Reti essenziali e lavoratori dell’ultimo miglio

Siamo tutti comunità di cura. Seguendo le regole per aver cura di noi e dell’altro per non contaminarci. Riconosciamo ruolo e tutto il supporto possibile alla comunità che ci cura. Tante sono le donazioni e significativa l’iniziativa della fondazione Crt a sostegno della protezione civile, ma anche a supporto del tessuto del volontariato sotto stress sulla frontiera degli ultimi degli ultimi. Ma sono anche tante le lacrime da coccodrillo per un welfare che non c’è più. Stiamo prendendo coscienza che il flusso Covid-19 genera una lacerazione estrema: da una parte comprime e riduce i segni di socialità – Immunitas – dall’altra induce e porta a riscoprire senso e significato all’essere in comune – Communitas. Ci dà senso l’essere comunità larga, il riconoscersi nel personale tutto dei presidi sanitari a cui ci affidiamo, parola della cultura di genere che scardina l’individualismo proprietario, negli insegnanti che ridisegnano forme di trasmissione dei saperi formali, ma anche in saperi e lavori sociali dai contadini agli operai ai farmacisti, dai bottegai ai camionisti... che l’essere ridotti alla essenzialità del corpo ci ha reso visibili. Mi pare un Microcosmo dovuto, il rendere visibili questi invisibili. Nei giorni in cui la nostra vita nuda ci fa vedere i tanti che ci garantiscono prossimità essenziale per le medicine, per il mangiare, per la luce e il calore nelle nostre case dove siamo in autotutela. Secondo una stima dell’Istituto Di Vittorio sono nove milioni quelli che continuano a lavorare per noi tra sanità, filiere agricole, botteghe, cassiere e addetti ai banchi nei supermercati nei servizi di trasporto e nelle consegne... Tutti ci garantiscono i servizi essenziali. Microstorie di vita della comunità larga, di una società di mezzo operosa, che interrogano questioni grandi come il lavoro e le economie. Chi può si è riconvertito allo smart working. Sento un rullar di tamburi da futurologi sul lavoro che verrà. Consiglio la lettura del libro di Bernard Stiegler (La Società automatica, Meltemi) – rammentando loro che, a proposito di virus, solo pochi mesi fa eravamo preoccupati di dotare il nostro macchinario comunicativo di antivirus per salvare memoria e storytelling per il nostro fare community. Avevamo sorvolato su quel nuovo conflitto tra working poor e ingegneri della Silicon Valley bloccati nei loro pullman dai loro lavoratori domestici che ricordavano loro sventolandoli «siamo noi che vi laviamo mutande e calzini». I corpi non volano. Ce ne rendiamo conto oggi quando suona il fattorino di Amazon, quando pensiamo alle filiere agroalimentari in fila distanziata al supermercato, o riscopriamo il negozio di vicinato o nei piccoli comuni. Lungi da me qualsiasi tentazione nostalgica da comunità che non è più. Mi limito a dire che mai come oggi nella iper modernità dei flussi, a proposito dei lavori, auspico un sindacato in grado di rappresentare e negoziare sia la potenza della tecnica che di fare sindacato di comunità che viene nella iper modernità. Un sindacato che si ponga il tema della tutela dei corpi di chi prepara la merce di chi la consegna e di chi è al lavoro nell’emergenza. Già nel Novecento il tema della salute in fabbrica e sul territorio era nel Dna delle rappresentanze. Ricordiamoci dei lavori di Medicina democratica e della rivista «Sapere», temi più che attuali in tempi di Covid-19 con la cesura tra ciò che era e il cosa sarà. Che inducono, partendo dalle piccole storie di civiltà quotidiana, a ragionare anche sui grandi temi della nostra civiltà materiale. A proposito di innovazione appare il tema del capitalismo della Rete che ci permette, vivaddio, lo smart working e il comunicare ben oltre la prossimità. Ricordiamoci che produce anche per tanti non garantiti sospesi tra professionismo e precarietà – Lavoro apolide – come titola il libro di Renata Semenza e Anna Mori (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli) e ricordiamoci anche la questione delle partite Iva ai tempi di Covid-19. Innovazione che riguarda il capitalismo delle Reti hard della logistica che mette al lavoro camionisti, padroncini di furgoni e fantasmi in bicicletta... Sono i lavoratori dell’ultimo miglio, per cui guardiamo preoccupati le file di camion nei porti e alle frontiere, temendo che non arrivino medicine e prodotti agricoli, a proposito dell’essenziale. In mezzo, tra la rete soft e le reti hard, ci sta il capitalismo manifatturiero delle fabbriche e delle fabbrichette del lavoro operaio e del capitalismo molecolare. Lo conosciamo bene abituati a fare mappe dello sviluppo territoriale, dalle lunghe derive della mezzadria che si sovrappone a quella dei distretti a quelle delle piattaforme, aggiungendo quelle dell’inquinamento, sino a quelle dell’oggi della geografia del male segnato in rosso da Covid 19... Tematiche che interrogano il modello di sviluppo da porre e porci quando riprenderemo a camminare per territori.

Aldo Bonomi – Il Sole 24 Ore – 24 marzo 2020

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Il «populismo industriale» e i suoi effetti negativi

Il disagio che si registra in molte democrazia occidentali — che si traduce politicamente nella crescita dei movimenti populisti — è il sintomo delle difficoltà che le società contemporanee stanno incontrando nell’adeguarsi ai mutamenti del modello produttivo.

Veniamo da una stagione — efficacemente descritta da Bernard Stiegler col termine di «populismo industriale» — dove i consumi hanno progressivamente messo da parte la centralità del lavoro: nella sua dimensione economica (con la riduzione della quota di valore aggiunto distribuito al lavoro); professionale (con l’instabilità e la precarizzazione diffusa) e esistenziale (con la fine, salvo che per pochi fortunati, della capacità del lavoro di essere luogo privilegiato di realizzazione e partecipazione).

La frattura del 2008 sta determinando un aggiustamento profondo che si produce lungo due principali direttrici. Dietro la spinta di una digitalizzazione che diventa sempre più capillare e profonda, si accentua il contenuto cognitivo di molte attività lavorative. Il panorama delle professioni sta cambiando e mentre alcune spariscono, altre ne nascono. Con un differenziale importante in termini di competenze (digitali ma non solo). Un processo destinato a cambiare in profondità il modo di lavorare. Perché — come mostra una recente ricerca del Mckinsey Global Institute — se è vero che solo una quota limitata di lavori sarà completamente sostituita, oltre il 60% delle attuali attività professionali è destinato a subire profonde trasformazioni. La seconda direttrice è l’impatto territoriale del mutamento in corso. I nuovi lavori a più alta competenza si concentrano nelle aree metropolitane e comunque nelle regioni a elevata integrazione funzionale. Ciò concretamente significa che mentre alcune aree crescono (in Italia Milano e buona parte, anche se non tutto il Nord), altre declinano, rischiando in alcuni casi una vera e propria desertificazione economica. L’aggiustamento al nuovo modello economico sta producendo dei vincitori (persone a medio e alta qualificazione per lo più nelle grandi città) e dei perdenti (occupati dequalificati e precari per lo più concentrati nelle periferie e nelle città di provincia). Con l’inevitabile conseguenza della crescita di forti sentimenti reattivi, come mostra con evidenza la geografia dei recenti andamenti elettorali di numerosi paesi avanzati.

L’Italia soffre in maniera particolare questa trasformazione perché ha vissuto nel modo più becero la fase del populismo industriale. In primo lupo, paghiamo il ritardo accumulato dal punto di vista della formazione, sia a livello tecnico che universitario. La qualità — umana e non solo professionale — della persone oggi è un fattore indispensabile per poter sperare di prendere parte ai processi economici del XXI secolo. In secondo luogo, il Paese soffre della mai risolta questione territoriale. Oggi la penisola ê più disgregata di 30 anni fa. E i problemi non toccano solo il sud, dove la situazione era e rimane molto grave; ma anche le tante zone interne e le moltissime città di provincia che non riescono a entrare nei circuiti della crescita. In terzo, luogo, quella italiana rimane una economia basata su una fitta rete di piccole e medie imprese, vero punto di forza della nostra economia. Il problema è che, a fianco dei campioni del Made in Italy — che il mondo intero ci invidia — sono ancora troppe le realtà che si limitano ad una strategia di mera sopravvivenza, con scarsa innovazione e pochi investimenti. Dove il lavoro dequalificato, instabile e in nero — insieme all’evasione — permette di galleggiare senza però nessuna prospettiva di futuro. Un modello basato sullo sfruttamento (anche ambientale) che l’arrivo dei 5 milioni di migranti oggi residenti nel nostro paese (vero e proprio esercito industriale di riserva) ha favorito.

L’aggiustamento alle nuove condizioni della concorrenza è difficile ovunque. Rimane il che sia possibile associare tutti i gruppi sociali e tutti i territori al nuovo modello economico. Un obiettivo che richiederebbe politiche coraggiose e lungimiranti che si scontrano però con gli interessi di breve termine, le resistenze sociali, le fatiche e la rabbia di buona parte della popolazione. Persino laddove ci sono condizioni più favorevoli, le difficoltà sono evidenti.

È chiaro allora perché per l’italia si tratta di anni particolarmente delicati. Siamo in ritardo e soprattutto siamo presi da un fatalismo depressivo che trova nel blocco demografico il punto di caduta più grave. Uscire da questa spirale negativa non è facile. Per riuscirci occorre una nuova classe dirigente (non solo politica, ma anche industriale, culturale, sindacale...) capace di dire con franchezza a tutto il paese (vincitori e vinti insieme) che nessuno si salva da solo.

Il nuovo modello di sviluppo che, pur tra mille contraddizioni, sta nelle pieghe della trasformazione in corso (delineato di recente anche da «il manifesto di Assisi»), si porta dietro una potenzialità importante: un’economia più avanzata ha bisogno di una società più integrata. Ad oggi, ciò si verifica solo per alcuni e in alcuni luoghi. Il problema è far sì che accada ovunque e per tutti. La via per battere il populismo politico è lasciarsi alle spalle il populismo industriale, mettendo al centro il lavoro e la qualità delle persone e dei territori.

Mauro Magatti – Corriere della Sera – 29 gennaio 2020

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