Le inconsistenze del copione ucraino

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        Non solo l’Europa è sprofondata nel pantano della più demenziale e teleguidata russofobia, ma essa sembra in preda a surreali impulsi masochistici. Oltre al conclamato (anche se in parte menzognero) abbandono del gas e del petrolio russi, molte società di vario tipo si ritirano ora dalla Russia. Magari hanno trovato mercati alternativi in Patagonia… Una strategia economica a dir poco auto-lesionista. Quando anche le aziende e gli imprenditori, normalmente alla ricerca del profitto, diventano yes-men di qualche centro di potere e incuranti delle conseguenze economiche, è il segnale che l’abdicazione al buon senso è totale. Niente paura, l’interruzione dei normali flussi economici è compensata da un altro fiorente flusso di beni mobili ed immobili alternativi da e verso l’Ucraina: milioni di dollari di armi che partono e milioni rifugiati che arrivano. Da una parte, rifugiati che qualcuno (anche lui in crisi) deve sfamare ed alloggiare e dall’altra armi che stimolano rappresaglie, contro-attacchi, bombardamenti, morti. Sintomatico il fatto che per esempio in Gran Bretagna aumenti il numero dei rifugiati ucraini costretti a lasciare le case dei loro iniziali ospiti perché costoro non sono più in grado di mantenerli. Ma questo è probabilmente solo l’inizio di un fenomeno destinato ad intensificarsi.      

       Gli unici a guadagnare da questo masochismo teleguidato sono i fornitori di armi (vedi i vari Grumman, Raytheon, etc.) ma non certo gli Ucraini o gli Europei e neanche i Russi. Insomma, una strategia banalmente criminale  venduta come difesa della libertà e della democrazia.  Il suo culmine metafisico è l’omertà rituale di migliaia di funzionari e politici europei sulle vere cause della guerra in Ucraina. Premesse di tale omertà sono evidentemente la pretesa che l’esistenza stessa e l’espansione NATO siano benefiche e la sua fedina penale verginale, che essa faccia parte integrante del DNA europeo e, dulcis in fundo, il fatto che gli Stati Uniti del Complesso Militare Industriale si sono inseriti nei gangli dell’Europa come il bacillo della peste nelle cimici dei topi. Una consolazione: l’Europa non è sola. Ci sono infatti anche i Giapponesi che, con la scusa che in tal modo essi sono protetti dalle mire della Cina, continuano (ancora!) ad ospitare ad Okinawa ben 80.000 Americani, fra soldati, famiglie e tecnici e in più devono anche sborsare un obolo annuale da 8 miliardi di dollari per contribuire al mantenimento di costoro. In fondo, non si tratta di una novità. Lo facevano già gli Inglesi in India e prima di loro i Romani nelle terre da loro conquistate.  Storicamente, non fa una grinza.

       Insomma, sotto un certo punto di vista, oggi in Europa non sta accadendo nulla di nuovo o di unico. Già in altre epoche dei furfanti e dei criminali di turno avevano compiuto delle malefatte destinate a diffondersi e a crescere col tempo, varcando anche gli oceani, ma questa volta dall’Europa. Uno dei più pericolosi, appunto perchè indegnamente cinto di tiara, fu infatti Innocenzo III, inspiegabilmente non ancora radiato dalle cronache ecclesiastiche. Genocidio dei Catari, il ghetto degli Ebrei con tanto di distintivo di riconoscimento e imposizioni varie, nonchè un’Inquisizione che per secoli gravò come una pestilenza fino alle Americhe. Insomma, un criminale travestito. E tutti a dargli retta, incluso per esempio anche il disinvolto Federico II, ancora più spietato dei pur inflessibili Domenicani.

       I criminali di oggi hanno molti tratti in comunque con l’esempio appena citato: non hanno tiara, ma sono in giacca e cravatta ma anche in sobri tailleurs femminili e hanno come aiutanti, se non dei cardinali, certo uno stuolo di servizievoli yes-men, anch’essi travestiti da santini e dallo sguardo compunto. Questa disinvolta e pittoresca congregazione con i suoi defilati fornitori di armi, i suoi loquaci espansori di fraudolenti confini difensivi, i suoi sanzionisti incontinenti, i suoi ipocriti di bassa lega nei vari posti chiave del potere o della manipolazione mediatica hanno infatti un aspetto perbene, salvo il fatto che gli effetti delle loro azioni e decisioni sono disastrosi e, quando non fanno bombardamenti a tappeto su interi Paesi, possono comunque sconvolgere e mettere in pericolo la vita quotidiana di centinaia e centinaia di milioni di persone. I disastri ucraini, causati dal patologico egemonismo americano, dai suoi imbrattacarte europei e dal fanatismo di irriducibili estremisti nazionalisti ucraini sono solo una goccia in confronto al caos economico planetario che insensate sanzioni e la demonizzazione della Russia stanno provocando.

       Vi è una cosa che l’ex- attore di professione a nome Zelensky, ritornato alla sua vecchia professione grazie alle quotidiane esibizioni da un microfono all’altro, sembra non capire o fa finta di non capire: paradossalmente, il suo vero nemico non è Vladimir Putin ma Joe Biden, la NATO e i suoi irresponsabili sostenitori europei. Tutte le armi e gli istruttori che costoro gli inviano sono dei boomerang, che si ritorcono sugli Ucraini. Per estensione, quindi, chi è il vero nemico dell'Ucraina? Un Putin, che fino all'ultimo ha chiesto un sistema di sicurezze reciproche (negato)? Oppure il senile e malfermo Joe Biden dallo sguardo sempre più smarrito? O forse l'arruffatto e sempre più pasticcione Boris Johnson che ora vuole stracciare il protocollo Brexit sull'Irlanda? O in fin dei conti lo stesso Zelensky, che ogni giorno chiede armi e sempre più dollari che non si sa esattamente dove vadano a finire? D'altra parte, vari elementi suggeriscono che anche le mosse di costui siano condizionate da altri. Guarda caso, quando costui si è dichiarato disposto ad accettare la neutralità dell'Ucraina, i solerti guerrafondai di Bruxelles gli hanno inviato più armi e hanno esteso le sanzioni contro la Russia. Ovvero, la guerra "deve" continuare...

Questa congregazione di persecutori di eretici russi, musicisti e scrittori inclusi, le cui assise sono spesso aperte e condotte da quell'agitatore laureato a nome Jens Stoltenberg (che soffia perennemente sul fuoco), include inoltre un numero indefinito di analoghi carrieristi di professione e di improvvisati o sedicenti uomini politici sparsi negli Stati Uniti, in Europa e anche in Italia. Negli ultimi giorni, la suddetta congregazione si è inoltre pateticamente infoltita di nuovi protagonisti di sesso femminile come la finlandese Sanna Marin e la svedese Magdalena Andersson, che hanno scoperto che bisogna entrare a tutti i costi nella NATO. Sarà il consiglio di qualche sciamano lappone? E la Finlandia ha forse dimenticato che aveva firmato un tratto dove s'impegnava alla neutralità perpetua come condizione della sua indipendenza dall'Unione Sovietica? Il Primo Ministro turco ha proclamato di opporsi all'ingresso dei due nuovi Paesi nella NATO, ma le sue ragioni sembrano unicamente dettate dalle relazioni di questi ultimi con gli attivisti curdi residenti in tali Paesi. Non è detto che se ottiene qualche vantaggio non acconsenta, facendo peraltro un grave sgarbo a una Russia che gli vende armi sofisticate, gli sta costruendo centrali atomiche e gli invia milioni di turisti all'anno. Infine, come avveniva con i banditori delle fiere medievali, ancora sprovviste di schermi televisivi e di testate di giornali, le varie piattaforme mediatiche amplificano e diffondono la suddetta omertà, propinando giornalmente spazzatura pubblicitario-propagandistica a delle masse inermi e prive di strumenti per capire chi dice il vero e chi il falso.

Ognuno dei fattori sopra menzionati sta contribuendo ad alimentare il disastro.

Un disastro del resto già prevedibile da quando l'Ucraina non rispettò il Minsk 2, i nazionalisti inasprirono le repressioni nel Donbass e gli Stati Uniti iniziarono a riempire l'Ucraina di armi, anno dopo anno. Già da allora, gli Ucraini, almeno quelli moderati, stavano cadendo nella trappola mortale del "fino all'ultimo ucraino" con cui sono oggi martoriati dai loro presunti amici. A iniettare folli speranze ci pensò del resto anche un camaleonte professionista come il senatore repubblicano Lindsay Graham, che nel 2014 dichiarò a dei militari (probabilmente del battaglione Azov): "La vostra guerra à la nostra guerra". Come dire che già da allora gli Stati Uniti stavano facendo la guerra alla Russia per interposta persona. A che scopo? Lindsay Graham è comunque al sicuro e, come avviene con la maggior parte degli uomini politici che si rispettino, custodisce saldamente la sua poltrona, allo stesso modo dell'intramontabile Mitch McConnell o della speaker Nancy Pelosi, anch'essi elargitori di retoriche assicurazioni e promesse di aiuti (che non costano nulla alle loro tasche e senza rischi personali).

Insomma, come nelle classiche storie di perfidia, i fomentatori del disastro sorridono innocenti di fronte agli spettatori. Uno scenario tragicomico e patetico, se non vi fossero molti morti e città in macerie, penuria di grano e petrolio e le avvisaglie incalzanti di una recessione globale.

Nonostante l'isteria russo-fobica prosegua senza tregua, alcuni segnali e notizie che trapelano da lati imprevedibili e non sospetti stanno però mostrando delle crepe nel copione ufficiale di questa nuova impresa balorda architettata dall'establishment americano.

Proprio un acceso senatore repubblicano del Kentucky, Paul Rand, ha per il momento bloccato un progetto di aiuti all'Ucraina per altri (demenziali e sospetti) 40 miliardi su cui si erano accordati sia i Democratici che i Repubblicani. Mentre la sorte del pacchetto rimane sospesa, quello che conta è che un fervido conservatore abbia denunziato l'assurdità di elargire fondi giganteschi a dei Paesi terzi quando gli Stati Uniti necessitano di urgenti interventi sociali ed economici. Sul "demenziali e sospetti" di cui sopra il commento è quasi superfluo: l'ombra della bellicosa paranoia presidenziale e quella dei costruttori di armi che si fregano le mani non è neanche un'ombra, tanto è palese il loro ruolo.

Varie testimonianze offrono inoltre un quadro meno lusinghiero della nobiltà delle forze armate ucraine. Si tratta per esempio delle dichiarazioni fatte a CNN da Gennadiy Druzenko, responsabile di un corpo ucraino di soccorso medico denominato "angeli medici", dove il nobile samaritano ammette che egli ordinava ai medici di castrare i prigionieri russi feriti "perché costoro sono scarafaggi e non esseri umani." Un'altra notizia ancora riguarda la pratica di tenere i prigionieri russi con le mani dietro la schiena e poi di calare sopra la loro esta una busta di plastica con effetti che si possono immaginare.

Vi sono poi le testimonianze sul Daily Telegraph della Nuova Zelanda di Adrian Bocquet, un ex- militare francese che ha trascorso varie settimane in Ucraina per consegnare attrezzature mediche e altro materiale: "Ho visto prigionieri russi legati e picchiati...Essi erano trasportati a tre o quattro per volta con dei minibus in una zona di isolamento. Tutti quelli che poi scendevano dal minibus ricevevano una scarica di Kalashnikov alle ginocchia, mentre quelli che ammettevano di essere degli ufficiali venivano sparati alla testa."

Impossibile poi non citare i dubbi espressi da Richard Black, ex colonnello americano e veterano del Vietnam e dell'Iraq a proposito delle asserite atrocità commesse dai Russi a Bucha, dubbi, vale la pena di sottolineare, espressi quindi non da un Russo o da un giornalista ma da un militare professionista e per giunta americano. Egli ha infatti considerato senza mezzi termini ben poco credibile e inverosimile la nota scenografia dei morti, ordinatamente disseminati e sparsi nella strada. Tenendo conto che le supposte atrocità sono diventate un leitmotiv della retorica mediatica e delle esortazioni guerrafondaie dei vari rimestatori di turno, l'incredulità di un militare familiare con situazioni di guerra probabilmente analoghe conforta l'idea sempre più diffusa che il reale scenario ucraino sia ben diverso da quello strombazzato ai quattro venti. Analoghi dubbi sulle supposte atrocità russe a Bucha sono del resto stati espressi anche da un altro ex- ufficiale del servizio informazioni americano, Scott Ritter, il quale in premio si è visto chiudere il suo conto su Twitter.

Un ulteriore esempio del suddetto divario fra il copione ufficiale e la realtà meno nobile è costituito dalla resa degli ultimi miliziani del battaglione Azov e dalle notizie, negate dalle fonti ufficiali ma date per vere anche dal summenzionato colonnello americano, secondo cui nei bunker di Mariupol si trovava un cospicuo numero di istruttori francesi, di canadesi e anche un ammiraglio americano a nome Eric Olson. Delle vere e proprie "quinte colonne" di una guerra non dichiarata ma operante. Queste presenze e poi la strana docile resa potrebbero spiegare come mai "malvagi" Russi non abbiano deciso por fine alla resistenza dei miliziani con un letale bombardamento. Se fra gli asserragliati nel bunker dell'acciaieria vi erano anche istruttori militari americani e francesi, nulla vieta di immaginare che dietro le quinte qualcuno abbia suggerito di non far morire né gli uni né gli altri facendoli arrendere. Il "dopo" può far parte di quelle trattative di scambio e restituzione tipiche in situazioni analoghe.

Questi e altri esempi analoghi sicuramente oscurati e nascosti suggeriscono una trama ben più squallida e miseranda di quella raccontata dai rimestatori di turno. Il tempo dirà se le crepe del copione ufficiale ucraino si infittiranno e inizieranno a levarsi alcune coraggiose voci di dissenso dalla scempiaggine in atto.

Antonello Catani, 20 maggio 2022

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"Sanità, istruzione e lotta alle armi. Salverò il Paese da Trump"

Non c'è dubbio che Joe Biden si stia rivolgendo a noi europei, quando puntando il dito denuncia con forza: «Trump ha demolito le nostre alleanze, io mi impegno a ricostruirle».
È il pomeriggio dopo la resurrezione del Super Tuesday. Biden partecipa ad un evento per la raccolta di fondi elettorali con il sindaco di Los Angeles Garcetti, e poi riunisce un gruppo di giornalisti all'hotel «W» di Hilgard Avenue per indicare come pensa di battere Sanders e Trump: «Sono grato per il sostegno ricevuto in tutto il Paese. Quelli che nella vita sono caduti, sono stati dati per finiti, sanno che questa è la loro campagna». Così spiega la filosofia della sua candidatura: «Vogliamo riunificare gli americani, al di là di razza, sesso, disabilità, etnia, e il risultato di martedì dimostra che ci stiamo riuscendo. Ci rivolgiamo a tutti, democratici, indipendenti e repubblicani. Lo dico sul serio, perché questo è il modo in cui si vince, ed è la ragione per cui mi sono candidato». Subito dopo lancia una frecciata al rivale Sanders: «Noi stiamo costruendo un movimento, composto da persone che non sognano la rivoluzione, ma vogliono battere Trump e costruire il futuro migliore che sappiamo essere possibile per l'America».
L'exploit del Super Tuesday
I flussi elettorali di martedì hanno ribaltato il tavolo: «Questa idea che non siamo un movimento... Andate a guardare i risultati, chi è andato a votare. Noi ora stiamo guidando la campagna, portando alle urne persone che non partecipavano. L'affluenza è stata altissima. Significa che la nostra agenda positiva, progressista, ma realizzabile, è maggioritaria nel Paese: garantire che l'assistenza sanitaria sia abbordabile e accessibile per tutti; che ogni bambino riceva l'istruzione per avere successo; battere i produttori di armi per la sicurezza; assicurare che il sistema pensionistico della social security sopravviva e protegga i coniugi rimasti vedovi; riformare l'immigrazione; affrontare la minaccia esistenziale del riscaldamento globale, avviando un processo di trasformazione con cui possiamo creare 10 milioni di buoni posti di lavoro che pagano 45 o 50 dollari all'ora più i benefit».
La continuità
Biden sottolinea la continuità con Obama: «Sono orgoglioso di aver servito come suo vice otto anni, e di ciò che abbiamo realizzato, come la riforma sanitaria, il salvataggio dell'industria dell'auto e dell'economia nazionale. La gente dimentica che quando siamo andati alla Casa Bianca gli Usa erano sull'orlo del fallimento, e in guerra su diversi fronti. Avevamo appena cominciato a cambiare le cose, ricostruire la classe media, risolvere i cambiamenti climatici: dobbiamo completare l'opera». Per riuscirci, è necessario centrare tre obiettivi politici: «La Casa Bianca non basta. Affinché la nostra visione diventi realtà, dobbiamo confermare Pelosi come Speaker della Camera e riprendere il Senato». Perciò manda un messaggio Sanders: «Non dobbiamo permettere che nelle prossime settimane le primarie diventino una campagna di attacchi negativi, perché aiuterebbe solo Trump. Dobbiamo tenere l'occhio sulla palla. L'obiettivo è sconfiggere Donald per salvare l'anima del Paese». Biden ci crede: «La gente capisce. Trump rappresenta una minaccia esistenziale per il ruolo degli Usa nel mondo. Ha già compromesso la nostra reputazione, con la sua strategia elettorale di diffondere odio e divisione tra gli americani. Il mondo intero lo ha visto insultare i nostri alleati, e abbracciare demagoghi e dittatori. Ha indebolito tutte le alleanze, su cui avevamo costruito la nostra forza, ma io mi impegno a ricostruirle. Se diamo a questa persona altri quattro anni alla Casa Bianca, cambierà radicalmente il carattere della nostra nazione. Non possiamo permetterlo. Perciò fin dal principio ho detto che questa è una battaglia per salvare l'anima del Paese».
Prima, però, bisogna vincere le primarie: «Stiamo già lavorando sul voto di martedì prossimo in Michigan, Mississippi, Missouri, Idaho, Washington, North Dakota. Porteremo la lotta in tutta l'America per unirci, ricostruire la classe media e dare alla gente un'opportunità che è stata negata da Trump. Il prossimo presidente deve avere la capacità di guidare dall'istante del giuramento, per curare una nazione divisa e un mondo nel caos. Io so come farlo e ho spiegato con chiarezza gli obiettivi. Possiamo guidare il 21° secolo come non abbiamo mai fatto prima, se capiamo che sulla scheda c'è il carattere della nostra nazione, prima che il nome dei candidati». Una collega gli fa notare che Sanders lo accusa di essere uno strumento dell'establishment. Allora Biden si ferma, torna indietro, e risponde con fermezza: «L'establishment sono i milioni di lavoratori che mi hanno votato. Io corro per loro, per realizzare i nostri sogni». 

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Il sentiero stretto degli Usa

La preghiera di Nancy Pelosi, la leader della Camera Usa che dopo l’attacco missilistico iraniano contro una base Usa in Iraq aveva temuto il peggio, è stata esaudita: Donald Trump e Ali Khamenei continuano a usare linguaggi estremamente minacciosi, ma i comportamenti, per ora, sono quelli di due Paesi consapevoli di non avere nulla da guadagnare da una guerra totale. Il presidente americano, ossessionato dal timore di apparire debole davanti al suo elettorato, vuole mostrarsi duro, ma non ha interesse ad affrontare la campagna elettorale con centinaia di migliaia di soldati Usa inchiodati sui campi di battaglia del Medio Oriente. Gli ayatollah, furenti per l’eliminazione del popolarissimo generale Soleimani, sanno che potrebbero scatenare una guerra disastrosa per tutti, ma che non potrebbero vincerla. Continuano, così, a minacciare vendette tremende, ma hanno costruito la loro rappresaglia in modo da massimizzare l’effetto sull’opinione pubblica interna — lo spettacolare lancio notturno di 15 missili balistici — minimizzando il rischio di innescare reazioni a catena incontrollabili. Come bersagli sono state scelte due basi nelle quali i militari Usa sono ben protetti, mentre l’Iraq e i Paesi, come Finlandia e Lituania, che hanno loro uomini in quelle installazioni sono stati informati in anticipo. Le cancellerie e i mercati tirano un sospiro di sollievo.

Scarsa enfasi anche sul Boeing caduto a Teheran: un massacro e tanti sospetti ai quali è stata per ora messa la sordina. Cessato allarme? Per ora è stato evitato il conflitto e nei fumi di una situazione che rimane esplosiva, si comincia a intravedere un possibile sentiero di de-escalation. Un sentiero stretto e tortuoso, esposto alle possibili vendette indirette dell’Iran attraverso gli hezbollah e le altre milizie alleate sparse in vari Paesi, ma anche alle imprevedibili reazioni di Trump in caso di nuovi colpi di mano di Teheran. Rimane, infine, la grande incognita nucleare, con la concreta possibilità di blitz in grado di incendiare tutta la regione qualora l’Iran riprenda il suo programma per dotarsi di armi atomiche.

La reazione pacata dei mercati, col prezzo del petrolio salito di poco rispetto a quanto avvenuto durante crisi precedenti di minore gravità, porterebbe ad accreditare la tesi di un suo disinnesco. In realtà a calmierare il prezzo del greggio c’è l’enorme aumento della produzione americana di idrocarburi — più che raddoppiata negli ultimi dieci anni, mentre gli operatori probabilmente si aspettano che, in caso di eccessive pressioni al rialzo dei prezzi, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi

petroliferi del mondo arabo alleati degli Usa contro l’Iran svolgano una funzione di calmiere. Siamo comunque entrati in una nuova fase di tensioni estreme che non sarà di breve durata e sulla quale peseranno l’imprevedibilità di Trump, la sua tendenza a prendere decisioni unilaterali, spesso impulsive, ma anche le ambiguità del regime di Teheran. Ieri le rassicurazioni del ministro degli Esteri, Javad Zarif («abbiamo attuato e concluso una rappresaglia adeguata, non vogliamo un’escalation del conflitto»), sono state seguite da quelle, di segno opposto, della guida suprema Ali Khamenei: «Abbiamo dato agli americani solo uno schiaffo: non può bastare». Certo, anche in

Iran, come negli Stati Uniti, il linguaggio della politica segue un doppio binario: quello incendiario di Khamenei serve a galvanizzare il popolo sciita che si sente assediato, mentre Zarif parla ai governi stranieri.

Sul fronte americano le incertezze riguardano soprattutto il succedersi di mosse contraddittorie di Trump che non disorientano solo i suoi nemici, ma seminano malessere e incertezza anche tra i militari e diplomatici americani e perfino alla Casa Bianca. Basti pensare all’ipotesi avanzata e poi ritirata di colpire i siti culturali dell’Iran o negli Stati Uniti

Sul fronte americano sono le mosse contraddittorie di Trump a disorientare al possibile ritiro delle forze alleate dall’Iraq, escluso drasticamente da Trump, poi preparato a Bagdad dai capi della task force americana, infine di nuovo negato dal Pentagono. Il dato politicamente più impressionante è l’incongruenza della minaccia di Trump di imporre sanzioni economiche micidiali contro un governo di Bagdad che chiede il ritiro americano dal Paese, anche se questo Paese è tuttora tenuto in piedi dagli enormi sostegni economici erogati dagli Stati Uniti.

Qual è la strategia di Trump? Ce n’è ancora una, visto che era perfettamente prevedibile che l’eliminazione di Soleimani avrebbe danneggiato gli interessi americani sui due fronti più importanti, portando a una rottura col governo iracheno e a una ripresa del programma nucleare iraniano?

Le certezze, oggi, sono solo due: a contenere gli istinti del presidente non ci sono più i generali e i professional di lungo corso che lo avevano affiancato nella prima parte del suo mandato presidenziale. E poi anche in situazioni di questa gravità Trump è guidato soprattutto dal desiderio di non apparire debole o vulnerabile. Si spiega solo così il suo cambiamento di rotta rispetto a qualche mese fa, quando, nonostante la pressione del Segretario di Stato Pompeo, si rifiutò di colpire l’Iran per l’abbattimento di un drone americano. Pensava di essere elogiato per la sua saggezza: rimase malissimo quando la sua fu interpretata come una ritirata. E, dopo l’assedio all’ambasciata Usa di Bagdad, i fantasmi degli ostaggi di 40 anni fa e dell’assassinio dell’ambasciatore Stevens a Bengasi l’hanno spinto ad agire.

Massimo Gaggi Corriere della Sera 9 gennaio 2020

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