L’ispettore generale... mala società...

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Mascalzone! Mascalzone! A Rocco Papaleo che interpretava il podestà nella commedia L’ispettore Generale del drammaturgo russo Nikolaj Gogol gli potremmo dare una tiratina d’orecchi perché alla fine Così fan tutti, parafrasando e declinando al maschile, significati e titolo dell’opera comica del musicista Wolfgang Amadeus Mozart. Nella commedia andata in scena ieri sera a Venezia, al Teatro Goldoni: uno dei più grandi capolavori del teatro russo nell’adattamento del regista Leo Muscato, la corruzione palese era, come nella Russia zarista di allora, un fatto quotidiano, un nutrimento su cui contava ognuno, nel suo habitat, per sopravvivere meglio. Potendolo fare, bisognava trarre vantaggi da ciò che girava intorno.

Ah poracci! Il termine si potrebbe adattare alla perfezione a tutti i protagonisti della piece di Gogol. Chi più, chi meno. Ai nostri occhi sono apparsi ridicoli da diventare divertenti mentre cercavano di coprire la miseria delle situazioni che erano chiamati a governare. Fra questi il Sovrintendente alle Opere Pie, interpretato da Gennaro Di Biase con il medico, Elena Aimone, sembravano parodiare una sanità efficiente, ottenuta con le migliori cure. Migliori cure? Nessuna terapia, suggeriva la medichessa con un alito così profumato da far ammattire una puzzola, se non quella rimediata dagli anticorpi del malato. Metodi naturali. Ebbene,  morti veloci e naturali. Letti vuoti, bare piene. Tutto lindo? No. Anche la biancheria si cambiava poco. Una volta al mese. Tutto bene … Forse non proprio …

Qualche sentore di malasanità, di malagiustizia, … di una scuola che non educa e delle comunicazioni che non funzionano, lo possiamo capire anche noi che siamo spettatori in sala e testimoni  di un sistema che in più luoghi del nostro pianeta presenta crepe. Non servivano “recitazioni ad effetto” per spiegare la corruzione che nella Storia e nel mondo ha visto attori e vittime. E per attori si intendono gli autori di azioni disoneste. Basta la vita e il suo svolgersi come nella piece di Gogol a ridicolizzare l’operato di malfattori e corruttori. La sottile ironia, i  fraintendimenti e i paradossi diventavano nella commedia protagonisti  essi stessi nel condensare gli effetti dannosi di azioni sbagliate. Quanta paura per l’arrivo dell’ispettore statale che sarebbe venuto a controllare l’operato del podestà e dei suoi collaboratori in quel luogo che si raggiungeva dopo lunghi e lunghi giorni di viaggio dalle grandi città. Cosa avrebbero potuto o dovuto dire, spiegare, … dilemmi,  timori …

 Ma forse anche qui il denaro o qualcosa di equivalente … regali forse,  avrebbe potuto risolvere tutto. Uno scambio di persona origina l’equivoco. E il presunto ispettore, Chlestakov, interpretato da Daniele Marmi, con il suo cameriere e senza soldi per averseli tutti giocati, capisce l’errore in cui sono incappati in quel lontano paesino russo lontano dalla sfarzosa San Pietroburgo.

Ne approfitta anche lui  e “si fa prestare” dai potenziali corruttori una bella somma di  denaro. La beffa viene scoperta dal postino che leggeva tutte le missive come quella del presunto ispettore che scrive proprio a Gogol, raccontandogli, prima di fuggire da quel luogo, l’avventura pazzesca che gli era capitata.  La neve cadeva nella bella scenografia di Andrea Belli. Sulla scena ai lati,  si delineavano in fila diagonale, isbe piccole e grandi che digradavano in profondità. Le luci e le musiche ritmate ricreavano un tempo e uno spazio che ci faceva sentire  nella lontana Siberia. E l’assurdo ci faceva sorridere.

La rigidità dei protagonisti che potevamo osservare nelle volontà “ammaestrate”  dall’ambiente in cui gli era capitato di vivere segnavano il dramma dell’uomo di ogni tempo, incapace  di sottrarsi all’ingranaggio della corruzione che alla fine stritola. E nella Russia di oggi  di cui scrivono nel Tesoro di Putin i  due giornalisti Jacopo Iacoboni  e Gianluca Paulucci, poco meno di cent’anni dopo la commedia di Gogol, si svela un sistema economico “mostruoso” nel creare ricchezza per pochi. Altri casi sono avvenuti  nel nostro paese  come il sistema di favoritismi nel Fascimo o Tangentopoli.

 E ora … ? Una  commedia L’Ispettore Generale che insegna molto anche ai giovani, come quelli che ieri sera erano in sala.  Non dimentichiamo  di controllare  in ogni occasione “il grado di acidità” della nostra società.                                                     

Patrizia Lazzarin, 25 febbraio 2024

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Pre-raffaelliti, il Rinascimento moderno

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La fascinazione per l’arte italiana rinascimentale, capace di trasformarsi in un’avvincente  storia d’amore, è la stella che illuminò il  cammino del  movimento dei Preraffaelliti. Questo accadde nello stesso periodo storico in cui, come afferma l’inglese Elizabeth Prettejohn, una delle curatrici dell’esposizione che si apre oggi a Forli, nel  Museo Civico di San Domenico, la pittura e le arti decorative britanniche cominciarono ad attirare l’attenzione dei critici e del pubblico di tutto il mondo. Mentre la letteratura della patria di Shakespeare era celebrata da tempo, le arti visive non erano mai state un punto di forza di quel popolo.  

Il mutamento  si origina nell’Ottocento durante il regno della Regina Vittoria. Nel 1882 Oscar Wilde, durante le sue conferenze in America, esprimeva già questa convinzione che si traduceva anche nella consapevolezza della nascita di un’arte nuova con  caratteri di originalità. “Lo chiamo Rinascimento inglese perché è indubbiamente una rinascita dello spirito  dell’uomo, analoga al grande Rinascimento italiano del Quattrocento”.

La Confraternita dei Preraffaelliti nacque a Londra nel 1848 e fu un movimento d’avanguardia che rovesciò le ortodossie artistiche correnti per sostituirle con nuove prassi critiche. Si formò proprio in quell’anno il 1848, come sottolinea nel catalogo della mostra, il curatore americano Peter Trippi, quando nell’Europa continentale scoppiarono le rivoluzioni e la non meno violenta variante inglese, ovvero il movimento cartista che chiese una “carta del popolo”  che garantisse il suffragio e lo scrutinio segreto per tutti gli uomini dai ventuno anni in su …

I soggetti scelti dai  Preraffaelliti si legavano a temi morali, religiosi e sociali, spesso stupefacenti per la maggior parte del pubblico del tempo  e utilizzavano unitamente alle tecniche tradizionali altre sperimentali. I suoi fondatori William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti e poi i loro primi seguaci erano animati dalla convinzione che sono nell’arte del Trecento e del Quattrocento ci fosse spontaneità e sincerità. La loro ricerca si volse a valorizzare le componenti sentimentali ed interiori e al tempo stesso aspetti dell’onirico e dell’irrazionale. Essi anteposero a Raffaello e soprattutto ai suoi seguaci, accusati di formalismo, artisti come Cimabue, Giotto e i giotteschi, Taddeo di Bartolo, Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, i due Lippi, Rosselli, Verocchio e Botticelli e tutti gli altri autori del Quattrocento italiano.

Fra i maestri che ammirarono vi furono soprattutto quelli toscani. In momenti diversi si ispirarono a Sandro Botticelli e poi anche a Michelangelo, per guardare infine all’arte veneziana di Veronese e Tiziano. Già nella prima sezione della rassegna la presenza di alcuni artisti come Leighton, Burne-Jones, Cayley Robinson e Pomeroy, appartenenti a diverse generazioni, chiarisce il tema di tutta l’esposizione.

L’attenzione nei confronti di Venezia, al contrario di Roma, ha costantemente accompagnato lo sviluppo della poetica dei Preraffaelliti, spiega  il curatore Francesco Parisi, nel catalogo pubblicato da Dario Cimorelli Editore. Tuttavia, in seguito i suoi esponenti modificarono nei loro viaggi la consueta traiettoria toscana- veneta.  Nella capitale romana, con il suo immenso patrimonio di storia, arte e cultura essi potevano ammirare molte opere di Michelangelo e di Botticelli,  come fece il protagonista della seconda generazione, Edward Burne-Jones.

Sappiamo in molti, come ha sottolineato Cristina  Acidini, un’altra studiosa e curatrice dell’esposizione come la bellezza delle figure femminili ritratte dagli esponenti della Confraternita ancora oggi influenzino il concetto di bellezza moderna e la moda. Sono donne di una bellezza sensuale, enigmatica, in cui si leggono sentimenti nostalgici  e con un’aria a volte sfuggente al nostro sguardo che le ammira. Quest’esposizione che a buon diritto e non per pura retorica si può affermare, che per innumerevoli prerogative, abbia una struttura e modalità spiccatamente internazionali, ha il merito di valorizzare anche l’aspetto creativo di quelle che sono considerate le Muse  del Movimento dei Preraffaelliti.

Elizabeth Siddal, Christiana Jane Herringham, Beatrice Parsons, Marianne Stokes e Evelin de Morgan contribuirono infatti anche a plasmare l’identità estetica con una loro produzione che la rassegna documenta in modo chiaro.

Cristina Acidini spiega,  ancora nel catalogo,  che il mondo dantesco fu importante per le iconografie dell’arte preraffaellita, ma non fu il solo a cui si ispirò la Confraternita londinese. Boccaccio e occasionalmente Petrarca furono fonti da cui trarre temi per la loro arte. La scoperta del ritratto di un giovane Dante negli anni Quaranta del Quattrocento dipinto da Giotto  al Bargello di Firenze e la  conoscenza grazie al padre, studioso dantista, di una copia di esso da parte di Dante Gabriel  Rossetti, introduce nell’arte di quest’ultimo un mondo di sentimenti e di fisionomie che si staccano dalla precedente tradizione.

Fra gli artisti in mostra George Frederic Watts e Frederic Leighton, non così noti al pubblico italiano. Il secondo che fu anche presidente della Royal Accademy, ebbe il merito di diffondere in maniera efficace la cultura italiana in Gran Bretagna. Le opere dei due artisti inglesi vengono messe nell’esposizione a confronto con quelle di Paolo Veronese e di Tiziano.

La mostra diretta da Gianfranco Brunelli è organizzata dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con il Comune di Forlì. Il progetto di allestimento, ricco di effetti, è curato dallo Studio Lucchi & Biserni.

Essaha la curatela di Elizabeth Prettejohn, Peter Trippi, Cristina Acidini e Francesco Parisi con la consulenza di Tim Barringer, Stephen Calloway, Charlotte Gere, Véronique Gerard Powell e Paola Refice.

L’unicità della rassegna è data anche dal numero di opere che potremmo conoscere ed ammirare: oltre 300 tra dipinti, sculture, disegni, stampe, fotografie, mobili, ceramiche, opere in vetro e metallo, tessuti, medaglie, libri illustrati, manoscritti e gioielli.

L'esposizione che sarà visibile fino al 30 giugno 2024 mira infatti a narrare la storia delle tre generazioni di artisti associati o ispirati al movimento Preraffaellita, attingendo ai capolavori dei più prestigiosi musei e  collezioni.

Patrizia Lazzarin, 24 febbraio 2024

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Henri de Toulouse-Lautrec, “Oltre” la Belle Epoque

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L’Arte è un volano che trascina le genti  nei colori e nelle atmosfere del sogno e la sua tavolozza e i suoi pennelli originano emozioni di variegata natura. Quando l’espressione artistica cresce sulle fondamenta della libertà, come avviene con  artisti come gli Impressionisti, i Fauves e tantissimi altri, lo spettatore si ferma e si pone davanti all’opera per “sentirla” e capirne il senso che attraversa o precorre il Tempo. Henri de Toulouse Lautrec, l’artista  nato nella seconda metà dell’Ottocento da una famiglia dell’aristocrazia della provincia francese ha avuto uno sguardo curioso, indifferente alle convenzioni del mondo da cui proveniva, amante della Parigi notturna che lo portava nei luoghi dove pullulava un’umanità diversa, formata da letterati, artisti, ballerine, giovani bevitori di assenzio, una moda del tempo e, dalle donne da cui si poteva  acquistare  il piacere dei sensi.

Nella capitale francese dai muri tappezzati di manifesti, nel 1891 il suo Moulin Rouge La Goulue avviò una rivoluzione grafica qualificandolo da subito come maestro in questo genere. Nella conferenza stampa che si è tenuta oggi a Palazzo Roncale per la presentazione della mostra che si aprirà domani a Palazzo Roverella, intitolata al grande pittore francese, si è parlato di lui in maniera ampia e soprattutto rivelandone aspetti meno studiati, ma interessanti come la trama di relazioni con gli amici artisti e letterati in grado di definire in maniera  nuova anche la sua personalità e il suo fare artistico.

 La mostra è dunque un tuffo nella Parigi della seconda metà Ottocento, dove ritroviamo artisti come Edouard Villard, Charles Maurin, Edgar Degas, Felicien Rops, Alexandre Charpentier, Paul Signac, musicisti come Erik Satie, Gabriel Fabre, poeti come Paul Verlaine  e molti altri … Parigi pullula di cafès-concerts e di cabaret dove la gente può ballare ed assistere a spettacoli di vario genere. Montmartre, Il Moulin Rouge, Il Moulin de la Galette, l’Elisèe-Montmartre, Le Chat Noir e Le Mirliton sono i luoghi della vita notturna di cui l’artista fu testimone e attore.

 La conferenza è stata animata anche dalla presenza in sala del nipote di Gabriel Tapié de Céleyran, doppio cugino primo e amico intimo di Henri Toulouse – Lautrec, nonché proprietario della sua casa ad Albi di cui conserva gli archivi di famiglia. Egli ci ha deliziato con un paragone abbastanza sorprendente fra il lontano avo e lo scrittore delLa Recherche: Marcel Proust. Non esistono notizie che si siano mai incontrati, ma entrambi furono residenti a Parigi nello stesso periodo e frequentarono gli stessi caffè, ristoranti e luoghi di spettacolo sulla rive droite della Senna. Mentre Toulouse Lautrec fece di tutto per lasciare l’ambiente aristocratico da cui proveniva, Proust fece al contrario ogni tentativo per entrarvi. Fra le tante differenze e affinità che li differenziavano e li univano ho  deciso di  evidenziare alcune di quest’ultime.

Esse sono l’amore per la madre e la nonna, la visione del mondo mista di lucidità e franchezza, la frequentazione di case chiuse e di luoghi di piacere  e il gusto per il teatro. Entrambi  si assomigliano anche per la derisione e ipocrisia di cui furono oggetto: Proust per le origini ebree e l’omosessualità, Toulouse Lautrec per la bassa statura e per la provenienza da una famiglia aristocratica cattolica, allora presa di mira negli ambienti anticlericali della Terza Repubblica. Li unisce in particolare il loro impegno nel mondo dell’arte e della letteratura che ha lasciato ai posteri le opere che ammiriamo, nonostante non avessero la necessità di lavorare.

E facendo riferimento ad una espressione entrata nel linguaggio comune come quella delle odorose “Madeleine di Proust”, nelle loro opere noi percepiamo colori, gesti, persone e cose capaci di restituirci il “profumo” o meglio l’essenza di un’epoca trascorsa. La mostra che sarà visibile al pubblico fino al 30 giugno 2024 è stata promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi.   Prodotta da Dario Cimorelli Editore ha  la curatela  di Jean-David Jumeau-Lafond, Francesco Parisi e Fanny Girard, la direttrice del Museo Toulouse-Lautrec di Albi,  in collaborazione di Nicholas Zmelty.

Come dentro un cofanetto in cerca di gioie sparse, mentre passeggiamo fra gli spazi dell’esposizione si rivelano pezzi di storia che si pensavano perduti o non si conoscevano. Le Chat Noir, Il gatto nero, il locale che cambio l’immagine di Montmartre, nato nel 1881 dall’intesa fra Rodolphe Salis e Èmile Goudeau divenne allora il simbolo dell’emancipazione dagli ambienti ufficiali. Un ambiente innovativo dove un pianoforte normalmente vietato nei bar, permetteva ai cantanti di esprimersi e ai poeti di declamare i loro versi. La pubblicazione della rivista Èvénements, il linguaggio provocatorio di Salis, il teatro delle ombre di Henri Riviére, le poesie macabre di Maurice Rollinat e la frequentazione di persone come il futuro Edoardo VII o l’imperatore del Brasile distinsero il luogo per la sua unicità.

Altro tassello di un mosaico parigino si spiega  anche la rassegna  delle Arts incohérentes, organizzata da Jule Lévy nel 1882 a cui partecipò anche Toulouse Lautrec e che fu un evento a metà strada fra farsa e provocazione. Esso si scopre nella rassegna di Palazzo Roverella a Rovigo,  quando ormai se ne erano perse le tracce  e per farci conoscere le opere in cui potremmo vedere già alcune anticipazioni del movimento Dada, del Surrealismo e dell’arte astratta.

Nel suo insieme l’esposizione di Palazzo Roverella ricostruisce l’intera attività di Toulouse-Lautrec, attraverso 60 opere realizzate dall’artista  e più di 200 opere complessive esposte.  Avremmo così la misura  più chiara  della vivacità della scena artistica parigina del tempo, superando il riduttivo concetto di Belle Époque.

Patrizia Lazzarin, 22 febbraio 2024

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