la loro presenza creano così un effetto deterrente. Nessuno lo ammetterà, ma proprio le insistenze polacche dimostrano come oggi il cruciale articolo 5 non sia molto credibile.

Il veleno che minaccia la Nato è tutto qui: è il dubbio. Ma il dubbio può tormentare anche un potenziale aggressore consigliandogli prudenza. È per questo che l’alleanza in presunta «morte cerebrale» va sì migliorata, ma resta indispensabile. Per gli americani e per noi europei, in attesa del nostro «pilastro».

Franco Venturini – Corriere della Sera – 3 dicembre 2019

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