Egloga Xi, poesia del paesaggio e dell'umano

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La nudità dei corpi che ne svelava la delicata vulnerabilità si è prestata al desiderio di purificare  la Storia dell’essere umano, bagnata da un  sangue copioso e millenario, sgorgato senza una plausibile ragione. Le parole degli attori  si univano, attraverso il  sentimento ai gesti, nel tentativo  di definire una poetica dove cogliere la sofferente corporeità dell’essere umano per sua natura predisposto a terminare la sua esistenza per un piccolo accidente.

Egloga XI, lo spettacolo andato in scena ieri sera, in quel piccolo scrigno che è il Teatro Accademico di Castelfranco Veneto, trae ispirazione dai componimenti del  poeta Andrea Zanzotto che “cantavano” come Virgilio, negli scritti omonimi, il tema della vita pastorale, l’amore e il desiderio di quiete dove poter crescere la pienezza della poesia. La poesia anche nel dialogo ricco di effetti di Leda Kreider e Marco Menegoni “sgorgava” dalla vista di un paesaggio dove gli alberi e il verde riempivano il quadro.

 Il luogo, o meglio il dipinto, era un’immagine che riproduceva il capolavoro del Giorgione, La Tempesta, un vero omaggio alla magia della Natura. Svuotato della presenza umana rappresentata  dalla donna che allattava e dal soldato, il luogo sembrava attirare nelle sue profondità, simile ad un bosco che virava nelle sfumature dei toni e dei colori, indicando sentieri da percorrere. La poetessa e il poeta, con le parole, alla stessa maniera dell’artista, con colori e pennelli, in quell’ambiente cercavano e raccoglievano osservazioni per un ragionamento sul significato della Vita.

Immagini e simboli che si riconducevano al nostro background  culturale inventavano un nuovo linguaggio che a volte sembrava distruggere, ma solo per desiderio di creare. Creare …  l’invenzione del poeta sembrava rendere più vivibile e forse anche bello e migliore un universo segnato dalla violenza del guerriero e dalle guerre di ogni tempo. Emozioni istantanee e peregrine cercavano un’opportunità per ancorarsi alla Poesia. Parole appartenenti a lingue diverse: italiano, veneziano e diversi dialetti,  inglese costruivano  un linguaggio allegorico simile ad un puzzle i cui pezzi andavano assemblati seguendo la nostra ispirazione, nel modo tuttavia significante. Così anche Zanzotto mescolava termini italiani e latini.  

Ieri sera gli artisti hanno lanciato frasi  e parole slegate, gettate e riprese in un’impresa metalinguistica dove la balbuzie dell’uomo primitivo sembrava affacciarsi timorosa e allo stesso modo preoccupante ai nostri occhi. Al contrario brani di concentrato lirismo miravano a  condensare la bellezza dell’Arte che essa svela  come azione creativa.  Gli attori che hanno recitato fanno parte della Compagnia Anagoor che in pochi anni ha saputo guadagnarsi  l’attenzione del pubblico italiano ed europeo.

Vincitrice del Leone d’Argento per il Teatro alla Biennale Teatro 2018 e di numerosi altri premi in Italia e all’estero, essa ha condotto un lavoro profondo sulla ricerca del linguaggio. Si origina  da un’idea di Simone Derai e Paola Dallan ed è concepita come un collettivo aperto al quale partecipano in prima istanza Marco Menegoni, Moreno Calligari, Mario Martinuz, Giulio Favotto e  molti altri artisti provenienti da diverse formazioni.

Venne costituita  nel 2000 a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso e  trova oggi la sua dimora in un suggestivo luogo consacrato alla ricerca, La conigliera, dove vengono realizzate rassegne, residenze teatrali e numerose attività dedicate alla musica e all’arte contemporanea. Come in Zanzotto che descrive  paesaggi incontaminati, caratterizzati dalla presenza   di piante   spontanee, ruscelli   e prati illuminati   dalla   luna, siamo andati in cerca ieri sera con Anagoor  di un “paesaggio” che rischia o forse è già scomparso. Lo spettacolo è compreso nel Circuito Teatrale Regionale di Arteven.

Patrizia Lazzarin, 2 marzo 2024

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Vita e morte di un padre della democreazia

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In occasione del centenario della morte, il percorso umano e politico di Giacomo Matteotti viene celebrato da una grande mostra, ospitata al Museo di Roma a Palazzo Braschi, dal 1° marzo al 16 giugno.

L’esposizione: “Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democraziaripercorre la vita del leader socialista, deputato e segretario del Partito Socialista Unitario. Si inizia dagli esordi giovanili all’affermazione nazionale per continuare con le  battaglie per la democrazia all’opposizione al fascismo di cui aveva compreso fra i primi la natura totalitaria, fino al brutale omicidio perpetrato dal regime mussoliniano.

Con la profonda dignità e l’alto senso civico dimostrati in un tragico momento della nostra storia, Matteotti è diventato l’archetipo dell’avversario tenace e incorruttibile del fascismo. Un esempio il suo, animato da un solido imperativo morale e da un forte slancio civile che ancora interroga la vita politica e culturale del nostro Paese.

L’intento della mostra è quello di restituire al grande pubblico il valore di uno dei padri della nostra democrazia e di farlo conoscere alle nuove generazioni, con approfondimenti multimediali, iniziative formative e un linguaggio immediato.

La mostra si avvale degli importanti prestiti di Fondazione Pietro Nenni, Archivio di Stato di Roma, Archivio Centrale dello Stato, Archivio Storico della Camera dei Deputati, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Accademia dei Concordi e  Archivio Marco Steiner.

Grazie  all’autorevolezza delle istituzioni coinvolte e ricca di materiali inediti, la rassegna annovera documenti originali – con particolare riferimento agli atti istruttori e giudiziari, mai mostrati in precedenza, che sostanziano il percorso interpretativo – tra fotografie, manoscritti, oggetti, libri d’epoca, articoli di giornali e riviste, filmati e documentari, opere d’arte, sculture, ceramiche, quadri, nonché brani musicali dedicati al leader politico.

L’esposizione è suddivisa in quattro sezioni che ripercorrono la vita di Matteotti e il drammatico passaggio dallo Stato liberale alla dittatura fascista.

La sezione Il giovane Matteotti registra il suo impegno in Polesine a favore di braccianti e mezzadri, la carriera accademica, l’attività pubblicistica per “La Lotta” e l’adesione al Partito Socialista.

Quella sull’Impegno politico nazionale 1919-1924 ne distingue l’attività parlamentare, l’azione politica contro il fascismo, considerato da subito un pericolo mortale per le istituzioni democratiche, e gli squadristi, intesi quale “guardia bianca” degli interessi agrari e dei “collaborazionisti”, in seno al neonato Psu di cui è segretario.

La sezione Sequestro e morte 1924-1926, partendo dall’affermazione alle elezioni del 1924 del Psu quale partito più forte della sinistra, include il celebre discorso del 30 maggio 1924 in Parlamento contro i brogli e le violenze dei fascisti.  Vediamo le testimonianze  del sequestro di cui fu vittima il 10 giugno 1924 a Roma, dell’assassinio e del ritrovamento del cadavere il successivo 16 agosto fino al  processo-farsa di Chieti.

Infine la sezione Il mito di Matteotti focalizza il lascito fattuale e ideale del politico, dalle commemorazioni alle Brigate Matteotti fino alla perdurante residenza nell’immaginario collettivo perché, come lui stesso ebbe a dire: “Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai … La mia idea non muore”.

 “Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia” è corredata dal catalogo edito da Treccani.

La mostra, promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali ha la  curatela  di Mauro Canali con la direzione e il coordinamento generale di Alessandro Nicosia.

Viene organizzata e realizzata da C.O.R. Creare Organizzare Realizzare con l’Associazione culturale Costruire Cultura e con il supporto organizzativo di Zètema Progetto Cultura, sotto il patrocinio del Ministero della Cultura.

Ha partecipato Archivio Storico Luce, Rai Teche, Fondazione Pietro Nenni e AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.

Patrizia Lazzarin, 29 febbraio 2024

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Cassandra o dell’inganno… del nostro tempo

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Il verde lucente della foglia che simboleggia la freschezza della primavera ritma il trascorrere del Tempo sul rigo dello spartito musicale. Un tempo ciclico fatto di stagioni che si susseguono: primavera, estate, autunno, inverno e poi ancora  il verde della foglia sul ramo, lì in alto, che si fa guardare e che annuncia la rinascita. Per gli antichi Greci e anche in alcune religioni orientali il Tempo era raffigurato come un’enorme Ruota. In quel luogo simile all’Infinito tutto si può immaginare che si  ripeta con una circolarità incessante.  Il nostro Tempo, quello che Elisabetta Pozzi ha narrato ieri sera nella tragedia di Cassandra o dell’Inganno, al Teatro Monaco di Treviso insegna altro.

Perché attingere al mito di Cassandra, la troiana fatta prigioniera dal re Agamennone e voluta come sua concubina  dopo la conquista di Troia? La profetessa Cassandra era una giovane bellissima che sapeva predire il futuro e che non era creduta per la maledizione del dio Apollo che di lei si era invaghito, ma che  era stato rifiutato. Il Tempo di cui Elisabetta Pozzi ha cantato i suoni e le voci che si propagavano in una Natura ancestrale odorava di dolore.

Giunti negli spazi dell’Antica Micene, lì dove il Mito mostra, sul carro del vincitore, Cassandra schiava, sembrava che fossimo tornati dentro quel Tempo circolare. Diverso da quello lineare  proprio della Scienza e della  religione cristiana che vediamo proiettate,  la prima verso il progresso  e la seconda  in un luogo oltre questa Terra. I miti sono vivi ancora oggi  e ci  raccontano  la parabola di una società  smarrita nei suoi valori.  La figura di Cassandra,  interpretata da Elisabetta Pozzi, nasce dalle parole di Seneca, Eschilo ed Euripide, ma anche da quelle più vicine della scrittrice tedesca Christa Wolf.

Con la collaborazione dell’autore e giornalista Massimo Fini, Pozzi traccia il percorso  del mito portandolo all'oggi per indagare la nostra civiltà orfana di identità. Cassandra è ancora l’emblema della lucidità, capace di vedere i cavalli di Troia che la nostra società ha accolto condannandosi alla catastrofe. Quali sono i cavalli di Troia della contemporaneità? Potrebbe il progresso che nella sua folle corsa ha cancellato parte delle nostre tradizioni e  dei nostri miti far scomparire la nostra cultura e la nostra memoria. Rovine, resti, memoria … Suoni infiniti nella notte, dentro la nostra anima.

Le parole di Christa Wolf spiegano anche Cassandra come l’abbiamo “sentita ieri” nel suo dolore dichiarato a voce alta, nel senso di estraneità patito e nella sua immensa solitudine che la segrega assieme  ai pazzi. I passi dell’attrice nelle sue ampie falcate restituivano l’immagine dell’eroina che cammina su una Terra dove gli uomini stanno scomparendo imbarbariti dalle violenze e dalla mancanza di pietà.

Pietas …  Andiamo verso l’epilogo  … o un inizio … ?

Guarderemo la realtà o vivremmo ancora, per quel poco tempo che rimane, di illusioni?

Wolf  ha spiegato il valore della letteratura per l’essere umano.

Ci serviamo del mito per recuperare quindi significati, l’importanza della parola scritta e il ruolo decisivo che la lettura svolge per la formazione della soggettività e della coscienza individuale. La letteratura ci aiuta a confrontare, capire e giudicare, ci guida nel processo di conoscenza della realtà esterna e degli altri, ci insegna a prendere le misure, a delimitare i confini del nostro Io, ad acuire il senso del tempo, a incanalare le emozioni e ad affinare i sensi.

Immaginiamo, scrive l’autrice, che “una forza, non meglio definibile, estingua con un colpo di bacchetta magica ogni traccia impressasi, mediante la lettura di libri di prosa, nel mio cervello”.

Un mondo di non-lettori, prospettiva spaventosa e certo assurda (benché illuminante sotto il profilo teorico), equivarrebbe a dire un mondo di esseri rozzi e imbarbariti: dalla psiche individuale scomparirebbe la percezione della profondità storica, i sensi diverrebbero opachi, la coscienza sfocata, “perché io, senza libri, non sono io”, afferma la Wolf.

Patrizia Lazzarin, 28 febbraio 2024

 

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