Il vero nodo è il debito dello Stato

Oggi il Presidente del Consiglio riferirà in Parlamento sulla vicenda Mes, il fondo europeo salva-Stati costituito per prestare soldi ai paesi europei in caso di crisi. Qualche giorno fa, su queste colonne, ho espresso perplessità rispetto ad alcuni aspetti della riforma del Mes.
Ho, in particolare, sottolineato che quello che c'è scritto nel piano di riforma e, soprattutto, quello che non c'è scritto potrebbero aumentare il rischio di una crisi sul mercato dei titoli di stato italiani. Quello che c'è scritto, perché alcuni cambiamenti nel processo decisionale nella gestione delle crisi di debito pubblico renderebbe un po' più probabile la ristrutturazione del debito (cioè non ripagare interamente chi ha prestato soldi allo Stato), come condizione per accedere ai prestiti Mes. Quello che non c'è scritto, perché sarebbe stato utile chiarire che la ristrutturazione del debito pubblico, soprattutto per un paese dove il debito è prevalentemente interno come l'Italia, deve essere un'extrema ratio e non uno dei tanti strumenti disponibili per ridurre il debito.
Detto questo, il dibattito cui abbiamo assistito negli ultimi giorni rasenta l'assurdo. È assurdo che a gridare allo scandalo (Lega e Cinque Stelle) siano quelli che erano al governo quando l'Italia sottoscrisse l'accordo. Che facevano all'epoca? Si occupavano di minibot, del franco Cfa, dell'oro della Banca d'Italia o altre amenità del genere? È assurdo che chi per anni ha sostenuto che un paese in crisi non debba essere costretto a fare austerità per ripagare i creditori ora si inalberi per una riforma che condizionerebbe i prestiti del Mes proprio a non pagare i creditori. È assurdo che si gridi allo scandalo per una riforma che consentirebbe di usare i soldi del Mes per sostenere sistemi bancari in crisi, pensando che questa riforma sia volta a salvare le banche tedesche, quando la Germania ha un debito pubblico basso e non avrebbe certo bisogno di richiedere i prestiti del Mes potendo indebitarsi sui mercati a tassi negativi (cosa che invece non può fare l'Italia).
Ma forse la maggiore assurdità è quella di dimenticarsi che, indipendentemente da quello che verrà scritto nel trattato del Mes, dato lo stato dei conti pubblici italiani e il nostro comportamento negli ultimi anni in termini di gestione della finanza pubblica, corriamo davvero il rischio che un eventuale aiuto da parte dei nostri partner europei sia accompagnato da una richiesta di ristrutturare il debito. Ripeto: indipendentemente da quello che sta scritto nel Mes. Perché penso questo? E, soprattutto, come possiamo evitare il rischio di trovarci di fronte a una tale richiesta?
Lo penso perché temo che si sia diffusa a livello internazionale la convinzione che il debito pubblico italiano possa essere ridotto solo attraverso un forte taglio iniziale e non attraverso un graduale aggiustamento. Prima di continuare, a scanso di equivoci, premetto di non essere d'accordo con questa visione. Sarebbe un grave errore vedere nella ristrutturazione del debito la soluzione dei nostri problemi. Ma non importa quello che penso io. Importa quello che si pensa oltralpe seguendo una logica che, a dire il vero, trova un fondamento nel nostro comportamento passato. Abbiamo più volte dimostrato, in momenti di difficoltà dei nostri conti pubblici di saper reagire. Ma abbiamo anche più volte dimostrato di essere pronti a ricadere nelle vecchie abitudini non appena il pericolo sia passato. Gli esempi sono tanti. Fine degli anni '90: dopo la crisi del 1992, abbiamo portato l'avanzo primario (la differenza tra entrate dello stato e spesa pubblica al netto degli interessi, ossia le risorse disponibili per pagare gli interessi e potenzialmente ridurre il debito pubblico) al 4-5 per cento del Pil, un livello elevato. Entriamo nell'euro, i tassi di interesse sul debito scendono e ci illudiamo che il problema del debito sia sparito. Lo stato ricomincia a spendere con un aumento in pochi anni della spesa pubblica primaria di 3 punti percentuali di Pil e un calo dell'avanzo primario su valori vicini all'1 per cento del Pil. Il rapporto tra debito e Pil scende ma molto meno di quanto avviene in altri paesi euro (come il Belgio). Secondo esempio: crisi del 2011, lo spread sale a quasi 600 punti base, si fa una dolorosa manovra di aggiustamento e si mette in Costituzione l'obbligo di pareggio di bilancio (anche la Lega votò per 3 volte su quattro a favore dell'emendamento costituzionale, astenendosi alla quarta votazione). L'avanzo primario sale sopra al 2,3 per cento del Pil nel 2012 (era diventato negativo nel 2009-10). Ma quando lo spread cala, si fa marcia indietro: l'avanzo primario viene gradualmente ridotto e il rapporto tra debito e Pil si stabilizza ma non scende. E anche ora, dopo il calo dello spread rispetto a un anno fa, non si fa nulla per abbassare il debito pubblico. Anzi, nella legge di bilancio per il 2020, si prevede una seppur piccola riduzione dell'avanzo primario che raggiungerebbe (all'1,1%) il più basso livello dal 2009. Nel frattempo, in tutti questi anni abbiamo mandato a Bruxelles piani triennali in cui si fissavano obiettivi di graduale rafforzamento dell'avanzo primario e di riduzione di deficit e debito pubblico, piani sempre smentiti dai fatti. Difficile criticare chi, fuori dai nostri confini, dubiti nella nostra capacità di ridurre il debito gradualmente e si sia convinto che l'unica soluzione al problema del debito pubblico italiano sia un suo calo attraverso un'operazione straordinaria, la sua ristrutturazione.
Naturalmente niente di tutto questo è rilevante se pensate che il debito pubblico non sia un problema nostro e che gli altri paesi europei se ne dovrebbero far carico attraverso una condivisione del debito o finanziamenti a rubinetto da parte del Mes e della Bce. Oppure se pensate che potremmo fare come il Giappone, una volta usciti dell'euro. Beh, non siamo il Giappone (che poi così bene non sta visto che da un quarto di secolo ha uno dei tassi di crescita più bassi al mondo) e non credo possiamo sperare che gli altri paesi o le istituzioni dell'euro si accollino il nostro debito. Non resta allora che una soluzione per evitare richieste indesiderate. Mostrare che è possibile ridurre il nostro debito gradualmente, senza fare manovre troppo radicali di austerità ma attraverso aggiustamenti stabili nel tempo. Ci aiuteranno riforme che rilancino la crescita (meno burocrazia, meno tasse risparmiando sulle spese non prioritarie, meno evasione, una giustizia civile e servizi pubblici che funzionino). È poi necessario risparmiare le maggiori risorse prodotte dalla crescita fino a raggiungere il pareggio di bilancio (che, ripeto, sta ancora in Costituzione). Si può fare, si deve fare per convincere gli altri paesi europei che il debito italiano è sostenibile e non deve essere ristrutturato. Questa dovrebbe essere la nostra principale preoccupazione, non il Mes. —

Carlo Cottarelli – La Stampa – 2 dicembre 2019

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L’illusione di essere sovrani

I movimenti neo nazionalisti (detti sovranisti) europei non sono tutti uguali. Lasciando da parte il caso di quelli dei Paesi ex comunisti (che hanno speciali caratteristiche), si può però dire che i neo nazionalisti europeo-occidentali debbano tutti fare i conti con un dilemma: come rispettare le promesse elettorali senza portare i rispettivi Paesi alla rovina? I loro successi dipendono dal fatto che promettono soluzioni per problemi dei quali gli establishment hanno a lungo negato l’esistenza. Rispondono a domande di protezione, promettono di porre fine a diffuse paure. Molti elettori apprezzano chi fornisce loro un capro espiatorio (la globalizzazione, l’Europa, la Germania) a cui imputare i disagi economici presenti o che promette di metterli al riparo dagli effetti di migrazioni senza corrispondenti integrazioni. Elettori che sommando insicurezza economica, disagio per gli accelerati cambiamenti del paesaggio culturale dovuti all’immigrazione, e qualche volta anche insicurezza fisica, rispondono entusiasticamente a chi offre loro politiche antimigranti. Per inciso, è falso che queste paure siano artificialmente create dai suddetti movimenti. Quasi mai i politici creano qualcosa. È però vero che quelle paure vengono amplificate. Del resto, la politica è anche questo: cavalcare paure (di ogni tipo) è parte integrante di ciò che hanno sempre fatto i politici di tutte le tendenze.

Il problema però è che la risposta neo-nazionalista a queste paure è un’ offerta di «autarchia» (ciò che i neo-nazionalisti chiamano «recupero della sovranità nazionale») che funziona come richiamo elettorale quando essi sono all’opposizione ma che perde credibilità quando vanno al governo. Perché a quel punto devono fare i conti con la dura realtà. La realtà è che gli stati nazionali europei «non hanno più il fisico», non hanno le risorse per dedicarsi a baldorie sovraniste. E difatti il neonazionalista parla di recuperare la sovranità nazionale (contro l’Europa ) ma è disponibile a fare del proprio Paese un satellite della Russia. Una volta giunti al governo, inoltre, i neo-nazionalisti scoprono che non possono sbarazzarsi dei vincoli europei. Ciò diventa oggetto di recriminazione ideologica: nella versione illiberale della democrazia propria di questi movimenti, nulla deve ostacolare la «sovranità popolare» il volere del «popolo» (il quale, naturalmente, non esiste: è un’astrazione che sta a indicare un’occasionale maggioranza relativa di elettori) . Se il suddetto popolo si è espresso votando i neo-nazionalisti, qualunque ostacolo alla sua volontà è un’ intollerabile cospirazione anti-democratica ordita da poteri forti: di questi tempi, la classe dirigente tedesca è, fuori dalla Germania, il più gettonato fra i poteri forti che tramano e cospirano. Consideriamo il caso della Lega e osservi"mo il modo in cui ha fin qui collegato la costruzione del consenso interno e i rapporti con il mondo esterno all’Italia. Preciso che non mi occupo di altri aspetti (ad esempio, la questione delle tasse ) che pure contribuiscono a spiegare i suoi successi. La variante salviniana del neo-nazionalismo ha mostrato di avere un punto di forza e due punti di debolezza. Il punto di forza riguarda le posizioni di Salvini sull’immigrazione. Riscuote grandi consensi. È aiutato in ciò dai suoi oppositori: non solo gli oppositori politici ma anche una parte della Chiesa cattolica e degli apparati amministrativi e giudiziari. Anziché elaborare una politica dell’immigrazione diversa da quella di Salvini ma in grado di dare una risposta alle paure degli elettori che guardano a lui, i suddetti oppositori sembrano solo capaci di balbettare «accoglienza, accoglienza»: come se il Vangelo, anziché essere, per chi ci crede, il nutrimento spirituale in grado di avvicinare gli uomini a Dio e tra di loro, fosse riducibile a un testo legislativo sull’immigrazione (per giunta monco e parziale: preoccupato di tutelare quelli che arrivano e indifferente a coloro che dovrebbero accoglierli). Con oppositori così, almeno fin quando si tratta di competizione elettorale, Salvini è in una botte di ferro (anche se poi, se e quando tornerà al governo, dovrà di nuovo fronteggiare le difficoltà che ha già incontrato la sua politica dell’immigrazione). Se l’immigrazione è un punto di forza, i punti di debolezza riguardano i rapporti con l’Europa e con la Russia. Date le sue evidenti capacità non è possibile che Salvini non abbia capito che, senza cambiamenti radicali, la sua eventuale futura azione di governo si scontrerà con difficoltà e opposizioni fortissime. Non sarebbero pochi a contrastare la svolta illiberale del Paese connessa a un allentamento dei rapporti con l’Europa e a un rafforzamento di quelli con la Russia: se Salvini continuerà, come una volta dichiarò , a sentirsi più «a casa sua» a Mosca che a Bruxelles noi saremo sicuramente nei guai ma forse nei guai ci finirà anche lui. Salvini ha certamente capito che la vera ragione per cui è nato il governo Conte 2 è dovuto al fatto che i 5 Stelle andarono a Canossa (e lui no): votarono nel Parlamento europeo a favore del nuovo Presidente della Commissione. Sembra avere capito che le velleità antieuro degli sfasciacarrozze che un tempo tanto apprezzava non possono portarlo da nessuna parte. Per inciso, dato che la politica è fatta da uomini e donne in carne ed ossa, sarebbe rassicurante per tutti se Salvini, comprendendo che il solito bravo Giancarlo Giorgetti da solo non basta, si circondasse di collaboratori, per esempio economisti, non pregiudizialmente antieuropei, impegnati a cambiare ciò che non va nell’Unione ma tenendosi alla larga da quelli che vogliono distruggerla. Alcuni indizi, qua e là, hanno fatto pensare che Salvini fosse pronto a cambiare gioco. Altri indizi però dicono cose diverse. Perché Salvini, ad esempio, si congratula con Vox, il movimento di estrema destra spagnolo, per il successo elettorale? Ciò fa sospettare che egli non abbia imparato la lezione, che sia pronto a riproporre quella politica antieuropea che ha danneggiato il Paese all’epoca del primo governo Conte. Ci sono nodi, insomma, che Salvini non ha ancora sciolto. Se non lo farà, forse vincerà comunque le prossime elezioni. Ma saranno guai per tutti. Il motivo è chiaro: è l’impossibilità di essere sovranisti.

Angelo Panebianco – Corriere della Sera – 19 novembre 2019

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Giorgetti, la mossa per non governare sulle macerie

L'idea che così la Lega possa conquistare «il centro della politica». Con Conte sempre più giù e Salvini sempre più su, a un passo e mezzo da palazzo Chigi, che senso ha proporre un «tavolo» alla maggioranza sui nodi più intricati del Paese? Secondo Giorgetti ha senso, perché «non si governa sulle macerie».

Quando l’ex sottosegretario alla Presidenza si trasforma in un grillo parlante, al leader del Carroccio viene sempre istintivo prendere un martello. E così ha fatto anche stavolta, dopo aver ascoltato l’offerta pubblica di accordo avanzata ai rivali dal compagno di partito, che pure aveva precisato di muoversi «senza l’autorizzazione di Matteo». Se non fosse che anche stavolta Salvini non ha affondato il colpo, siccome riconosce a Giorgetti un’autonomia di pensiero che non mira a ledere il rapporto di lealtà con il capo. Semmai la sua visione sullo stato delle cose è funzionale all’obiettivo della Lega, per evitare di trovarsi nel prossimo futuro a dover gestire una «vittoria mutilata».

Perché «qui tutti fanno i fenomeni e nessuno si occupa del sistema nazionale», ha spiegato l’uomo che parla con Draghi: «La Fiat se n’è andata. Arcelor Mittal sta per farlo. Le imprese italiane ormai faticano persino a esportare. La grande finanza internazionale sembra volerci mollare. Lo spread sta risalendo. Fra tre mesi vanno in scadenza miliardi di obbligazioni delle più grandi aziende di Stato, e non oso pensare cosa accadrebbe se quelle obbligazioni non venissero rinnovate. Insomma, qui viene giù tutto», e il rischio in prospettiva è di vincere le elezioni mentre nel frattempo si è perso il Paese.

Ecco cosa ha indotto Giorgetti a parlare «senza essere autorizzato». L’apertura sulle riforme è stato un modo per lanciare un segnale all’esterno e anche per tenere un piede nel campo di Agramante interno, per evitare — per esempio — che la maggioranza scriva la legge elettorale con intento punitivo nei riguardi del Carroccio. «Mettere in sicurezza il sistema» è una mossa che consente di «mettere a reddito il consenso del partito», perché — proprio per la forza che oggi esprime — la Lega deve dimostrare davanti all’opinione pubblica di avere «senso di responsabilità».

Certo, Salvini se l’è legata al dito con Conte e con Di Maio, e freme per prendersi la rivincita dopo agosto. Ma nei ragionamenti di Giorgetti l’idea bipartisan di realizzare una governance non sarebbe un aiuto agli avversari, se il Carroccio avesse in quel contesto un ruolo da protagonista. In termini di posizionamento, piuttosto, «consentirebbe al nostro partito di conquistare il centro della politica». E non ci sarebbe accredito migliore — a suo giudizio — verso l’elettorato e anche verso l’establishment, che guarda al leader leghista con sospetto se non con ostilità.

Perché la tesi «tanto vinco anche l’Emilia-Romagna» potrebbe non bastare se i nodi della crisi di sistema finissero per strangolare il Paese. Ed è evidente come la situazione sia «drammatica», e che le urne — da sole — non sanerebbero i problemi. Che poi Giorgetti alla storia delle elezioni anticipate non ci crede, o meglio non ci crede fino in fondo: sì, vede Conte azzoppato, vede l’operazione dentro i Cinquestelle a fare a meno di Di Maio, vede le difficoltà del Pd e la voglia matta di Zingaretti di tornare al voto senza però intestarsi la crisi di governo: «Ma anche se il governo cascasse, e lo voglio vedere, chi può esser certo che si andrebbe alle elezioni?».

Oltre non va Giorgetti, nei suoi colloqui, se non altro per non essere tacciato di eresia: già si è spinto ai limiti con la proposta del «tavolo» sulle riforme. Però è stato chiaro nel partito quando ha accennato al tema della «centralità» politica. Conquistare tutte le regionali di qui in avanti è obiettivo ambizioso quanto utile al disegno nazionale del Carroccio, ma l’ex sottosegretario ormai è vecchio del Palazzo, e la storia è piena di macchine da guerra che si sono ingrippate a un passo e mezzo dal traguardo. Vincere è fondamentale per «rientrare a Palazzo Chigi dal portone principale», come dice Salvini. Giorgetti vuole solo evitare rischi, perché poi «sulle macerie non si governa».

Francesco Verderami – Corriere della Sera – 16 novembre 2019

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