La piccola Italia da Roma a Bruxelles

Nella serata in cui l'Eurogruppo approda a un modesto risultato, si può misurare quanto sia limitata la capacità dell'Italia di essere ascoltata sul piano internazionale. La battaglia per gli eurobond (o coronabond che dir si voglia) era già persa da giorni, ma si è voluto farne la bandiera di una sorta di sfida al resto dell'Unione che è finita in un nulla di fatto. In sostanza con un rinvio delle decisioni ai capi di Stato e di governo, ma su una base poco propizia alle posizioni italiane. L'intesa con la Francia – e anche questo era prevedibile –, lungi dall'essere un patto di ferro, come a Roma qualcuno ha voluto far credere, sembra vedere il ritorno di Parigi al rapporto privilegiato con Berlino. E ora, una volta che Angela Merkel ha di nuovo e in via definitiva escluso qualsiasi strumento volto a rendere comune il debito dei singoli Paesi, per l'Italia si tratta soprattutto di evitare l'isolamento. Perché questo è e resta il vero rischio all'orizzonte dopo che per giorni si è detto «no al Mes, sì ai coronabond», garantendo che altrimenti «siamo pronti a fare da soli». Una linea poco prudente in sintonia con i Cinque Stelle, a loro volta impegnati a tagliare l'erba sotto i piedi di Salvini attraverso un "sovranismo" grillino in discreta continuità con il "sovranismo" di destra del governo Conte 1. Resta da capire se sul piano elettorale questa strategia riuscirà a trasferire un po' di opinione pubblica ostile all'Europa nei ranghi dei 5S (e in parte, chissà, del Pd che tace e sembra acconsentire). Ovvero se alimenterà con nuovo carburante il nazionalismo di Salvini, le cui fortune elettorali – a dar retta ai sondaggi – sembrano in declino. A differenza di Giorgia Meloni. Non solo. La paralisi dell'Europa ha fatto subito riemergere un istintivo provincialismo, alimentando polemiche di corto respiro utili a misurare la statura politica dei protagonisti. È singolare, ad esempio, che il ministro degli Esteri, Di Maio, si rivolga al governo di Berlino perché prenda le distanze da un articolo della Welt molto sgradevole verso l'Italia. Come se nell'occidente liberale un governo eletto potesse chiudere la bocca a un giornale o anche solo intimidirlo. Ma Di Maio è pure sfortunato. Qualcuno ha ritrovato e subito messo in Rete l'intervento di Beppe Grillo sei anni fa nella sede del Parlamento europeo, nel quale il capo carismatico del movimento diceva a chiare lettere le stesse cose scritte ieri dalla Welt : in sostanza, non date soldi all'Italia perché finirebbero alla mafia a causa della corruzione generale. Quindi Grillo, nel pieno della battaglia anti-casta e anti-politica, usava un argomento esplosivo contro il suo Paese. La Welt usa lo stesso argomento contro l'Italia per dar voce all'opinione dei suoi lettori contrari a caricarsi pro quota il nostro debito. E Di Maio se la prende con Berlino mentre era stato assai tiepido, giorni fa, nel difendere un giornalista italiano attaccato non da un quotidiano, bensì dal ministero della Difesa di Mosca. Per tornare al Mes, il fondo salva-Stati, l'Italia rischia di intestarsi in modo involontario la crisi in cui si dibatte l'Europa. A meno che non abbia deciso di far esplodere tutte le contraddizioni, che certo esistono, dell'Unione europea. Se fosse così, qualcuno dovrebbe averne valutato le conseguenze. E magari dovrebbe riferirne in Parlamento.

Stefano Folli – la Repubblica – 10 aprile 2020

 

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Maggioranza in sospeso

Quanto vale l’intesa sulla prescrizione abbozzata tra Pd, 5S e Leu? È un accordo farraginoso, qualcuno sostiene a mezza bocca che sia anche di dubbia costituzionalità. Ma il giudizio che conta in queste ore è quello di chi si occupa di giustizia nelle aule dei tribunali e delle corti d’appello. 

Quanto vale l’intesa sulla prescrizione abbozzata tra Pd, 5S e Leu? È un accordo complesso e farraginoso, qualcuno sostiene a mezza bocca che sia anche di dubbia costituzionalità. Ma in definitiva il giudizio che conta in queste ore è quello di chi si occupa di giustizia nelle aule dei tribunali e delle corti d’appello. Sono loro, magistrati e avvocati, a dover dire se il cosiddetto “lodo Conte bis” è un passo avanti sulla via della «civiltà giuridica», secondo l’espressione un po’ pomposa adottata dai 5S e condivisa da esponenti del Pd, ovvero se è solo un modo per ingarbugliare una matassa già quasi inestricabile. A sentire il presidente delle Camere penali, l’avvocato Caiazza, non sembra che l’ultimo arabesco messo a punto a Palazzo Chigi eviti le peggiori conseguenze al cittadino sotto processo.

In ogni caso è evidente che il serio conflitto politico in atto nella maggioranza — dove tutti tendono a bluffare nella speranza di anticipare il bluff degli altri — può essere circoscritto solo con un’intesa molto limpida e bene accolta da un campo largo, tale da rendere pretestuose o infondate le resistenze di chi si oppone: vale a dire il gruppo renziano di Italia Viva. Se invece il compromesso è solo un grosso cerotto per mascherare la consueta inerzia della coalizione rossogialla, resa compatta dal timore delle elezioni a breve, allora è difficile dar torto a Renzi e al suo desiderio di gettare un sasso nello stagno per smuovere le acque.

Sta di fatto che l’ex premier stavolta ha segnato qualche punto a proprio favore.

Se come sembra Bonafede rinuncia a portare lunedì il provvedimento in Consiglio dei ministri sotto forma di decreto, vuol dire che i tempi si dilatano.

E dilazione in questo caso può voler dire rinvio o almeno tentativo di temporeggiare. È la prova che non ha retto l’ultima mediazione di Conte, il premier che ieri si è definito bizzarramente «né garantista né giustizialista» (“né aderire né sabotare” era lo slogan dei socialisti nella prima guerra mondiale, ma non portò molta fortuna). Debole il mediatore, pasticciato il possibile compromesso, frastagliate le forze politiche. Si arriverà lo stesso a Palazzo Madama, ma intanto la maggioranza è in sospeso. Chi ha puntato i piedi contro il «processo infinito» ha fatto emergere le fragilità dell’asse Pd-5S.

Peraltro anche nel recinto dell’ex premier la spavalderia si manifesta a intermittenza e in forme contraddittorie. A volte è la promessa di un “no” definitivo a costo di far cadere il governo, altre volte è la tentazione di opporsi alla prescrizione ma senza pagare dazio: ossia lasciando vivacchiare l’esecutivo (per esempio uscendo dall’aula del Senato al fine di abbassare il quorum).

Quando Renzi esclama: «Se Conte vuole cacciarmi, lo dica apertamente», fa capire che la sua priorità non sarebbe abbandonare la coalizione e perdere quella rendita di posizione che finora è il solo guadagno ottenuto con la scissione.

D’altra parte l’uomo è davvero al limite della sopportazione. Si rende conto che lui e il manipolo d’Italia Viva sopravvivono solo se destabilizzano il quadro politico (specie dopo l’Emilia-Romagna che ha salvato il Pd).

Nella confusione possono riguadagnare spazio: persino, come estrema carta, affrontando le elezioni. Nella stagnazione invece il fallimento è probabile. Mai come adesso il “renzismo” o quel che ne resta ha bisogno di un colpo d’ala.

Stefano Folli – la Repubblica – 8 febbraio - 2020

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E' quasi certo il voto a primavera

Giorgio Napolitano ha parlato. A breve lascerà la carica sul Colle che lo ha visto, magari suo malgrado, protagonista della vita politica italiana degli ultimi tempestosi anni. Fosse stato, l'Italia, un Paese normale, si sarebbe dovuto andare al voto fin dal 2010. Il presidente, re Giorgio, con un artificio, lo ha impedito. Ricordiamo le turbolenze di quella orrida stagione? I passaggi di parlamentari da uno schieramento all'altro? Ergo, si sarebbe dovuto andare a elezioni subito. E quel che è accaduto l'anno successivo? L'inopinata nomina di Mario Monti a senatore a vita e l'incarico al professore varesino della formazione di un'esecutivo tecnico per salvare il Belpaese. Quando, poi, l'allora Pdl decise di togliere la fiducia a Monti, ecco che con il porcellum di Calderoli si è andati al voto per cristallizzare gli schieramenti e non conseguire il risultato elettorale desiderato e dal Pd e dal Pdl per l'intromissione esplosiva del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, cui nessuno accreditava (prima del voto) il consenso che avrebbe ricevuto il 24-25 febraio 2013. Gli italiani erano (e sono ancora) stanchi. Occorre essere intellettualmente onesti: se Bersani non si fosse ostinato ad appoggiare Mario Monti (e Giorgio Napolitano), oggi la situazione sarebbe politicamente più trasparente o, se volete, meno confusa. L'attuale Parlamento è illegittimo perché eletto con legge incostituzionale. Tutti in Italia sapevamo che il porcellum era una legge pessima. La Corte avrebbe dovuto censurarla ben prima. Ma tant'è. Adesso si è nuovamente al punto di partenza ma le condizioni del Paese ancor più precarie. Dunque, prima si andrà al voto e meglio sarà per l'Italia. Napolitano ha deciso di lasciare il Quirinale, i partiti fanno macchina indietro e tornano a litigare. Ma sembra chiaro anche ad un cieco che si voterà nella prossima primavera. E' semplice: una volta eletto il nuovo presidente della Repubblica, il governo dovrà rassegnare le dimissioni. Magari l'incarico sarà affidato allo stesso Matteo Renzi e chissà se avrà la fiducia di queste Camere. Sì, perché molti a parole approvano l'operato del premier ma, sotto sotto, ne auspicano il fallimento in quanto i risultati del suo lavoro ancora non si intravedono: l'occupazione ristagna, il Paese non cresce, i giovani non trovano lavoro, i pensionati piangono, sempre più milioni di famiglie non riescono ad arrivare non a fine mese ma alla terza settimana, e l'Europa ci castagna. Se Renzi non avrà una maggioranza chiara, il nuovo presidente della Repubblica, come suo primo atto, provvederà a sciogliere le Camere. Se l'Italicum sarà finalmente legge dello Stato, emergerà dalle consultazioni elettorali una maggioranza a prova di bomba e il premier porterà a compimento il suo mandato. Altrimenti, fibrillazioni, litigi, paese allo sbando. Ecco un bell'articolo di Stefano Folli su la Repubblica sulle imminenti dimissioni di Re Giorgio (Marco Ilapi).

L'inquilino del Quirinale è stanco e ritiene di aver diritto di esserlo. Rispetta gli impeàgni con puntualità, a elezioni subito. E quel che è accaduto l'anno successivo? L'inopinata nomina di Mario Monti a senatore a vita equelli interni e quelli internazionali, ma sta diradando l'agenda, se si tratta di allontanarsi dal Quirinale. Fra qualche giorno, il 17, sarà all'Università Bocconi per assistere al ricordo di Giovanni Spadolini a vent'anni dalla morte. Poi un paio di appuntamenti europei, di cui uno a Torino, utili a ricordare che il destino italiano si compie in Europa e non altrove. Infine il messaggio di Capodanno agli italiani, l'ultimo dei nove pronunciati a partire dal 31 dicembre 2006. L'anticipazione di Stefano Folli su la Repubblica.

Napolitano addio al Quirinale, i partiti litigano

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