Dai Romantici a Segantini

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Camminiamo dentro  luoghi che riempiono l’anima del colori di un infinito che ci lascia incantati, attraverso montagne innevate, ghiacciai e prati verdi, dalle mille sfumature di tono, dove campeggiano alberi solitari oppure appaiono al limite di una radura popolata di piante ed arbusti. La natura a volte ci avvolge con la  sua vitalità, altre volte appare cristallizzarsi in prismi e coni, quasi geometrici, che evocano linearità e purezza, come nel bellissimo quadro, entrato nel  nostro immaginario: Le bianche scogliere di Rügen, dell’artista Caspar David Friedrich. Tali visioni o geografie di antichi pittori e poeti,  ci accompagnano lungo la visita  alla mostra Dai Romantici a Segantini, curata  da Marco Goldin e  visitabile da oggi, a Padova al Centro San Gaetano, fino al 5 giugno 2022. Storie di lune e poi di sguardi e montagne. Capolavori dalla Fondazione Oskar Reinhart, le precisazioni che accompagnano il titolo, allargano il significato  della rassegna e ne spiegano il valore. Abituati spesso alle immagini della vita parigina e della terra francese che i quadri degli impressionisti d’oltralpe ci hanno consegnato, le opere provenienti dalla collezione svizzera Reinhart, la più grande collezione di pittura tedesca al di fuori della Germania, offrono una visione diversa  della pittura, dalla fine del Settecento fino ai primi del Novecento, con uno sguardo attento al paesaggio che diventa il luogo dove si tessono le trame di una nuova sensibilità. Reinhart seppe riscoprire alcuni pittori quasi dimenticati come Gaspar Wolf che egli considerò come il più importante paesaggista svizzero del XVIII secolo. Un altro fiore all’occhiello della raccolta, come scrive il curatore nel catalogo, sono i 27 lavori di Ferdinand Hodler, uno dei nomi più significativi in Europa a cavallo dei due secoli. Il  gusto estetico di Reinhart nacque sulla scia della grande mostra tenutasi a Berlino nel 1906 che Meier-Graefe con Lichtwalk e Von Tschudi riservarono all’arte tedesca del XIX secolo e, in particolare, al romanticismo tedesco. La rassegna promossa dal Comune di Padova e da Linea d’ombra, costituisce una tappa di un lungo viaggio dentro il continente europeo. Geografie dell’Europa è il progetto che prevede il susseguirsi di una serie di mostre che diventeranno lo specchio del mondo pittorico dei secoli XIX e XX. L’esposizione che apre oggi i propri battenti si articola in sei sezioni tematiche che ci fanno apprezzare meglio artisti, già in parte conosciuti, e fanno emergere volti a noi nuovi. Nella prima parte, dove i soggetti sono i prati, le acque e soprattutto le montagne, ripercorriamo la storia della pittura di paesaggio in Svizzera a partire dall’opera di Gaspar Wolf dedicata ai ghiacciai che ci sono nel Grindelwald, per proseguire poi  fino agli anni Sessanta dell’Ottocento. A partire dagli inizi di questo secolo i pittori svizzeri guardano alla Francia, a Camille Corot soprattutto, anche se in Barthèlemy Menn il fascino di una natura inviolata di ascendenza romantica, così come anche in Wolf, ci donano soprattutto la percezione della grandezza della Natura. È l’idea del Sublime teorizzata nel saggio di Edmund Burke del 1757 e di una bellezza che lascia attoniti. Gli altri pittori di lingua tedesca come Robert Zünd, seguendo la lezione di Gustave Courbet, mostrano al contrario un’interpretazione del paesaggio più vicina alla realtà visibile e meno legata al paysage intime. Nella seconda sezione che porta un nome evocativo: Il Lume della luna e altre storie, il movimento del pennello dell’artista che disegna forme a noi note, fra cui la luna, che si specchia sul mare di notte, e usa tinte e luci cariche di sfumature emotive, ci consegna le chiavi di una lettura del visibile dentro le corde del nostro sentire. I cinque dipinti di Friederich, fra cui Le bianche scogliere di Rügen, che ritrael’isola sul Mar Baltico nota per le sue rocce di gesso, è un brano di poesia che usa in sostituzione del pennino il pennello. L’antico mondo mitologico compare nell’opera di Arnold Böcklin nella sezione successiva come in Pan nel Canneto, dove la storia tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, stringe insieme l’elemento apollineo a quello dionisiaco. Il ritratto torna soggetto primario nella quarta sezione dove compaiono come protagonisti i due pittori in Svizzera più popolari: Albert Anker e Ferdinand Hodler. Il primo nelle tante immagini di bambini come in L’asilo, in quelle di anziani lungo le strade, del soldato che torna dalla guerra, di matrimoni e funerali, e scene intime realizza un affresco che diventa narrazione della vita di un popolo. Dopo la penultima sezione che è la più ricca di opere che spaziano dal realismo all’impressionismo e dove troviamo, tra gli altri Adolph Menzel  e i suoi quadri di vedute di grande suggestione, la mostra si “congeda” con una visione che diventa incantata, dentro villaggi e montagne che attraverso le creazioni artistiche di Segantini, Giacometti e Hodler rivelano la trasformazione del colore nella pittura svizzera fra Ottocento e Novecento.  Immagini che sono al tempo stesso  racconto  di una montagna, quella  che si trova intorno al Passo di Maloja che nei suoi quadri Segantini per accrescerne la luminosità, spolvera d’argento e d’oro, mentre Hodler si dedica a ritrarre l’Oberland bernese. Sguardo verso l’infinito di Hodler, in cui le figure si muovono quasi danzando dentro la musica silenziosa del cosmo, conduce il nostro sguardo verso l’ignoto, nella lontananza che appare affacciandosi alle vette delle montagne rocciose e innevate  che l’artista dipinge in quegli stessi anni.

Patrizia Lazzarin, 29 gennaio 2022

 

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L’anima negli occhi: Vincent Van Gogh

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Van Gogh. I colori della vita, il titolo della grande rassegna di cui si attende l’apertura sabato 10 ottobre, a Padova, nel Centro Culturale San Gaetano, condensa già nel nome il fascino del colore e della pennellata che hanno reso immortale il pittore olandese. Le tinte giallo, arancione, ma soprattutto  blu, azzurro e verde che si posano vicino al  bianco,  sono una cartina rivelatrice degli stati d’animo dell’artista: raccontano ai nostri occhi, calandoci nel blu, la sua spiritualità e posandoci sul giallo, la  vitalità che lo caratterizzava.  Egli è stato un eterno viandante in un percorso reale fra i paesi  del Belgio e dei Paesi Bassi e dalla città di Parigi alla Provenza. In questi luoghi  si è fermato e ha vissuto: percorrendo prima  a piedi chilometri, con il suo bagaglio di tele e pennelli, mosso dalla ricerca di una verità umana essenziale. Dentro questo viaggio la sua anima ha vagato come la sua matita ed il suo pennello per ritrovare fuori dal buio e dalla notte, la luce e il vero: l’accensione del sole che come un Icaro lo ha illuminato ma alla fine lo ha ferito a morte. Appassionato fin da bambino di uccelli, insetti e piante, cresciuto in una famiglia dove si leggevano  quotidianamente le Sacre Scritture, egli amava la terra, la gente che lì viveva e si curava di essa. Non rimase incantato dalla bellezza comune ma amò  ritrarre uomini e donne che mostravano i segni della fatica e della sofferenza, in particolare i contadini. Le parole di Marco Goldin, il curatore della mostra,  offrono una nuova interpretazione della sua figura: Van Gogh non era pazzo. Si è avvicinato al sole, prima cercandolo, poi fuggendone via. Vi è rimasto impigliato, con un filo che mai più ha districato, stringendolo nella mano.

Fino a quella spiga di grano rimasta nella tasca della sua giacca, sotto il cielo di Auvers, prima di sera. Accanto  a un covone. Sotto le stelle del firmamento … Ha creato con la disciplina della sua anima un mondo inarrivabile, il mondo di un eroe. Colui che arriva a toccare il sole e poi riesce a raccontarne il fuoco e il calore, la luce che abbaglia. E quella luce la fa diventare colore. Un colore che nessuno mai aveva dipinto così prima. … Non ci stupisce quindi la presenza di tre quadri del pittore irlandese Francis Bacon nella prima saletta della mostra, che egli aveva dedicato intenzionalmente all’olandese prendendo spunto da un suo dipinto, Il pittore sulla strada di Tarascona, andato distrutto durante un bombardamento a Magdeburgo, sul finire della seconda guerra mondiale. Era un autoritratto dove la sua immagine, sullo sfondo di campi gialli di grano e illuminata da un cielo azzurro che sembrava staccare i suoi pezzi per riempire le vesti di Vincent e parte delle mattonelle a terra, era fissata come in un’istantanea eterna, fra due alberi che nella loro purezza ricordavano la pittura giapponese. Van Gogh come scriveva al fratello Theo nell’agosto del 1883, sosteneva  di dipingere in segno di gratitudine verso il mondo dove aveva camminato per più di trent’anni, con l’intento di non seguire mode o tendenze ma di esprimere un sentimento umano sincero. Il suo viaggio è stato quello di un eroe e così lo legge Bacon nelle sue tele, dove  egli emerge nella sua solitudine, a volte dal buio, in  altre mentre percorre una terra rosso cupo, gravida di ombre nere. In occasione della mostra che sarà visitabile fino all’undici aprile 2021, uscirà anche la pubblicazione del curatore Marco Goldin, che reca il titolo Van Gogh, l’autobiografia mai scritta, e sarà edita dalLa Nave di Teseo. Il libro trae linfa e materia dalle novecento lettere che il pittore ha inviato e ricevuto  e che hanno permesso di unire  i fili della sua vita allo stesso modo di un’autobiografia scritta da lui stesso. La rassegna di Padova che è sicuramente un’occasione speciale per la città è stata possibile grazie al prestito di settanta opere di Van Gogh tra dipinti e disegni provenienti dal  Kröller-Müller Museum. La direttrice del museo, Lisette Pelsers, ricorda nel catalogo edito da Linea d’ombra, che tra le notevoli opere prestate ci sono: Alberi da frutto tra i cipressi (1888), la più celebre versione del Seminatore (1888), il Ritratto di Joseph-Michel Ginoux (1888) e Il burrone (1889). Ci sono anche tanti disegni, raramente esposti al di fuori del suo museo, che mostrano l’interpretazione del mondo rurale da parte dell’artista, soprattutto all’inizio della sua vicenda artistica. Risulta difficile, osservando i quadri della fine degli anni 80’, dove  le pennellate   di colore  accendono le nostre pupille mentre trattengono con se ancora i lampi del fervore creativo di Vincent, farsi un’idea dell’arte del  pittore ai suoi esordi. Gli anni della sua formazione dalla miniera di Marcasse ad Etten dove i soggetti sono diversi come i luoghi, è il momento in cui  compare l’attenzione e l’amore per gli altri che non lo fanno, come egli ci racconta,  sentire inutile, ma felice. Sono minatori che si muovono sulla neve e sono soprattutto, quelle che noi osserviamo, donne impegnate in varie occupazioni. Nella sezione della rassegna dedicata alla sua permanenza nella città dell’Aja scopriamo  i ritratti dolenti della madre e di Sien Hoornik, una ex prostituta incinta che diventò la sua compagna. Sono gli anni in cui egli si è ispirato soprattutto  agli artisti della scuola dell’Aja o a quella di Barbizon, agli Antichi maestri olandesi e alle incisioni su legno di autori contemporanei. Ne sono un esempio Donne nella neve che portano sacchi di carbone del 1882 che  mostra la fatica di un mondo reso quasi magico nel silenzio di  un paesaggio innevato. E poi i volti, espressivi come quella  Testa di donna del 1883 realizzata su carta velina a penna ed inchiostro nero, mentre gli oli su tela di teste di donne e di uomini dipinti negli anni 1884- 1885, sembrano nascere dall’amalgama di  una creta annerita dal fumo dei camini o imbrunita dal calore, resa verde scuro in alcune parti per un tocco di muschio li accanto: sono i visi forti o soli, di giovani o vecchi. E poi c’è Parigi dove conosce gli impressionisti e approfondisce l’arte giapponese. Il 1887 fu, afferma Goldin, il vero atto di nascita dell’arte moderna del pittore. La sua pennellata  a volte breve, altre lunga, intrisa dalla luce, si differenzia dagli amici francesi e rende la materia del suo quadro percorsa da una corrente. Utile, ancora prima, la lezione di Delacroix che  gli permise di  scoprire la bellezza  di una gamma cromatica più chiara. Quando lascia Parigi per il sud, per la Provenza e arriva ad Arles, in primavera, trova la neve. Quando racconta questo al fratello rileva un fatto singolare, ma per noi quel momento  è sicuramente straordinario per la nuova vena creativa  di Van Gogh.  Corre l’anno 1888, in cui nel tempo di  circa quindici mesi egli esegue duecento quadri,  cento tra disegni ed acquarelli e scrive duecento lettere. Per lui la città di Arles era il sogno di un Atelier del sud, nella casa gialla assieme a Gauguin e Bernard.  Una storia come sappiamo tutti finita male. Il suo fervore creativo dentro la natura ci ha lasciato pagine indimenticabili di pittura come nei quadri già citati, poco sopra, dalla direttrice del  Kröller-Müller Museum o il Ritratto di Armand Roulin. La fine del suo viaggio fra il maggio del 1889 e il maggio del 1990 a Saint- Remy fino al suicidio del 27 luglio nello stesso anno,  si legge nei brani di pittura che egli ci ha consegnato prima di congedarsi. Fra di loro ricordiamo quelle nuvole e i prati che si confondono con i pendii dei monti di Saint- Remy, i campi di grano al tramonto o il covone enorme sotto un cielo pieno di cirri di Auvers- sur-Oise che traduce nell’intensità del colore, l’odissea di un uomo.

Patrizia Lazzarin, 6 ottobre 2020

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