Adesso è indispensabile che il Paese sia unito

Il Covid-19 come la crisi del ’29? A furia di evocarli, i fatidici Anni Trenta sono davvero arrivati. Il mondo sta entrando in una depressione così globale che può essere paragonata solo a quella che fece seguito al crollo di Wall Street. Siccome allora finì con i fascismi in Europa e la guerra nel mondo, è diventato più che lecito chiedersi se stavolta il genere umano si rivelerà più saggio, se la libertà gli è diventata nel frattempo più cara. Il combinato disposto di debito e disoccupazione di massa che si prepara ci induce purtroppo al pessimismo della ragione. Se Keynes fosse vivo, probabilmente scriverebbe sulle conseguenze economiche dell’epidemia. I popoli, quasi tutti, il nostro di certo, hanno in passato già dimostrato di essere pronti a scambiare libertà per benessere, soprattutto quando sono disperati. Ma ci sono altri tre elementi che si aggiungono a peggiorare le cose. Il primo è il nazionalismo. Concepire la nazione come un organismo vivente fu l’idea sulla quale nacque. E quale migliore occasione per rinverdire la metafora organicistica, se non una crisi in cui è in gioco la salute della gente? Il protezionismo sanitario che abbiamo visto all’opera, con i Paesi che si sottraevano l’un altro risorse limitate come le mascherine o i tamponi, lascia presagire di peggio sul piano dell’economia. Le frontiere in Europa resteranno chiuse? Si tornerà mai a Schengen? Riprenderanno mai a circolare liberamente i capitali, facendosi largo nella selva di golden power nazionali? Quali nuovi confini saprà costruire la tecnologia? Il nazionalismo, per definizione, porta guerra. Magari solo commerciale, magari solo digitale. Ma di certo non sarà un pranzo di gala. Il secondo elemento è lo statalismo. Lo Stato già oggi ci appare come l’unico potere in grado di difenderci da un virus. Rapidamente diventerà anche l’unico santo a cui votarsi per la ripresa. Lo Stato liberale, nella sua accezione «negativa», e cioè di mero garante giuridico delle libertà, subirà la concorrenza difficile da battere di un’idea «attiva» dello Stato, erogatore di servizi e di sussidi, dispensatore di benessere. Mussolini inventò l’Iri per rispondere alla crisi degli Anni Trenta; Patuanelli, si parva licet, vuole inventarsi una «nuova Iri» per rispondere alla crisi del coronavirus. Avendo visto i nostri aerei riportare in patria gli italiani bloccati nel mondo, saremo tutti più tolleranti verso l’idea di finanziare col denaro pubblico una compagnia di bandiera. Perfino il Papa chiede un reddito universale. L’illusione che ci sia una cassaforte segreta a Bruxelles o a Francoforte, dalla quale potremmo attingere se solo i nostri governanti sapessero battere bene i pugni sul tavolo, si impadronirà anche di persone solitamente ragionevoli. Uno Stato-baby sitter che ci accompagni dalla culla alla bara, possibilmente il più tardi possibile. Il terzo elemento è l’anti parlamentarismo. Diciamo la verità: i parlamenti in Europa sono di fatto chiusi. Quello ungherese si è suicidato consentendo a Orbàn di chiuderlo anche formalmente a sua discrezione. In Polonia Kaczynski vuole eleggere il capo dello Stato in piena epidemia col voto per corrispondenza e i comizi proibiti per motivi sanitari. L’idea che i parlamenti siano inutili, e che si possa governare con decreti, ordinanze, commissari, app, consessi di scienziati, task force di esperti, che la politica non debba più essere mediazione e costruzione del consenso, si sta pericolosamente e rapidamente diffondendo. Se questi sono i rischi che corre la democrazia dopo questo shock, quali possono essere gli antidoti? Credo che il migliore sia l’unità nazionale. Non intendo qui una formula di governo, anche se questa ne potrebbe derivare quando ce ne fossero le condizioni (qui non bastano venti/trenta «responsabili», ma mille). Mi riferisco piuttosto all’incessante sforzo di non dividere la comunità e di condividere sacrifici e cambiamenti. Un Paese più uguale socialmente, che riduca il gap tra ricchi e poveri, per esempio, sarebbe più unito, e dunque meno pronto a correre avventure politiche. Un Paese più territorialmente coeso, non questo patchwork di ordinanze e protezionismi regionali che stiamo vedendo, questa nuova divisione tra Nord e Sud, sarebbe certamente più unito, e questo disarmerebbe chi spera di consumare regolamenti di conti elettorali sulle bare delle vittime. Un Paese in cui tutte le istituzioni, a cominciare dal governo, cerchino certosinamente ogni giorno il dialogo e la condivisione delle scelte, molto più di quanto non avvenga adesso, sarebbe più unito e meno esposto alla carica dei demagoghi. Non si può reggere due anni così, nel litigio continuo, tendendosi reciprocamente trappole e sperando di vederci cadere il nemico. A chi conviene del resto ereditare un disastro? In futuro non si potrà affrontare nessuna grande scelta, che si tratti di un prestito o di un investimento, di indebitarsi con i mercati o con gli italiani, se metà della politica è pronta a sparare senza scrupoli sull’altra metà. Un Paese più unito nel rapporto con l’Europa e più unito nel rapporto con i suoi partner in Europa, avrebbe più possibilità di non rinchiudersi in un nazionalismo pernicioso sempre, ma disastroso quando lo praticano i vasi di coccio, come la Storia ci ha ampiamente insegnato. L’ordine dei fattori nella triade dei valori della rivoluzione francese uscirà scompaginato dal coronavirus. Per salvare la libertà, stavolta avremo bisogno di partire dalla fratellanza.

Antonio Polito – Corriere della Sera – 21 aprile 2020

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Sette donne per i sette Paesi più sani

  • Pubblicato in Esteri

I Paesi che hanno resistito meglio al coronavirus hanno una cosa in comune: sono governati da donne. Le magnifiche sette. Quattro sono i soliti nordici, che fanno sempre tutto bene, Islanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca; quindi poca sorpresa. Due sono piccoli, Taiwan e Nuova Zelanda, però entrambi pericolosamente vicini all’epicentro delle pandemia, e hanno colpito il mondo per come se la sono cavata. Nell’isola cinese presieduta da Tsai Ing-wen i morti sono finora sei, le 124 misure adottate tempestivamente hanno evitato il lockdown totale, e ora esportano mascherine in tutto il mondo. Nello Stato oceanico di Jacinda Ardern frontiere chiuse e quarantena per chi rientrava fin da quando si registravano appena sei casi in tutto il Paese: i morti finora sono nove. Ma la Germania non è né piccola né esotica, e la sua eccellente performance ancora si fa fatica a spiegarsela. Un misto di serietà, organizzazione e grandi risorse disponibili, che certo non si deve solo ad Angela Merkel, ma risale al sistema di assicurazioni obbligatorie contro le malattie fondato nel 1883 da Bismarck e poi riformato da Schröder con l’agenda 2020. Si può anzi dire che il tradizionale modello mutualistico tedesco ha avuto la meglio sui sistemi universali finanziati dalla fiscalità generale di tipo britannico (il glorioso Nhs) e italiano (il più recente Ssn). Affianco a una disponibilità di letti in terapia intensiva senza uguali in Europa, ha funzionato la rete dei poliambulatori sul territorio detti Mvz, saliti in pochi anni da 1.500 a 3.173, forse il vero tallone d’achille della sanità lombarda. Ma la Merkel ci ha messo del suo, con prudenza e decisione, non ha fatto il Bojo, ha invitato subito la gente a prendere la cosa sul serio, scavalcando così la lunga fase di negazionismo e incertezza altrove fatale. Non basta certo avere una donna al comando per far meglio. Il Belgio, per esempio, è uno dei Paesi più duramente colpiti, con quasi 4.500 morti, nonostante abbia chiamato Sophie Wilmes a guidare un governo d’emergenza anti-coronavirus. Non si può dire che i Paesi diventano migliori se sono diretti da donne. Ma forse si può dire che sono diretti da donne perché sono Paesi migliori, e hanno sistemi di selezione più aperti ed egualitari. Se davvero ci avviamo a una depressione stile Anni ‘30, mi sentirei più tranquillo con una leadership al femminile: nella lista dei tiranni del Novecento non c’è neanche una donna.

Antonio Polito – Corriere della Sera – 16 aprile 2020

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Come tornera' il mondo aperto

La democrazia è una storia di assembramenti. Nell’Europa moderna comincia quando in Francia i rappresentanti del Terzo Stato decidono di riunirsi da soli e si proclamano Assemblea nazionale. La parola «assemblea» viene dal verbo «assembler», che vuol dire «riunire», «assembrare». Da allora i Parlamenti si radunano fisicamente per discutere e deliberare. Non meno rilievo nella storia della democrazia, e di certo non in quella che iniziò con la Rivoluzione francese, hanno avuto le «piazze», altro luogo di assembramento per eccellenza, tanto che ormai si dice «piazza» per dire «popolo», con una figura retorica che identifica il contenitore per il contenuto. E perfino gli ultimi arrivati evocano «meet up» e «flash mob» come strumenti della democrazia diretta, dove «mob» sta per «folla» e «meet» per «incontro». Come può allora la democrazia convivere con l’isolamento e sopravvivere alla dispersione degli assembramenti, compreso quello che si realizza nelle sedute parlamentari? Per quanto questo problema non appaia oggi di impellente urgenza, visto che ne abbiamo di ben altri, non si può sottovalutarlo; perché contiene un veleno a rilascio lento che può intossicare a lungo la vita pubblica della nazione, e non solo della nostra, conducendo la già debole democrazia parlamentare a una nuova e cocente sconfitta.

Mai come oggi, agli occhi del popolo, il Parlamento può infatti sembrare inutile. Che senso ha discutere le decisioni del governo, visto che sono guidate dalla comunità scientifica, e dunque per definizione inconfutabili dai profani? Infatti la gran parte delle misure fin qui prese hanno assunto la forma del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm), che non richiede l’approvazione delle Camere né la sua conversione in legge. Ne avrà bisogno invece il decreto «Cura Italia», contenente le misure economiche, visto che è un tradizionale decreto legge. Ma in quel caso, che si farà? Votare a distanza è la negazione della funzione del Parlamento, il quale, come dice la parola stessa, serve a parlare, discutere, dibattere, emendare, in un gioco dialettico che forma maggioranza e opposizioni, e obbliga chi governa ad ascoltare il dissenso, utile e legittimo anche nelle emergenze quando non è tattica ostruzionistica. D’altra parte far sedere i parlamentari uno a fianco all’altro rappresenterebbe certamente una contraddizione di ciò che le autorità non si stancano di ripetere ai cittadini, e cioè di tenere almeno un metro di distanza. Ma la «riunione» delle Camere, oltre che per la continuità dello Stato richiamata da Sabino Cassese su questo giornale, è essenziale anche per la sua forza simbolica: vuol dire che il «demos» resta il sovrano, e anzi che un «demos» esiste ancora e non è stato frantumato in una miriade di monadi confinate nelle loro abitazioni, che la democrazia non è una «chat». Si potrebbe anzi dire che più il popolo è costretto a casa e più il Parlamento, composto dai suoi rappresentanti, dovrebbe mettersi al centro della vita nazionale. Nel mio mondo ideale, si dovrebbe riunire ogni giorno, non fosse altro che per commemorare i morti, elevare una preghiera e cantare l’inno nazionale. Come si può allora far funzionare la democrazia parlamentare in tempi di quarantena? I mezzi fisici si possono trovare. Il senatore Quagliariello ha proposto di reperire a Roma uno stabile adeguato, sanificarlo e adibirlo a sede delle Camere, in modo da poter rispettare le distanze tra deputati e senatori, magari muniti di mascherina e guanti. Quando nacque l’Italia, 159 anni fa, l’aula del Parlamento del Regno divenne all’improvviso troppo piccola per ospitare tutti i deputati e così si costruì una sede d’emergenza nel cortile di Palazzo Carignano. Quando i terremoti hanno abbattuto gli edifici in Abruzzo, i consigli comunali si sono riuniti anche nelle palestre e perfino sotto i capannoni. Non sembra insomma impossibile trovare una soluzione tecnica, se ci si sbriga. Ma bisogna prima trovare i mezzi morali, la consapevolezza del ruolo e della funzione degli eletti del popolo, i quali per primi dovrebbero protestare contro la loro assenza dalla scena dell’emergenza nazionale.

Il rischio di una prolungata inazione della democrazia parlamentare sarebbe infatti quello di mitridatizzare un Paese sempre più indifferente e insofferente verso questa forma di governo che, pur essendo pessima, resta la migliore finora conosciuta. I «facciamo come in Cina», il modello di autocrazia asiatica che l’epidemia ha rilanciato nell’opinione pubblica italiana e occidentale; la seduzione di un governo degli esperti che decida per decreto e in stato di emergenza; la possibilità concreta di controllare e guidare da lontano la vita anche privata dei cittadini che le nuove tecnologie garantiscono a chi è al comando, sono virus certo meno letali del Covid 19, ma che una volta inoculati nel tessuto della nazione potrebbero sfinirne la forza morale e il senso civico. In queste giornate eccezionali dobbiamo evitare, tra i tanti, anche il rischio di invaghirci di questo stato di eccezione, come se fosse comunque migliore della confusione e della polemica che le democrazie sempre portano con sé, e quasi rivelasse la tendenza a un’unità mistica del popolo che non ha più bisogno di dialettica politica, perché anche questo è «populismo». Anzi: ci potremmo dire completamente guariti solo quando la vitalità caotica della società aperta sarà tornata tra noi.

Antonio Polito – Corriere della Sera – 22 marzo 2020

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