I disastri dei demagoghi

Nel maggio 2017 uno dei più autorevoli periodici europei, Der Spiegel, pubblicava un pesante e profetico giudizio sul neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Fra le definizioni usate vi erano quelle di essere “incapace di essere presidente…”; “Egli non legge. Non si preoccupa di leggere dossier importanti e conosce poco degli argomenti da lui identificati come priorità. Le sue decisioni sono capricciose e sono prese sotto forma di tirannici editti”...; “Gli USA hanno eletto come presidente un buffone e sono ora succubi di uno scherzo di uomo. Il Paese è, come ha recentemente scritto David Brooks del New York Times, succube di un bambino”; egli è un misero politico..un misero capo…un pericolo per il mondo…”.

    Se i comportamenti del presidente americano riguardo a una miriade di eventi hanno ampiamente confermato i suddetti giudizi, quelli riguardanti l’epidemia di Covid 19 li rendono ancora più tragicamente profetici e ancora più inquietanti.

    Un mese fa egli affermava con disinvoltura che gli USA sono ”totalmente preparati..tutto è sotto controllo..il virus è come un’influenza..vi sono 15 infetti, che  probabilmente saranno due o tre nei prossimi giorni e magari il virus sparirà del tutto.” Queste affermazioni erano dettate dal suo “istinto”. Una decina di giorni dopo affermava di “non essere per niente preoccupato”. Dichiarava che in fondo erano stati registrati solo 240 casi e 11 morti e che il virus era una “hoax” (frode) del partito democratico ingrandita dai mass media.

    Contrariamente a tali fantasiose e distorcenti proiezioni, il virus non si è volatilizzato, i contagi registrati ovvero noti sono ormai 100.000 e il numero di morti è salito a circa 1700. Con un sistema sanitario carissimo, organizzato per pochi privilegiati e del tutto impreparato ad emergenze e assistenze di massa, nonostante l’Obamacare, gli unici che reagiscono con buon senso  sono i governatori dei vari Stati, che cercano di fronteggiare la crisi in maniera autonoma, dati i ritardi e le indecisioni del governo federale. Imperterrito, qualche giorno fa, il Presidente americano ha comunque affermato che bisogna ritornare al lavoro presto, magari per Pasqua. Sempre sulla base del suo “feeling”, inoltre, i 40.000 ventilatori implorati dal governatore di New York, Cuomo, gli sembravano eccessivi. Ribadendo che egli e i suoi collaboratori stanno facendo "un incredibile lavoro", egli ha anche  affermato che si stanno costruendo ospedali “in 3 giorni e mezzo”(sic). In realtà, come ha dichiarato proprio negli stessi giorni il Generale Todd Semonite, comandante in capo del corpo ingegneri dell’esercito, “è impossibile costruire un ospedale in un paio di settimane”. Come dire, un’altra incredibile e disinvolta diffusione di falsità.    

      Queste e altre simili irresponsabili stravaganze sono ineffabilmente partorite in contesti a loro volta non meno sconcertanti per leggerezza e stupidità. Tutti hanno notato che le conferenze del governo cinese e di quello sud-coreano in merito al Covid 19 sono state tenute con gli astanti debitamente lontani fra loro e muniti di mascherina. I briefings della Casa Bianca e il recente regalo di penne a uno stuolo di docili presenti per celebrare la firma di un decreto mostrano invece individui, Presidente incluso, a stretto contatto di gomito (o quasi di guancia) fra di loro e senza mascherine… Il contrasto fra il crescendo esponenziale dell’epidemia e l’inadeguatezza del sistema e delle strutture sanitarie, da una parte, e questa sequenza di velleitarie mistificazioni  dall’altra non potrebbe essere più clamoroso. Visto il trend esponenziale del contagio e dei morti, gli USA rischiano di pagare un prezzo altissimo per il ritardo, l’ostinazione e le millanterie di un uomo.

     Le stesse considerazioni possono essere fatte per i loro cugini sull’altro lato dell’Atlantico. Assieme alle disinvolte proiezioni johnsoniane circa le famigerate “immunità di gregge”, vanno qui menzionate le sue imperturbabili dichiarazioni di non molti giorni fa, quando egli ha affermato di stringere tutti i giorni senza problemi  decine di mani (naturalmente, senza guanti e maschera). Nel frattempo,  continuavano e continuano a funzionare le metropolitane con i vagoni stipati di persone, la maggior parte senza protezione alle mani e al viso.

     Per una sorta di impietosa nemesi, il Primo Ministro britannico Boris Johnson, il Segretario alla Sanità Chris Whitty, e anche il ministro della Sanità Nadine Dorries, risultano ora essere positivi al virus. Supposto anche che si tratti di nemesi e senza augurar loro di passare le forche caudine dell’immunità di gregge, il fatto non costituisce una consolazione. Anche in questo caso, la leggerezza, il dilettantismo e caparbia ostinazione di pochi individui nel sottovalutare l’epidemia sono una delle cause fondamentali della rapidità con cui essa si sta diffondendo in tutta la Gran Bretagna. Le precipitose misure restrittive di questi giorni avvengono con almeno tre settimane di ritardo durante le quali l’ininterrotta promiscuità sociale deve avere disseminato un numero non quantificabile di contagi.

     I due comportamenti “atlantici” sopra citati non sono evidentemente gli unici responsabili del caos attuale, ma è impossibile sottovalutarne i perniciosi contributi, il loro effetto catalizzante. Quando Marx e i suoi seguaci coltivavano il farraginoso castello dei mezzi e sistemi di produzione come motori della storia, stavano evidentemente sottovalutando l’insostituibile ruolo degli individui nel provocare disastri o nel non saperli fronteggiare con buon senso. Che poi a tutto ciò si aggiungano in questi giorni, specie in Europa, le tensioni, le tendenze disgregatorie, le miopie e gli egoismi nazionali è in fondo un déjà vu di tristi memorie.

     In un’epoca straripante di teorie cospiratorie, i momenti attuali favoriscono evidentemente galoppanti fantasie di biechi piani di origine russa o cinese di accerchiamento dell’Occidente (ovviamente “anglosassone” con succube damigelle mediterranee di contorno). Il vittimismo e i capri espiatori sono la tipica arma degli ignavi e degli scaricabarile. Mai come in questo momento dovrebbe apparire chiaro come la coesione dell’Europa, minata oltre che dall’epidemia anche dalla diminuzione delle nascite, dalla strisciante invasione islamica e dalla mitomane fuga britannica, parzialmente soggiogata da pretestuose protezioni militari Nato, sempre più dimentica delle sue tradizioni e della sua storia culturale, drogata da un sistema di informazioni di massa che alleva e livella stuoli d’imbecilli, ammalata di pseudo-pietismi e bonomie condite di ignoranze caprine, insomma l’eredità dell’Europa (ovviamente, per chi ci crede) mai è stata altrettanto minacciata.

    Il déjà vu non è del resto solo di natura politica o diplomatica. Lo scenario ricorda sotto molti punti di vista altre simili atmosfere di isteria religiosa e non. Mentre in Italia l’ex Premier Renzi appare in sintonia di facilonerie criminose  con Donald Trump, rivendicando anche lui la necessità di ritornare al lavoro quanto prima anche a costo di convivere col virus “per anni “(sic) – per coerenza dialettica, dovrebbe porsi il quesito se lui apparterrebbe alla categoria dei sopravvissuti – non è che manchino anche gli untori di manzoniana memoria. I canali TV che hanno ammorbato impuniti per decenni i salotti e le cucine di intere generazioni con demenziali giochi e trasmissioni di-tutto-un po’ ora ammanniscono compunti pluri-giornalieri resoconti di scamiciati che cantano dai balconi, rubando la trama alle storie più edificanti. Anche le sciagure e le storie più patetiche si prestano insomma allo spettacolo. Non a caso, del resto, i presentatori anglosassoni chiamano show i loro programmi. C'è da chiedersi come mai, assieme ai ristoranti e ai bar, non mettano in quarantena domiciliare sine die anche il petulante manipolo di sussiegosi (e inutili) conduttori e conduttrici.

    L’aura religiosa serpeggia infine dai pubblicisti fino a San Pietro. Mentre c’è chi cerca misteriosi rimedi nelle lettere di San Paolo, il Papa promette indulgenze liberatorie collettive ai malati in primis. Non si sa se perché sono in pericolo di vita o perché hanno più peccati da scontare. Il salvataggio delle anime peccatrici rimane comunque l’obiettivo di fondo. Siamo in pieno medio evo. Ma se dall’empireo delle salvezze spirituali si scende sulla più prosaica vita quotidiana, si scopre che nessuno sa esattamente come e cosa fare. Le circolari e i decreti si moltiplicano, le maschere sarebbero e non sarebbero sempre necessarie, i servizi postali si sono arenati, i servizi pubblici lavorano a singhiozzo o al rallentatore e un intero sistema di pseudo-efficienze arranca. Il congelamento delle attività produttive sembra aver contagiato anche i gangli dello Stato, salvo la polizia e l'esercito che raccoglie bare.

   Solo colpa dell’epidemia o la malattia esisteva già ben prima che il virus apparisse?

Antonello Catani, 28 marzo 2020

    

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Il dilemma delle elezioni Usa

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Il coronavirus faciliterà od ostacolerà la rielezione di Trump? Se lo chiedono in tanti, ma, prima di questo, bisogna chiedersi se e come si voterà a novembre per la Casa Bianca e per il rinnovo del Congresso. L’ipotesi di un rinvio del voto se l’epidemia continuerà a espandersi negli Usa per tutta la primavera e anche in estate viene discussa, ma appare assai improbabile. Il presidente non ha poteri in questo campo: per spostare le elezioni servono leggi e anche una modifica della Costituzione. Il vero problema, al momento, è come garantire che gli americani possano votare in modo corretto e con scrutini a prova di broglio. Con un Paese bloccato in casa che si sta abituando a svolgere online molte attività — dalle lezioni scolastiche alle feste di compleanno — sono in tanti a ritenere che sia venuto il momento di trasferire anche le votazioni in modalità remota. Via computer o estendendo ciò che già esiste: i cosiddetti absentee ballot, il voto postale di chi non può recarsi ai seggi. In America il voto postale è già diffuso: nelle primarie viene ormai usato in modo abbastanza massiccio mentre nelle elezioni federali ci si muove con maggiore cautela, con grandi differenze in un campo nel quale ogni Stato sceglie le sue procedure. Oggi un terzo degli Stati richiede una valida giustificazione per non votare di persona (malattia, viaggi all’estero o altro), mentre gli altri offrono la mail in come opzione per tutti. Nelle elezioni di mid term del 2018, ad esempio, la maggioranza dei californiani ha votato per posta mentre nei 31 Stati meno «permissivi» la quota degli absentee ballot è stata inferiore al 15%. Ora i democratici chiedono che la possibilità di votare per posta venga data a tutti i cittadini in modo da mettere le elezioni al sicuro anche in caso di sviluppi imprevedibili della pandemia. Non è semplice in una materia così decentrata e con tempi stretti: tra l’altro andrebbero stampate decine se non centinaia di milioni di schede postali da spedire entro settembre. Due senatori, Amy Klobuchar e Ron Wyden, hanno presentato una proposta di legge per imporre a tutti gli Stati di predisporre sistemi di voto postale e/o elettronico se un quarto del Paese è in stato d’emergenza per il coronavirus o altri disastri. I repubblicani non si oppongono, né collaborano: difficile che si riesca a costruire in breve tempo una macchina così complessa e delicata per il rischio di manipolazioni.

Massimo Gaggi – Corriere della Sera – 27 marzo 2020

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Exit strategy

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C’è un dopo ma c’è soprattutto un “durante”, ha detto ieri Matteo Renzi al Senato, e questo durante potrebbe durare anche due anni: bisogna imparare a renderlo vivo e vivibile, e a convivere con il coronavirus. Il leader di Italia Viva ha alcune proposte – un unico decreto d’aiuto all’economia negoziato assieme, per esempio – ma soprattutto vuole spostare il dibattito non più (o non soltanto) sulle misure di restrizione, su cui l’Italia è stata rigorosa e disciplinata, ma sul loro superamento. Invece di discutere su quali aziende devono restare chiuse, cerchiamo “un codice per farle riaprire”, ha detto Renzi, sintetizzando il senso del “durante”. L’Italia che per prima è stata colpita dall’epidemia per prima deve pensare a un piano di normalizzazione: gli inglesi lo definiscono “endgame”, il finale. Naturalmente hanno tutti fretta, questo tempo sospeso e meno produttivo ha effetti economici molto pesanti: la lotta al virus ha bisogno di tempo, ma il rallentamento ha effetti di lungo periodo enormi. Il più impaziente è Donald Trump che ha già annunciato la riapertura dell’America entro Pasqua: a guardare i dati sul mercato del lavoro pubblicato ieri si capisce perché. La flessibilità che rende l’America tanto dinamica in questa fase di progressiva paralisi ha espulso dal mercato del lavoro tre milioni di persone, un record storico – e come dicono virologi e commentatori: è soltanto l’inizio. Trump invece immagina di poter imporre l’endgame, e appare spaventoso: non soltanto perché potrebbe essere prematuro, ma anche perché scatenerebbe una competizione tra stato e stato. Laddove c’è bisogno di solidarietà e coordinamento, la voglia di uscirne per primi potrebbe avere l’esito opposto. L’Unione europea sta cercando di pensare a una “exit strategy”, alle misure “necessarie per tornare a un funzionamento normale delle nostre società”. Il problema è: quando? Il premier britannico, Boris Johnson, aveva detto “dodici settimane” per uscire dalla crisi, ma ora la regola è: ci vuole la certezza che è possibile allentare l’isolamento. Ma la certezza non c’è, almeno da parte degli scienziati. Lothar Wieler, presidente del Koch Institut che controlla i numeri del contagio tedesco, ha detto a Politico Europe: “Non c’è una ricetta statistica, non c’è un manuale” in cui c’è scritto quando si può dare inizio alla normalità. In Francia, il comitato degli scienziati che consiglia Emmanuel Macron – comitato ampliato e ora molto più specializzato in crisi sanitarie – ha pubblicato un report in cui dice che l’isolamento deve durare almeno sei settimane, ma è un numero detto un po’ perché la politica chiede un arco temporale definito: il comitato non sa al momento nemmeno dire l’impatto delle nuove misure sui contagi e ha molti problemi a capire com’è la prospettiva per la tenuta degli ospedali, visto che sono gli stessi ospedali che devono fornire i dati, e ora non hanno tempo. Così anche il ministro della Sanità francese, Olivier Véran, ha dovuto dire: aspettiamo che la curva ci dica quando possiamo ripensare alla normalità. Il cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, è stato l’unico ad aver fornito una misura: dobbiamo arrivare al punto in cui i contagi raddoppiano nel giro di quattordici giorni, dopo di che possiamo pensare a un allentamento.

Oltre alla difficoltà di capire qual è il momento giusto per introdurre una exit strategy, c’è anche il problema del coordinamento. La Cina, che fa ancora da riferimento almeno per quel che riguarda le tempistiche (il punto d’inizio lo ha posto il regime di Pechino arbitrariamente), ha annunciato che chiuderà i propri confini agli stranieri a partire da domani: l’isolamento ricomincia. Poiché ogni paese è in questo momento molto condizionato dalle decisioni degli altri paesi, l’iniziativa nazionale ha effetti anche sugli altri e questo potrebbe rallentare l’exit strategy di tutti – o attivare quella competizione distruttiva che vedremo all’opera tra gli stati americani. Di fronte a tante incognite, molti commentatori dicono che “l’endgame” non c’è, non si vede, forse hanno ragione gli scienziati più restrittivi: è finita soltanto quando arriva il vaccino. Ma la sfida non è il finale, è questo in cui dovremo imparare non tanto a scorgere il dopo, quanto a trovare un modo per convivere con il virus.

Paola Peduzzi – Il Foglio – 27 marzo 2020

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