Europa. Il piano von der Leyen. Mille miliardi di bond per i Paesi in difficoltà

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Almeno mille miliardi da raccogliere sui mercati con bond europei gestiti dalla Commissione, da versare ai Paesi più colpiti dalla pandemia in parte sotto forma di aiuti a fondo perduto, in parte come prestiti a tassi contenuti da rimborsare non prima di 20 anni. Prende forma il piano con il quale Ursula von der Leyen e Charles Michel sperano di mettere d’accordo i leader dell’Unione in occasione del video summit di giovedì prossimo. Non mancano però i problemi, come i tempi dell’operazione. Dettagli cruciali, oggetto di intensi colloqui tra i presidenti di Commissione e Consiglio europeo e le Cancellerie continentali. Come dimostra la telefonata di ieri tra il premier Conte e la stessa von der Leyen.

I governi sono spaccati sugli strumenti per rilanciare l’economia europea depressa dal Covid 19: da un lato il fronte della solidarietà guidato da Francia, Italia e Spagna, dall’altro i paesi contrari alla mutualizzazione del debito, ovvero Germania, Olanda, Austria, Svezia, Finlandia e Danimarca. Proprio in ragione di questo scontro, e per timore che possa essere subito bruciato, probabilmente von der Leyen non presenterà il progetto prima del summit. Lo esporrà direttamente ai leader giovedì. Se otterrà il via libera, il 29 aprile pubblicherà le sue proposte.

L’idea di base è che sia la Commissione ad andare sui mercati. Lo farà usando come garanzia di fronte agli investitori il suo bilancio 2021-2027. Grazie alla Tripla A della quale gode, punterà a raccogliere almeno 1.000 miliardi a interessi vicino allo zero che, sommati alle misure dell’Eurogruppo, comporrebbero un pacchetto anti-crisi da 1.500 miliardi. I bond tra l’altro potranno essere acquistati anche dalla Bce. Si prevedono maturità di almeno 20 anni, ragion per cui la Commissione potrebbe impegnare non solo il prossimo budget pluriennale, ma anche quelli successivi. I soldi dei bond sarebbero distribuiti ai governi più colpiti dalla crisi tra sussidi da non rimborsare (“grants”) e prestiti a basso costo (“loans”).

Condizione per lanciare il piano, sarà un accordo sul bilancio 2021-2027, dossier sul quale i leader litigano da due anni spaccati tra “ambiziosi” del Sud e “frugali” del Nord, impegnati a ridimensionare il “Tesoro Ue”.

Il budget dell’Unione è composto da due parti: gli impegni, ovvero i soldi che i governi versano a Bruxelles, e le spese potenziali, un tetto massimo di fondi che la Ue può chiedere alle capitali solo in caso di necessità. Il piano di von der Leyen prevede di non insistere sulla prima posta del bilancio, complicata in quanto richiede un reale esborso dei soldi, e che dunque rimarrebbe intorno all’1% del Pil europeo (al massimo l’1,1%).

Piuttosto Bruxelles mira a spingere sulla seconda voce, raddoppiandola fino al 2% del Pil. Così le centinaia di miliardi che compongono il margine tra le due parti del budget — tra soldi reali e soldi virtuali — costituirebbero la garanzia con la quale Bruxelles si presenterebbe sul mercato per emettere gli Ursula-Bond.

Secondo fonti coinvolte nei negoziati, questo schema potrebbe trovare il via libera di Angela Merkel. Dal punto di vista tedesco, il piano von der Leyen avrebbe il pregio di mettere in campo Eurobond mascherati in quanto sarebbe la Commissione a emetterli, evitando una mutualizzazione diretta delle risorse dalle casse nazionali. Inoltre i fondi sarebbero gestiti dalla Commissione, garanzia per l’elettorato del Nord che non verranno sperperati in favore delle cicale del Sud. Resta comunque il serio rischio che qualche altro paese del fronte pro austerità blocchi l’aumento fino al 2% delle cosiddette “risorse proprie” di Bruxelles.

Inoltre non è ancora deciso se il meccanismo sarà realizzato totalmente “in house” dalla Commissione, o se sarà appoggiato su un fondo esterno — comunque gestito da Bruxelles — che permetterebbe alla Francia di cantar vittoria sul Recovery Fund chiesto da Macron. Altra incognita è quella dei tempi: il fronte del Sud, in particolare l’Italia, chiede che i bond siano varati a brevissimo. Ma agire sul bilancio 2021 rallenta l’intervento: anche volendo anticipare il budget, i tempi per il suo lancio restano lunghi tra negoziati per trovare l’ok unanime dei leader, approvazione dell’Europarlamento (pronto a muoversi velocemente) e ratifiche nazionali.

Ecco perché le istituzioni insistono affinché i governi prima usino il pacchetto dell’Eurogruppo: 540 miliardi tra prestiti Bei, fondo “Sure” per gli ammortizzatori sociali e Mes senza condizionalità, che oltretutto potrebbe appoggiarsi al programma della Bce di acquisto illimitato dei titoli di stato nazionali (Omt). Solo dopo l’esaurimento di queste munizioni, e in caso di necessità, la Commissione potrebbe lavorare a un ulteriore “ponte” per arrivare a gennaio. Difficile che tutti i paesi del Sud accettino.

Insomma, restano i nodi, tanto che più di una Cancelleria al momento pronostica che il vertice di giovedì non sarà risolutivo: potrebbero servire ulteriori colloqui (e litigi) tra leader.

Alberto D’Argenio – la Repubblica – 20 aprile 2020

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Il messaggio dei mercati

Se non bastasse il resto, è il mercato che sta dicendo che il tempo adesso stringe davvero. Il rendimento dei titoli di Stato italiani è tornato a salire di più di sessanta punti negli ultimi venti giorni, sulle scadenze a dieci anni. Da una soglia minima dell’1,22%, raggiunta il 26 marzo quando la Banca centrale europea sfoderò il suo piano da 750 miliardi contro la pandemia, all’1,88% di ieri. È un peggioramento più che doppio rispetto a quello della Spagna dove i titoli di Stato a dieci anni rendono meno della metà rispetto a quelli di Roma. Eppure i due Paesi sono investiti con la stessa violenza dalla pandemia, sono soggetti alle stesse decisioni europee e subiranno recessioni di intensità simile, mentre il deficit pubblico di Madrid può essere persino più alto. La differenza dunque dev’essere nella politica. Entrambi i governi sono coalizioni complesse e fragili, ma solo in Italia è partito un dibattito sul fondo salvataggi Mes che – visto dal mercato e dalle altre capitali – ha un solo effetto: ricordare che la politica italiana può sempre finire ostaggio dei sovranisti e della loro rappresentazione della realtà. In Spagna invece è possibile che il governo attivi il nuovo strumento del Mes disegnato per le spese legate a Covid-19, senza però tirare fuori un solo euro. L’intento è di assicurarsi un po’ di più sul mercato a costo zero. Per l’Italia, la stessa scelta dipende da cosa accadrà fra sette giorni. È allora che i leader nazionali dell’unione europea dovrebbero decidere se e come avviare un “Recovery Fund”, un fondo per la ripresa da affiancare alle misure più limitate decise fino ad ora. Il governo di Giuseppe Conte può permettersi di attivare la linea di credito del Mes solo se sarà in grado di presentare un accordo europeo sul “Recovery Fund” come un successo. In caso contrario chiedere il sostegno del Mes - la proposta di Germania e Olanda dall’inizio – apparirebbe come una capitolazione tale da far cadere Conte. La stabilità politica e finanziaria dell’Italia è dunque inestricabilmente legata al risultato del vertice europeo di giovedì prossimo. Da lì sembra ormai acquisito, anche a Berlino, che un qualche “Recovery Plan” vada lanciato. Anche l’idea che possa valere almeno mille miliardi è ormai diffusa fra le capitali, anche se resta da capire distribuiti in quanti anni. Esistono poi idee per avvicinare la posizione di Roma, che chiede debito comune europeo, a quella di tedeschi o olandesi, che non vogliono farsi carico dei problemi dell’italia. Una delle ipotesi prevede che ogni governo risponda per percentuali pari alla propria quota di prodotto lordo nell’economia dell’area euro di titoli di debito emessi in comune nell’area euro, anche se magari quel Paese riceve risorse in proporzione più ampia. È anche possibile che le compensazioni del dare e avere si facciano su lunghi periodi, con alcuni governi caricati di minori obblighi nei primi anni dopo la crisi. Di sicuro ci sarà un progetto, di sicuro non sarà un classico eurobond. Manca però un tassello senza il quale il confronto fra capitali non entra nel vivo: come far partire quel “Recovery Fund”, come alimentarlo di risorse e quando. Agganciarlo al bilancio Ue, come preferiscono Berlino e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, rischia di rimandare tutto al 2021 inoltrato: troppo tardi. Servirebbe una soluzione-ponte per raccogliere sul mercato finanziamenti già da quest’estate tramite la Commissione, la Banca europea degli investimenti o lo stesso Mes. Nessuna di queste strade è però priva di ostacoli. E all’ultimo ciascuna può rivelarsi il diavolo politico che, nei negoziati europei, si annida sempre nei dettagli legali.

Federico Fubini – Corriere della Sera – 16 aprile 2020

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Tre mosse per limitare i danni

Il Fondo Monetario Internazionale l'ha ufficializzato: il mondo sta affrontando quella che è, di gran lunga, la peggiore crisi economica dalla Seconda guerra mondiale. Quest'anno il Pil reale del mondo è previsto scendere del 3 per cento. Nel dopoguerra era sempre cresciuto, a parte una piccola discesa nel 2009, l'anno della crisi finanziaria globale. Il coronavirus sta facendo quello che Lehman Brothers non riuscì a fare. È vero che l'Fmi prevede un rimbalzo nel 2021 (con un aumento del Pil del 5,8 per cento), ma nella situazione attuale fare previsioni per l'anno prossimo resta molto azzardato.
Scendendo nel dettaglio, l'Fmi prevede un calo del Pil dell'euro area del 7,5 per cento, più forte che negli Stati Uniti, che sfiorano comunque il 6 per cento e dove la disoccupazione sta esplodendo. E l'Italia? Siamo, ancora una volta, il fanalino di coda: meno 9,1 per cento. Occorre andare al 1945 per trovare per l'Italia un dato peggiore. Temo sia una previsione più o meno realistica, non tanto perché anche prima crescevamo meno degli altri, ma perché purtroppo il nostro Paese, e all'interno di questo le regioni che anche negli ultimi anni erano cresciute di più, sono all'epicentro della pandemia.
Si noti che questi risultati disastrosi tengono conto di politiche economiche monetarie e di bilancio estremamente espansive quali quelle che tutti i Paesi del mondo stanno realizzando. Per restare all'Italia l'Fmi prevede un aumento del deficit pubblico dall'1,6 per cento nel 2019 all'8,3 per cento con un debito pubblico che sale dal 135 al 156 per cento. Ma non basta pianificare politiche espansive per minimizzare le perdite. Occorrono almeno tre cose.
La prima è rapidità nell'esecuzione. Qui l'Italia si sta muovendo un po' troppo lentamente. L'esempio più ovvio riguarda l'erogazione del bonus alle partite Iva che solo questa settimana sta partendo. Il decreto sulla liquidità delle imprese è stato utile, ma ci si comincia a chiedere se, oltre ai prestiti, non siano necessari anche versamenti a fondo perduto. Le imprese che stanno chiuse potranno recuperare solo in parte le entrate che stanno attualmente perdendo. Ed è improbabile che le perdite possano essere assorbite principalmente dal capitale investito. Occorre cautela per evitare eccessi, ma è probabile che sussidi diretti siano necessari.
La seconda è che lo Stato abbia adeguata liquidità in cassa. I fondi dello Sure, il piano proposto dalla Commissione europea per finanziare le casse integrazione dei vari Paesi, potrà fornire all'Italia 15-20 miliardi. La linea di credito senza condizionalità del Mes potrebbe farci avere altri 36 miliardi e non vedo perché ogni giorno esponenti non solo dell'opposizione ma anche del governo ripetano che non ci interessa. Vedremo quali risorse saranno disponibili dal Recovery Fund, se e quando sarà attivato. Ma il principale sostegno ci verrà dalla Bce che quest'anno metterà a disposizione risorse nette per circa 170 miliardi (più circa 50 miliardi per acquistare titoli in scadenza nel bilancio della stessa Bce). Ma perché queste risorse arrivino in pratica allo Stato, quest'ultimo deve emettere titoli in quantità sufficiente. Occorre programmare quindi attentamente queste emissioni: quest'anno la gestione della tesoreria sarà ancora più importante del solito.
La terza riguarda la delicata questione delle riaperture. C'è poco da fare. Se la gente sta a casa e non va a lavorare non si produce. Lo Stato può distribuire potere d'acquisto, ma alla fine il Pil (prodotto interno lordo) deve essere prodotto, appunto. Speravamo che bastasse stare a case un paio di settimane per debellare il contagio. Non è stato così. La curva dei contagi sta scendendo ma lentamente. La Cina ha riaperto le attività produttive quando il numero dei contagi era sceso a zero. È vero che ci sono enormi incertezze su quanto significativi siano i numeri sui contagi (dipendendo dai tamponi che si fanno), ma non credo si possa più pensare di riaprire solo quando tale numero si sia azzerato. Occorrerà riaprire, gradualmente, ma non troppo tardi se l'economia va salvata. Non è chiarissimo quale sia il mandato della task force guidata da Vittorio Colao, ma credo che pianificare la riapertura graduale, in consultazione con le parti sociali e con le massime cautele, sia sempre più importante. —

Carlo Cottarelli  - La Stampa - 15 aprile 2020

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