Al summit di aprile la Ue si gioca tutto

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Animati dalla partigianeria, è difficile stabilire se l'esito dell'Eurogruppo di giovedì scorso sia stato (per noi) un fallimento o un successo. Per l'opposizione, è stato un fallimento, la dimostrazione che gli interessi dell'Italia non sono riconosciuti all'interno dell'Unione europea. Per buona parte del Governo, è stato un successo, seppure parziale, la dimostrazione che le richieste italiane sono state prese in considerazione dagli altri Paesi dell'Ue. Entrambe le posizioni non convincono. Occorre ragionare a mente fredda, basandoci sui fatti. Vediamo come stanno le cose. Davvero l'Ue non ha voluto aiutare i Paesi più colpiti (come il nostro) dal Covid-19? No, non è così. L'Eurozona (sia pure con un ingiustificabile ritardo iniziale) ha mobilitato una batteria di politiche che consentono una prima basilare risposta alla pandemia. La Banca centrale europea (Bce) ha introdotto nuovi programmi di acquisto di titoli, sovrani e privati, senza precedenti, sia per dimensione (fino a 900 miliardi di euro) che per caratteristiche. Senza il sostegno della Bce, l'Italia sarebbe già andata a gambe all'aria. La Commissione europea ha sospeso il Patto di stabilità e crescita, che ci consente di prendere decisioni di spesa immediata per contrastare le conseguenze del Covid-19, senza i vincoli di deficit e di debito. La Commissione ha alleggerito, come mai era avvenuto in passato, le regole che proibiscono gli aiuti di Stato alle imprese in difficoltà. Su pressione del Parlamento europeo, la Commissione ha consentito all'Italia, per contrastare il Covid-19, di utilizzare i fondi non spesi del bilancio pluriennale 2014-2020 e destinati alle politiche strutturali, circa 12 miliardi, senza il vincolo del co-finanziamento. La Commissione ha deciso un programma temporaneo di assistenza finanziaria sotto forma di prestiti agli Stati per contrastare la disoccupazione generata dalla pandemia, il cosiddetto Sure, di cento miliardi di euro. La Banca europea degli investimenti (Bei), sulla base di garanzie di 25 miliardi, ha messo a punto un programma di finanziamento di duecento miliardi per sostenere le piccole e medie imprese in difficoltà per la pandemia. L'Eurogruppo di giovedì scorso ha concordato di mettere a disposizione, dei Paesi che ne facessero richiesta, fondi per 240 miliardi di euro del Meccanismo europeo di stabilità (Mes o Fondo salva Stati) per interventi sanitari diretti e indiretti, con la sola condizionalità che siano utilizzati per questo scopo. Infine, sempre nella riunione di giovedì scorso, l'Eurogruppo ha accettato di creare un Fondo per la Ripresa (Recovery Fund), collegato al budget dell'Ue, da finanziare «con strumenti innovativi». Nel complesso, sono stati mobilitati intorno a 500 miliardi. Difficile sostenere che l'Ue non abbia fatto nulla per aiutare i suoi stati membri più colpiti. Si può dire, allora, che l'Ue abbia fatto tutto ciò che doveva fare per aiutarci? No, neppure questo si può dire. I programmi mobilitati hanno una portata finanziaria limitata, se si pensa alla devastazione di già prodotta dalla pandemia in Europa. Ad oggi, essa ha ucciso 50mila persone, ha infettato mezzo milione di persone, è destinata a produrre un calo del Pil dell'Eurozona del 10% (era calato del 4,5% dopo la crisi finanziaria, considerata allora devastante, del 2008-09), le economie del sud Europa sono tutte in recessione. Gli Stati Uniti hanno appena approvato programmi di aiuti di entità sei volte superiore. Inoltre, i programmi per 500 miliardi sono basati su prestiti, non su aiuti, prestiti che sono destinati a pesare sui bilanci nazionali e che devono essere ripagati. Certamente, come recita il Rapporto del 9 aprile dell'Eurogruppo, quei prestiti saranno forniti a condizioni favorevoli. Tali condizioni, però, dovranno essere approvate da tutti gli Stati membri. Nel caso del Mes, ciò implicherà di passare attraverso le loro «procedure nazionali e requisiti costituzionali» (Punto 16). Lo stesso Sure (punto 17) non va interpretato come uno strumento permanente per contrastare la disoccupazione generata da shocks esogeni, causa l'opposizione degli Stati del nord alla creazione di strumenti anticiclici. Inoltre, e soprattutto, il Recovery Fund ha forti assomiglianze con le promesse scritte sull'acqua. Una tattica negoziale di cui la Germania è diventata campione, se si pensa a diverse promesse non mantenute di precedenti negoziati. La Germania continua a posticipare l'attivazione del terzo pilastro dell'unione bancaria (l'Assicurazione europea sui depositi, eppure concordata già dal 2014), così come la creazione di un budget dell'Eurozona (nonostante la Dichiarazione di Meseberg del 2018), e tutti quegli impegni presi che non soddisfino più i suoi interessi. È evidente che, nel medio periodo, l'impianto delle politiche adottate dall'Ue indebolirà i Paesi già indeboliti dalla pandemia (come quelli del sud), a vantaggio dei Paesi meno colpiti dalla pandemia (come quelli del nord). Così consolidando la gerarchia di poteri, emersa tra di loro, con le crisi del decennio appena concluso. Per questi motivi, l'Italia (oltre che la Spagna e la Francia) non può limitarsi a credere alle promesse fatte. Alla riunione del Consiglio europeo (del prossimo 23 aprile) dovrà chiedere che il Recovery Fund abbia una data precisa per essere attivato, una consistenza finanziaria almeno doppia rispetto alle misure finora prese e si basi su debito comune europeo e non su trasferimenti nazionali. Il Fondo dovrà essere collocato nel bilancio dell'Ue, gestito dalla Commissione sotto la vigilanza del Parlamento europeo e dello stesso Consiglio europeo. Se vogliamo uscire dalla pandemia senza vincitori e vinti, occorre fare partire subito un programma di rilancio economico basato su aiuti e non solo su prestiti. Senza ciò, sarà difficile sostenere che l'Ue abbia fatto abbastanza per sostenere i Paesi più colpiti come il nostro. Insomma, in queste settimane si decide non solamente il futuro dell'Ue, ma anche il nostro rapporto con essa. Nell'Ue, la negoziazione è un processo costante, che richiede strategia politica, conoscenze tecniche e capacità coalizionali. Occorre che l'Italia si dimostri al livello della sfida.

Sergio Fabbrini – Il Sole 24 Ore – 12 aprile 2020

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