Gli Usa impauriti si affidano a Tony Fauci

Se gli Stati Uniti riusciranno a contenere la pandemia del coronavirus, lo dovranno all'ex garzone di una farmacia di Brooklyn, nato da padre siciliano e madre napoletana, e istruito dai gesuiti. Perché Anthony Fauci, Tony per gli amici, è l'unico che ha la competenza, l'autorità e il coraggio di dire la verità al presidente Trump, cercando di spostarlo dai suoi istinti e dai suoi interessi personali verso le scelte scientificamente sensate per salvare il Paese.
Al punto che ieri, dopo aver contraddetto pubblicamente il capo della Casa Bianca in varie occasioni, si è spinto a suggerire il «lockdown» degli Stati Uniti: «È possibile che sia necessario chiudere tutto, per un paio di settimane. Ne ho parlato durante la riunione della task force guidata dal vice presidente Pence per la gestione dell'emergenza».
Tony è nato nel 1940 a Brooklyn, da una famiglia che incarna la storia dell'immigrazione italiana negli Usa. Il nonno paterno Antonino lavorava alle terme di Sciacca, mentre quello materno, Giovanni Abys, era un artista napoletano che dipingeva paesaggi. Entrambi erano arrivati passando da Ellis Island, e si erano stabiliti nella Little Italy di Manhattan. Poi si erano trasferiti nel zona di Bensonhurst a Brooklyn, dove i loro figli Stephen ed Eugenia si erano conosciuti alla scuola superiore e poi sposati, mettendo al mondo Denise e Anthony. Stephen era studioso ed era riuscito ad entrare alla Columbia University, diventando farmacista. Così aveva aperto il suo negozio all'angolo tra la 13ª Avenue e l'83ª strada. Casa e bottega, perché al piano terra c'era la farmacia, e sopra l'appartamento dove vivevano. Il padre si occupava delle medicine, la madre e la sorella della cassa, e Tony andava in bici a fare le consegne. Nel frattempo era diventato il primo della classe alla Our Lady of Guadalupe Catholic Academy, la scuola del quartiere che purtroppo a chiuso l'anno scorso per mancanza di studenti. Così si era aperto le porte della Regis High School, prestigioso liceo dei gesuiti nell'Upper East Side di Manhattan, e poi del College of the Holy Cross, università sempre gesuita che avviava allo studio della medicina, perfezionata poi a Cornell. Tony era il capitano della squadra di basket, e d'estate faceva il muratore. Ancora oggi dice che la sua ispirazione viene dal motto dei gesuiti, «to be men for others».
Durante la guerra in Vietnam aveva servito con i «Yellow Berets» dei National Institutes of Health, e il nel 1984 era diventato direttore dei National Institute of Allergy and Infectious Diseases. L'anno prima aveva conosciuto l'infermiera  mentre entrambi accudivano un paziente, e nel 1985 l'aveva sposata, facendo tre figlie.
Fauci è stato uno dei pionieri nello studio dell'Aids, diventando il leader del President's Emergency Plan For AIDS Relief. La sua carriera gli ha dato un'autorevolezza che nemmeno Trump osa sfidare. Perciò quando il presidente ha detto in conferenza stampa che gli americani contagiati dal coronavirus sarebbero presto scesi a zero, Tony lo ha corretto senza paura: «Le cose andranno molto peggio, prima di migliorare». Quando Trump ha detto che il vaccino sarebbe arrivato presto, Fauci ha spiegato che «ci vorranno tra 12 e 18 mesi prima di averlo». Dietro le quinte, è lui che ha spinto per l'emergenza nazionale, avvertendo che il modello più terrificante dei CDC, che prevede fino a 1,7 milioni di morti negli Usa, non è impossibile. Ieri ha rivolto un pensiero a noi: «Ho tanti amici in Italia, mi dispiace molto ciò che sta passando». Ma proprio per evitare che gli Usa seguano la stessa sorte, e abbassare la curva dei contagi, ha suggerito il lockdown. Donald non vuole, perché contraddice la sottovalutazione dell'epidemia andata avanti per due mesi, nel timore che comprometta la sua rielezione a novembre. Ma Tony da Brooklyn se ne frega: lo caccino pure per aver detto la verità, se hanno il coraggio. 

Paolo Mastrolilli –La Stampa – 16 marzo 2020

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