“L’Olanda deve cambiare: basta elusione fiscale”

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Parla Paul Tang, l'eurodeputato socialista dei Paesi Bassi: “Penso che alla fine si troverà un accordo per creare debito pubblico europeo. D’altra parte sta già succedendo: il governo olandese ha detto ok allo schema Sure per la disoccupazione e a quello della Bei per i prestiti alle imprese. Non sono molti soldi, ma sono già una forma di eurobond anche se da noi nessuno li chiama ancora così”. Paul Tang è un europarlamentare olandese, fa parte del gruppo dei socialdemocratici. Economista, membro della Commissione affari monetari a Bruxelles, è uno dei pochissimi politici ad aver definito da tempo il suo Paese un paradiso fiscale.

- Perché l'Olanda è il Paese più schierato contro qualsiasi forma di debito comune?

Uno degli argomenti più discussi da noi adesso è che lavoriamo di più: andiamo in pensione a 67 anni mentre in Paesi come Francia o Italia ci si va molto prima. Non è vero, ma è quello che molti miei concittadini pensano. Gli olandesi amano le regole perché sono uguali per tutti e si arrabbiano nel vedere che ad esempio quelle di bilancio europee – che secondo me sono assurde – non vengono rispettate. Da qui nasce la sensazione di essere trattati peggio degli altri dall’Ue. A livello politico, questo si traduce in una situazione molto simile a quella italiana.

- Cioè?

Il governo italiano tiene sempre un occhio su Matteo Salvini. In Olanda il governo sta sempre attento ai partiti di Geert Wilders e Thierry rry Baudet. Sono nazionalisti, totalmente contro la condivisione del debito pubblico. Insieme hanno il 20% dei consensi. Il governo di Mark Rutte, che è una coalizione di centrodestra, ascolta queste istanze per non dare loro troppa forza.

- Secondo lei fa bene Rutte? Secondo me l’argomento da usare con queste persone non è quello della solidarietà, ma quello dell’interesse. Romano Prodi qualche giorno fa ha detto: senza Ue l’Olanda a chi venderà i suoi tulipani? È un’esagerazione, ma è vero: lo dobbiamo fare per noi stessi. Il governo italiano dovrebbe prendere in prestito i soldi dal Mes?

I soldi del Mes usati per l’emergenza sanitaria non comportano condizioni, ma capisco i timori del governo italiano per il significato simbolico che avrebbe un prestito dal Mes. Io credo che l’Italia dovrebbe farlo e continuare a spingere per una maggiore condivisione degli oneri nell’Ue, che sia con gli eurobond, il Recovery Fund o altro.

Fa bene Giuseppe Conte a definire l’Olanda un paradiso fiscale?

Io lo dico da anni e gradualmente sta aumentando la consapevolezza tra gli olandesi. È vero però che molti non vogliono ammettere che da noi c’è un’industria dell’elusione fiscale. Agli olandesi piace avere questa immagine di popolo preciso, rigoroso, che paga le tasse: difficile ammettere che aiutiamo le multinazionali a non pagarle.

- Il governo Rutte sta facendo qualcosa di concreto per cambiare le cose? Ha annunciato una norma interna per risolvere il problema della società di comodo, secondo me buona, ma a livello europeo si oppone sempre alle riforme per bloccare la concorrenza fiscale. Questo è il problema principale: è disposto a fare delle modifiche, ma non vuole cambiare il sistema. Forse perché alla fine l'Olanda perderebbe molti soldi?

Il paradosso è che l’Olanda non beneficia granché di tutto questo, se non per il fatto di avere una piccola industria fatta di consulenti fiscali preparatissimi. In realtà quasi tutti i soldi attirati qui dalle varie esenzioni fiscali passano per l’Olanda e poi finiscono alle Bermuda o alle Cayman.

- Basta un solo Paese che dica no per fermare qualsiasi riforma fiscale in Ue: questo blocca il cambiamento?

La regola dell’unanimità rende tutto molto difficile, ma ci sono sempre più persone arrabbiate, a sinistra ma anche a destra, perché vedono che multinazionali e super ricchi pagano meno tasse di loro. Con la crisi innescata dal Covid avremo un aumento dei debiti pubblici, quindi ci sarà bisogno di maggiore gettito fiscale e dall’elusione si possono recuperare molti miliardi. La questione dei paradisi fiscali presto sarà in cima all’agenda Ue.

Stefano Vergine – il Fatto Quotidiano – 24 aprile 2020

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Un errore voler fare da soli

Ciò di cui l’Italia oggi ha più bisogno è tantissima liquidità. Tanta quanta ne serve per chiudere il buco aperto da una caduta del reddito che, alla fine dell’anno, varrà, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, oltre 150 miliardi di euro. Serve liquidità affinché chi non può lavorare non perda il suo reddito e quindi possa continuare a consumare: se così non accadesse, agli effetti del lockdown sulla produzione si sommerebbe una straordinaria contrazione della domanda. E serve liquidità per evitare che le aziende falliscano; per far fronte alla straordinaria pressione sul sistema sanitario, che ha dimostrato di avere medici e infermieri eroici, ma gravi carenze strutturali. Paragoniamo le conseguenze del virus in Lombardia e nella vicina Germania. Eppure la nostra spesa pubblica complessiva è 4 punti di Pil più alta di quella tedesca: abbiamo speso per decenni per tutto e di più, accumulando un enorme debito anche in periodi di normale crescita del Pil, ma nella sanità spendiamo due punti e mezzo di Pil meno della Germania. Serve liquidità affinché la decisione su quando ripartire la prendano medici e virologi, magari con l’aiuto di qualche economista, ma non la prendano imprenditori sull’orlo del collasso. Non possiamo rimanere chiusi finché non si scoprirà un vaccino, il che non sarà presto, purtroppo. Ma non possiamo neppure permetterci di riaprire senza un programma di test ben avviato e sufficientemente diffuso: è mai possibile che in tre mesi non si sia riusciti a copiare quanto fatto a Seul o a Taiwan, o più semplicemente a Berlino? Se riaprissimo in modo confuso e alla cieca rischieremmo di dover richiudere tutti in casa fra poche settimane, compresi coloro che potrebbero uscire e lavorare senza rischi: un nuovo stress che le imprese e i cittadini farebbero molta fatica a sopportare. A quel punto gli effetti negativi sulla salute stessa dei cittadini, depressione, ansia, suicidi, violenze familiari sarebbero effetti secondari della cura assai pesanti. Non solo ma «c’è il rischio che si infiltri la criminalità» nel vasto progetto di sostegno dell’economia, ha dichiarato ieri in Parlamento la ministra Luciana Lamorgese.

Dove si trova tanta liquidità? Certo non tassando un’economia che non produce: la si affosserebbe definitivamente. Le tasse non si alzano durante una recessione. Al massimo quando è finita. Tantomeno ricorrendo a forme di prelievo forzoso: per ogni euro incassato forzosamente lo Stato ne perderebbe molti di più perché un prelievo obbligatorio, ad esempio un’imposta patrimoniale, segnalerebbe che abbiamo perso l’accesso al mercato. Il debito che è detenuto all’estero non verrebbe rinnovato e anche gli italiani cercherebbero di disfarsene. Allora dove trovare la liquidità? Nonostante un’iniziale gaffe della sua presidente, la Bce è intervenuta massicciamente per fornire liquidità. Nel mese di marzo la banca ha annunciato che da ora a fine anno acquisterà titoli pubblici e privati per 930 miliardi di euro. La nostra quota è il 13 per cento, quindi 120 miliardi circa. E la Bce ha anche detto che, se necessario, quella cifra nel corso dell’anno potrà essere aumentata.

Quindi tutte le discussioni su Mes, eurobond, Recovery fund sono inutili? No, perché la Bce può spegnere un incendio, ma poi gli incendi vanno prevenuti ed evitati. La Bce non può acquistare un trilione di titoli all’anno per sempre. Per questo ci vogliono il Mes, gli eurobond o qualche altro meccanismo per far fronte a choc comuni, cioè choc, come il Covid, che colpiscono tutti i Paesi dell’euro. Questa pandemia non sarà l’ultimo choc comune per l’eurozona.

Problema già risolto quindi? Assolutamente no: il vertice europeo di domani è cruciale. Chiedetevi che cosa potrebbe accadere se domani i Paesi dell’eurozona litigassero e la riunione terminasse senza un comunicato congiunto, ad esempio perché il presidente del Consiglio italiano si impunta sugli eurobond e il suo collega olandese non ne vuole sentir parlare, come è accaduto nella penultima riunione dell’eurogruppo. Dopo un Consiglio europeo che finisse male lo spread sui titoli di Stato italiani si impennerebbe e solo gli interventi della Bce riuscirebbero ad abbassarlo. La Bce può farlo, ma solo sbilanciando i suoi acquisti di titoli a favore dell’italia. La sua posizione diverrebbe sempre più difficile, guardata con sospetto dai Paesi del Nord Europa. Che Salvini spari a zero sull’Europa è comprensibile. La sua è una scelta politica, a nostro parere folle, ma lucida. Il suo scopo è portarci fuori dall’Europa. Ma che il presidente del Consiglio affronti le riunioni europee con frasi tipo «Pronti a fare da soli» non solo è controproducente, è assolutamente privo di credibilità. Come può l’Italia minacciare di uscire dall’Europa e dall’euro? Che cosa succederebbe se fossimo da soli? La liquidità dovrebbe fornirla la Banca d’Italia, e una lira non ancorata all’euro si svaluterebbe come accadeva negli anni Novanta, quando la lira si svalutava un anno sì e l’altro pure, senza che la nostra competitività nel commercio internazionale migliorasse stabilmente. Gli investitori esteri fuggirebbero spaventati dal rischio svalutazione, gli italiani, a meno che non glielo si impedisca per legge, investirebbero in euro e dollari. I nostri titoli perderebbero valore e i tassi sul debito pubblico schizzerebbero. Una strada che ci porterebbe dritti verso un default sul debito, o a causa dell’inflazione o per decreto. Davvero qualcuno pensa che sia un’alternativa preferibile a una sia pure imperfetta Europa?

Siamo un popolo straordinario, capace di produrre ricerca d’ avanguardia, capace di creare grandi aziende e grandi innovazioni, con i nostri combattenti in prima linea contro il virus abbiamo dimostrato un eroismo che ha commosso tutto il mondo. Ma l’Europa non discute con gli italiani, discute con i rappresentanti del nostro Stato. Che è uno Stato indebitato, che spesso ha gettato al vento le tasse pagate dai cittadini, accumulando debito inutilmente, che non sa spendere i fondi europei, che in due mesi non è riuscito a imparare dalla Corea del Sud a mettere in piedi un sistema per testare, isolare e affrontare il Covid. Che alcuni rappresentanti dei Paesi del Nord Europa siano talvolta gretti non c’è dubbio. Ma noi dobbiamo essere un po’ più umili e realistici nel riconoscere che chi non si fida dei rappresentanti del nostro Stato qualche motivo in passato l’ha avuto.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera – 22 aprile 2020

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Mes, eurobond, Recovery fund: vie d’uscita dalla grande crisi

Se quella contro il nuovo coronavirus è stata battezzata da tutti una “guerra” contro un nemico invisibile e il sistema economico è stato riorganizzato come negli sforzi bellici (non esattamente), quella che si combatte tra i governi nazionali europei è sicuramente una delle battaglie più importanti. Si può dire che già questo sia un passo in avanti: fino a 80 anni fa chi combatteva una battaglia in Europa lo ha fatto in trincea col fucile in mano, mentre oggi sta seduto davanti a una webcam sfoderando armi diplomatiche e oratorie.

Una crisi (a)simmetrica. La madre di tutte le sfide per il governo italiano sembra essere quella per ottenere gli eurobond. La logica appare semplice, riprendendo un virgolettato del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Questo è uno shock simmetrico che colpisce tutti ed è eccezionale […]. Ecco perché è necessario rispondere con una reazione forte e unitaria, che utilizza strumenti straordinari”. Due parole chiave – shock simmetrico – che il governo italiano, e non solo, sta ripetendo in ogni riunione e conferenza per giustificare la necessità degli eurobond. Ma dobbiamo chiarirci sul loro significato. Gli studenti di economia studiano che una crisi simmetrica si ripercuote allo stesso modo su tutte le regioni e i settori equamente. Uno shock asimmetrico invece colpisce in modo eterogeneo i mercati e i paesi che ne fanno parte. Se la crisi prima sanitaria e poi economica portata dalla pandemia nell’Unione europea fosse davvero simmetrica, i paesi non avrebbero altro da fare che mettere in campo politiche espansive coordinate e tempestive, in modo – appunto – simmetrico. Insomma, i paesi europei si aiuterebbero l’un l’altro perseguendo ognuno il proprio interesse nazionale. Perché dunque i governi nazionali stanno discutendo da settimane su come affrontare la futura recessione?

Per due motivi, sostanzialmente. Il primo, più semplice, è che la crisi non è del tutto simmetrica. I numeri del contagio e dei decessi non sono uguali in tutti i paesi dell’Unione europea, e dunque le misure di lockdown non sono della stessa intensità e durata. Alcuni paesi, come Belgio, Spagna, Italia, Francia, Regno Unito contano più di 200 vittime da Covid19 ogni milione di abitante, altri – Germania, Austria, Irlanda, Portogallo, Olanda, il blocco di Visegrad – ne contano meno (fonte Our World in Data). Il secondo motivo è che non tutti i paesi affrontano la crisi a partire dalle stesse condizioni economiche. I livelli di crescita economica, disoccupazione, sostenibilità del debito pubblico e privato, produttività erano molto diversi prima dello scoppio della crisi (e questo è in generale un problema per l’Eurozona, che ha un mercato e una moneta comune ma spesso valori economici sproporzionati). Così i vari governi hanno risposto in maniera differente alla crisi economica in arrivo. Questa seconda ragione, a differenza della prima, è sufficiente per rendere reale il rischio che la crisi in atto diventi uno shock asimmetrico. A meno che non venga corretta attraverso strumenti che mettano tutti sullo stesso piano, fornendo ad esempio lo stesso tasso di interesse a tutti i paesi membri (come spiegato nel prossimo paragrafo).

I dati parlano chiaro: la Germania ha fino a ora annunciato di voler spendere il 3,6 per cento del proprio pil per mitigare la recessione alle porte, la Francia quasi due punti percentuali del proprio reddito, il Regno Unito l’1,4 per cento, mentre Italia e Spagna hanno fino a ora affermato di poter spendere poco più di un punto di pil (fonte Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli). Le differenze esistono, e scavano solchi profondi, già stimati dal Fondo monetario internazionale. Secondo l’istituto guidato da Kristalina Georgieva, l’Italia vedrà la sua economia cadere di oltre il 9 per cento quest’anno, mentre ad altri paesi europei di pari dimensioni sarà riservato un destino (leggermente) meno catastrofico: Spagna -8, Francia -7,2, Germania -7, Regno Unito -6,5. Questi numeri non sono un caso, ma riflettono le differenze pre crisi pandemica. Altrimenti non ci sarebbe ragione per il nostro paese di chiedere una forma di prestito europeo per finanziare la ripresa economica. E soprattutto non ci sarebbe ragione di chiedere l’introduzione di eurobond, la cui idea nasce proprio per rispondere a shock idiosincratici all’interno dell’Unione europea, fornendo – in tante forme diverse, lo vedremo – un accesso al credito a tassi di interesse inferiori, perché garantito in comune, rispetto a quelli che un paese economicamente in difficoltà dovrebbe affrontare.

Mes ed eurobond: gemelli diversi. Gli eurobond sono facili a dirsi, ma estremamente complicati a farsi. La prima ragione è sotto gli occhi di tutti: non c’è ancora un accordo tra i paesi europei. Ma non è la sola. La seconda, legata alla precedente, è che esistono varie forme possibili di eurobond, con caratteristiche, costi e benefici differenti. Secondo diversi economisti il Mes rinominato “light” dopo l’accordo dell’Eurogruppo di due settimane fa è un vero e proprio eurobond. Anche qui le parole sono importanti. Il Mes è un fondo assicurativo garantito dagli stanziamenti dei paesi membri che presta i fondi ottenuti a leva sul mercato a interessi bassi a paesi che autonomamente affronterebbero costi più alti sul mercato. Gli eurobond invece sarebbero titoli di debito garantiti da tutti i paesi dell’Ue. Tra gli economisti che vedono molte somiglianze tra i due c’è Tommaso Monacelli che su Twitter e poi su Lavoce.info ha scritto che “nella sostanza i due strumenti coincidono”. Questo è sicuramente vero nella finalità – garantire liquidità e trasferimenti ai paesi membri dell’Ue più in difficoltà a bassi tassi di interessi – ma gli strumenti per farlo sono differenti, come scrivono lo stesso Monacelli e altri economisti più scettici.

Prima di tutto il Mes nella versione concordata dall’Eurogruppo ma non ancora approvata dal Consiglio europeo è pur sempre una forma assicurativa: tutti i paesi pagano una quota a seconda del valore della loro economia (non del loro rischio, questa è una prima forma di solidarietà) e nel momento del bisogno un paese in difficoltà può richiedere prestiti al fondo assicurativo. Come fa ogni assicurazione privata, bisogna fare in modo che il cliente non sia portato ad assumersi più rischi sapendo che può contare su un salvataggio finanziato (anche) da altri. E’ il principio di moral hazard. Per questo anche il Mes “light” prevede alcune condizionalità per l’accesso al credito, che sono state limitate alla destinazione d’uso dei prestiti, ma che potrebbero essere invece reintrodotte al termine dell’emergenza pandemica. Lo hanno ricordato Francesco Saraceno e Floriana Cerniglia sul Sole 24 Ore. Anche per questa ragione molti esperti si augurano che se il Mes verrà attivato dal governo italiano vengano contrattati alcuni punti essenziali: Altomonte e Pammolli su queste pagine hanno proposto che l’erogazione del credito avvenga in un’unica soluzione e che le condizionalità post-emergenza rimangano quelle standard del Patto di stabilità; altri propongono anche che le scadenze dei prestiti siano più che decennali, per renderli ancora più favorevoli.

Per quanto riguarda le obbligazioni europee, esistono diverse forme per introdurle ed è anche su questo campo che si divideranno i leader europei per finanziare il Recovery fund proposto dall’ultimo Eurogruppo. Alcune proposte prevedono che i titoli possano essere emessi direttamente dagli stati nazionali e garantiti da tutti i paesi membri. Così si otterrebbe un tasso di interesse inferiore per i paesi del sud (e più alto per la Germania), ma si correrebbe anche il rischio per gli stati che garantiscono il prestito che i soldi possano essere spesi in modo poco saggio. Altre idee, più complesse, disegnano uno scenario in cui si trasferiscono parti dei bilanci nazionali – quelle destinate alle spese sanitarie, o ai sussidi di disoccupazione, per esempio – all’interno del bilancio europeo. Così si potrebbero utilizzare questi fondi per garantire chi acquista gli eurobond che il prestito sarà effettivamente restituito. Questa versione ovviamente prevede, come ha sottolineato Lorenzo Bini Smaghi su Voxeu, un trasferimento importante di sovranità nazionale alle istituzioni europee. Per di più se i fondi raccolti sul mercato finanziario fossero spesi direttamente dalla Commissione europea e non dai singoli stati: in questo modo si potrebbe evitare il noto problema del moral hazard. Ecco spiegato il motivo per cui Salvini e la Lega non possono accettarli, e hanno votato contro i titoli comuni al Parlamento europeo.

Due estremi dello stesso continuum. La via per l’integrazione (e la sopravvivenza) europea è complessa e articolata, gli interessi in campo sono molti come anche le soluzioni possibili. Ma è fondamentale capire prima di tutto, per l’opinione pubblica e per chi la governa, la natura che può assumere la prossima crisi economica e quali sono dunque le opzioni migliori possibili per mitigarla. Il Mes, forma assicurativa in cui il debito ricade sulle spalle del solo stato che lo richiede, e la forma più comunitaria di eurobond, garantiti e allocati dalla Commissione europea, sono probabilmente i due estremi all’interno dei quali verrà trovata la decisione per il Recovery fund. Queste due proposte fanno infatti parte di un continuum di soluzioni, più che essere vere e proprie alternative divergenti come ritengono alcuni. E’ molto probabile che né uno né l’altro risulteranno l’opzione definitiva, ma comprenderle ci aiuterà a individuare la via d’uscita. Se la crisi prima sanitaria e poi economica portata dalla pandemia nell’Unione europea fosse davvero simmetrica, come dice Conte, i paesi non avrebbero altro da fare che mettere in campo politiche espansive coordinate e tempestive. Anche il Mes “light” prevede alcune condizionalità per l’accesso al credito, che sono state limitate alla destinazione d’uso dei prestiti, ma che potrebbero essere invece reintrodotte al termine dell’emergenza pandemica.

Lorenzo Borga – Il Foglio – 20 aprile 2020

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