Siamo arrivati al punto di liquidare ciò che dice la letteratura quando ci disturba

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“The Waste Land”, autore l’americano Thomas Stearns Eliot, è il testo poetico non dico più bello, ma certo il più famoso, influente, rivelatore del Novecento. Uscì nel 1922, circa un secolo fa, e il suo titolo tematico, “La terra desolata”, era così scandalosamente ammonitore, profetico e sintomatico perfino nella sua ovvietà, che diventò subito un mito irrinunciabile nell’interpretazione che il XX secolo dava e avrebbe continuato a dare di se stesso. Naturalmente la fama del poemetto e gli studi che sono stati dedicati alla sua interpretazione hanno finito per neutralizzarne, per disinnescarne l’esplosiva energia, insieme visionaria e critica. Eliot era e sarebbe sempre più diventato anche uno dei tre o quattro maggiori critici letterari internazionalmente noti del suo secolo (nel presente secolo dov’è la critica?). Parlando della realtà di primo Novecento come di una “terra desolata”, Eliot inventò la forma più adeguata a esprimerla. La guerra del 1914-’18, la rivoluzione russa del 1917, il flagello battezzato allora influenza “spagnola”, avevano trasformato il mondo in un luogo spaventosamente desertificato e caotico, sia angoscioso che ridicolo, in cui la cultura e i suoi conforti si erano ridotti a un mucchio di frantumi e di rovine. Da tempo l’accademizzazione della critica letteraria e degli studi umanistici hanno creato intorno al poemetto di Eliot un cordone sanitario che ci immunizza dalle sue radiazioni. C’è ancora qualcuno che prenda sul serio “La terra desolata”? Siamo arrivati al punto di riderci sopra e liquidare con scetticismo da persone mature quello che dice la letteratura quando ci disturba, anche la letteratura più famosa e canonizzata, o soprattutto quella. Tanto per sostare un momento in territorio Benjamin-Adorno, si potrebbe dire che la cultura come amministrazione si è data proprio questo compito: neutralizzare il “contenuto di verità” delle opere d’arte. Costringiamo i nostri figli a studiarle, quelle opere, per superare gli esami, per guadagnarsi dei titoli professionali e fare buona figura in società. Ma guai a crederci, non serve e non sta bene. Il “vero studioso” non si lascia turbare da quello che studia: la sua corazza professionale è anche una corazza caratteriale, fatta apposta per evitargli il contagio psicomentale che può venire dai libri dei poeti, dei romanzieri, dei filosofi, tutta gente che concede troppo ai sogni, alle fantasie e alle speculazioni teoretiche prive di scopi pratici. Negli ambienti politico-giornalistici la letteratura incontra difficoltà di ascolto diverse ma non minori: resta qualcosa di ornamentale e di strumentale, tutt’al più una risorsa retorica da usare a sostegno delle idee che sono al momento politicamente più utili. Quando per esempio uno Scalfari, principe del giornalismo politico, ci dice che ha letto Proust, non importa sapere se è vero, basta capire che ha, per dirlo, ragioni che non hanno niente a che fare con quello che c’è scritto nella “Recherche”. La mentalità dello studioso e quella del politico in questo si somigliano: non accetterebbero mai di essere trascinati da un’opera letteraria o filosofica oltre i ragionevoli confini del loro mestiere. Tanto per usare concetti assai tradizionali ma anche inevitabili, direi che dalla “bellezza” delle opere d’arte bisogna farsi sedurre e magnetizzare se si vuole essere anche contagiati seriamente dalla loro “verità”. Nel caso di un poemetto arduo come “La terra desolata”, sarebbe il caso di presentarsi alla sua lettura disarmati e spogli di preconcetti, di idee e convinzioni dal cui possesso ci si sente del tutto appagati. Questo perché, credo, anche se ci si mette a cercare una cosa, è bene essere disposti a trovarne inaspettatamente un’altra e a cambiare punto di vista. Gli uomini di scienza e ogni vero ricercatore sanno fare questo. In effetti non sono il primo a notare che il poemetto di Eliot oggi attira subito l’attenzione. Si apre con una sezione intitolata “La sepoltura dei morti” e i suoi primi versi suonano così: “Aprile è il mese più crudele, genera / Lillà dalla terra morta, confondendo / memoria e desiderio (…)”. In questa prima sezione, alla quale di solito ci si ferma, si succedono e si mescolano molte cose. La crudeltà della natura primaverile che rinasce dalla morte invernale e crea un subbuglio cieco e inatteso. Segue un breve dialogo, un po’ frivolo e un po’ snob, fra due ignoti personaggi. Ma al primo stacco il tono cambia e si entra bruscamente in un’atmosfera da profetismo biblico. Noi umani non vediamo altro che “un cumulo di immagini infrante, dove batte il sole” e la nostra ombra che al mattino ci segue e la sera ci viene incontro. La verità che ci verrà mostrata è altra. La voce solennemente anonima annuncia: “In una manciata di polvere vi mostrerò lo sgomento”. Altro stacco: e fra due citazioni in tedesco dal “Tristano” di Wagner, compare il poco decifrabile resoconto di un infelice incontro amoroso. Ancora uno stacco ed entra in scena una certa “madame Sosostris” che illude e truffa la gente con il suo malefico mazzo di Tarocchi. Ma ecco l’esito della prima sezione: “Città irreale, / Sotto la nebbia buia di un’alba d’inverno, / Una folla fluiva sul London Bridge, così tanta / Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta ne avesse disfatta”. Qui Eliot echeggia sia Baudelaire che Dante per introdurre un dialogo grottesco e agghiacciante fra un individuo di oggi e uno che gli fu compagno nella battaglia navale di Milazzo fra romani e cartaginesi, nel terzo secolo avanti Cristo, al quale così si rivolge beffardamente: “Quel cadavere che l’anno scorso hai piantato in giardino, / Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno? (…)”. Ma lo choc arriva qualche verso dopo, quando la sezione si conclude in francese con lo stesso verso con cui nei “Fiori del male” Baudelaire aveva concluso il suo prologo: “Tu, ipocrita lettore! – mio simile, – fratello mio!”. Forse in un nostro giardino quale che sia abbiamo sepolto anche noi qualcosa. Siamo invitati a cercare e riconoscere quale comune ipocrisia ci scambiamo da secoli… Ma non fateci caso, è solo una poesia.

Alfonso Berardinelli – Il Foglio - 17 aprile 2020

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Basta con gli psicospecialisti da megafono che ci danno colpetti sulla spalla

La psicanalisi è la malattia che crede di curare. Questa frase non l’ho inventata io, è di Karl Kraus e come spesso succede a questo scrittore è ritenuta ingiusta, esagerata, sbagliata. Si può in parte concordare con chi critica la critica che Kraus rivolgeva a una delle discipline, delle teorie, delle pratiche culturali che nel secolo scorso hanno avuto più successo. Partendo dalla Vienna capitale austroungarica, la psicanalisi arrivò perfino negli Stati Uniti e li ha quasi conquistati: dico per prudenza “quasi” perché l’autocoscienza fiera e salda dell’uomo americano non è stata in generale molto scossa dalla scienza dell’inconscio. Kraus colpì fulmineamente la psicanalisi al suo nascere: non ne aveva ancora sotto gli occhi l’espansione e gli effetti sull’intera cultura occidentale, alta, media e infine anche bassa. Colpiva la psicanalisi e la liquidava quando era ancora nelle mani del suo grande creatore Sigmund Freud, con la cui intelligenza e genialità scientifica Kraus fu certo ingiusto. Stando al suo giudizio, infatti, Freud sarebbe stato il più nevrotico di tutti, non in quanto signor Freud, ma in quanto dottor Freud, in quanto scienziato, teorico, terapeuta. Già, Kraus esagera sempre. Riconobbe lui stesso che le sue verità aforistiche erano o una mezza verità o una verità e mezza. In questo caso, come in parecchi altri, Kraus era sia piuttosto ingiusto che piuttosto preveggente. E’ stato detto da molti che in lui convivevano il dandy e il profeta biblico. Mi viene in mente questo in questi giorni, quando fra tv e radio le voci di psicanalisti, psicologi, psicoterapeuti di vario tipo si fanno sentire. Qualunque cosa dicano, ne dicono e vogliono dirne soprattutto una, ci consigliano, ci prescrivono con paternale, istituzionale competenza che dobbiamo reagire allo stato di pandemia evitando emozioni, stati d’animo e pensieri sbagliati, negativi, pericolosi, nocivi a noi stessi e agli altri. Sembra che loro sappiano qual è la condizione interiore normale o meglio giusta in una situazione anormale e spaventosa. Lo sanno? Come fanno a saperlo? Certo, hanno studiato molti casi clinici. Ma tutti abbiamo più o meno studiato e ognuno di noi è anche un caso clinico almeno parzialmente consapevole. Quando si fa un’esperienza nuova e sorprendentemente negativa è bene, secondo loro, sapere in anticipo come viverla nel modo più corretto, più sano, più utile. Ma che cos’è un’esperienza, che cosa sono le esperienze reali? Non sono forse proprio ciò che non ci aspettavamo di vivere e non avevamo già imparato come vivere? E’ nevrotico il senso di colpa di chi non ha colpa, non quello di chi ne ha. E’ nevrotica la paura di chi teme pericoli oscuri, indefiniti, irreali, non la paura di cose che fanno paura, una paura ovvia a chiunque. E’ facile ragionare così, direte voi, ma c’è gente che ha bisogno di aiuto, conforto, incoraggiamento. Certo. Ma bisogna vedere con che argomenti. L’argomento patriottico mi sembra penoso: “Dimostriamo di essere un grande paese, dimostriamo di essere un modello per gli altri”. Anche quella brava persona del presidente Mattarella, un miracolo di decenza pubblica, si è lasciato credere che la fierezza di avere una nazionalità invece che un’altra generi un incremento di moralità e di coraggio. Ma non siamo in guerra o in competizione con altre nazioni, siamo in lotta con una minaccia naturale all’intero genere umano. La fierezza di cui possiamo avere bisogno in questo momento è più universale e riguarda l’animale culturale umano, in tutte le sue straordinarie varianti continentali (certo, come europei “uniti” non possiamo essere fieri di una unità di cui siamo incapaci). Torno al punto, gli specialisti della psiche o anima. Quello che Kraus affermava quando si trovò di fronte il più potente dei rivali nella critica della civiltà, Freud e allievi, era una reazione come sempre paradossale e fulminea: vedeva troppo in anticipo gli effetti futuri di una causa presente, il possibile declino culturale che sembrava implicito in quella nuovissima scienza dell’uomo. E Kraus alle scienze dell’uomo non credeva: per lui, oltre Shakespeare non si era mai andati. Gli allievi di Freud, allora, erano però di poco meno geniali di lui: Alfred Adler, Carl G. Jung, Sándor Ferenczi, Wilhelm Reich, Theodor Reik, Karl Abraham, Franz Alexander… Inoltre Freud era un lettore regolare di Kraus, il quale però non sopportava soprattutto una cosa, che si applicasse la psicanalisi agli scrittori e alle opere letterarie. Ma oggi? Non sono pochi gli psicanalisti, gli psicologi che sembrano culturalmente delle caricature. Devo fare nomi? No, non li faccio. Nessuno è più permaloso di uno psicospecialista. Sono spesso dei seduttori abituati a non essere contraddetti, dato che considerano la psiche di chiunque altro una cosa di loro competenza. Quella che circola nei media di massa è perciò una psicanalisi che oscilla fra l’esoterico per pochi eletti (la matrice è Lacan) e il “costruttivo” (nato dal trapianto di Freud in America). In tempi di pandemia non può che dominare il “costruttivo”. E quando si deve incoraggiare un’intera popolazione, bisogna semplificare. Quando però si semplifica e si psicologizza a distanza senza avere di fronte casi singoli, la banalità è fatale, anzi sembra d’obbligo. E’ così che gli psicospecialisti da megafono ci trattano tutti da spiriti fragili a cui dare dei colpetti sulla spalla, come se di fronte al numero di bare che escono dagli ospedali non si dovesse mai smettere di “pensare positivo”. Credo che invece vada difesa la libertà di pensiero e di stato d’animo. Altro che psicologia, per pensare positivo bisogna credere che la cosa più reale in noi sia l’anima immortale.

Alfonso Berardinelli – Il Foglio – 8 aprile 2020

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