Trump e i dem. La tregua da virus

  • Pubblicato in Esteri

Duemila miliardi di dollari di spesa pubblica, quasi il 10% del Pil americano. La manovra che gli Stati Uniti si apprestano a varare non ha precedenti nella storia. Dà la misura del rischio che stiamo correndo: una Grande Depressione, paragonabile a quella degli anni Trenta nel secolo scorso. L’America riscopre il “manuale d’emergenza” che fu scritto sotto la pressione degli eventi dal presidente Franklin Roosevelt e ispirato dall’economista inglese John Maynard Keynes: solo lo Stato ha i mezzi per riempire il vuoto improvviso di reddito, di consumi e di investimenti. In mezzo a tante notizie tragiche almeno questo segnale positivo arriva da Washington: in un’America politicamente lacerata da anni, il pericolo è tale da aver resuscitato un’intesa bipartisan quasi miracolosa.

Era indispensabile visto che i repubblicani controllano Casa Bianca e Senato, ma i democratici hanno la maggioranza alla Camera; tuttavia non era scontato che si trovasse l’accordo presto e su misure di così ampia portata. I mercati finanziari lo hanno salutato con due sedute di rialzi, anche se è prematuro cantare vittoria contro lo shock economico in arrivo.

Nella manovra che passa alla Camera e che dovrebbe approdare presto sul tavolo del presidente, la sinistra è riuscita a strappare delle conquiste all’insegna dell’equità e della protezione dei più deboli. I democratici hanno fatto tesoro delle lezioni che loro stessi dovettero apprendere nel 2009. Allora l’Amministrazione Obama fu accusata — sia da sinistra che da destra — di aver regalato un salvataggio a Wall Street (oltre 700 miliardi) senza porre condizioni. In realtà vennero stabilite regole molto più severe contro la speculazione, e oggi il sistema bancario sembra più solido. Però mentre le grandi banche venivano di fatto nazionalizzate pro tempore , il governo non impose neppure dei limiti ai superstipendi dei banchieri. Oggi nella nuova manovra gli aiuti alle imprese sono sottoposti a condizioni: non devono licenziare i dipendenti se vogliono i prestiti pubblici; e non possono effettuare quei “buyback”, acquisti di azioni proprie, che servono ad arricchire i top manager sostenendo il valore delle loro stock-option .

Ancora più importanti sono i sussidi diretti ai lavoratori: assegni da 1.200 dollari a testa, 2.400 per nuclei familiari più 500 per ogni figlio a carico; un prolungamento delle indennità di disoccupazione e malattia; l’estensione di questo Welfare ai lavoratori precari della “share economy”, come autisti di Uber o fattorini delle consegne. Il capogruppo repubblicano al Senato ha parlato di uno sforzo economico da guerra mondiale. Si può ricordare che le grandi guerre — nello studio di Thomas Piketty — furono i rari momenti in cui le diseguaglianze cessarono di crescere perché anche i ricchi dovettero pagare la loro parte.

Poiché siamo in un anno elettorale ci s’interroga sull’impatto politico di una spesa pubblica di queste dimensioni. Donald Trump ha il suo tornaconto: non può permettersi di arrivare al voto del 3 novembre in recessione, vuole una ripresa a tempi brevi, perciò azzarda il suo “riapriamo tutto entro Pasqua”. I democratici, che governano gli Stati più colpiti dalla pandemia (New York, California, Washington), possono sostenere di aver tutelato i lavoratori. Il vero test però deve ancora venire e riguarda la tenuta del sistema sanitario. Anzi, dei sistemi sanitari perché vige una giungla di regole diverse a seconda delle assicurazioni private e degli Stati Usa. Tutto il dibattito sulla riforma di Obama e sulle differenze pubblico-privato ora avverrà sotto la pressione tremenda degli eventi. Trump ha voluto scommettere fin dall’inizio su una Santa Alleanza tra Big Pharma, la Silicon Valley, il capitalismo ospedaliero privato, nella corsa verso vaccini e nuove cure. Dovrà vedersela con modelli alternativi che sono all’opera in Cina, Corea del Sud, Giappone, Germania. Come una guerra mondiale, oltre al bilancio umano questo è un test che può abbattere modelli, cancellare certezze, sconvolgere gerarchie internazionali.

Nell’immediato, la dimensione della manovra di spesa americana diventa un parametro su cui altri devono misurarsi.

Federico Rampini – la Repubblica – 26 marzo 2020

Leggi tutto...

L’impaziente in chief

  • Pubblicato in Esteri

Donald Trump si è già stufato di star zitto ad ascoltare gli esperti, si è già annoiato di tentare la strada dell’unità e della rassicurazione, ha preso le distanze dal prof. Fauci (eravamo già affezionati a quel signore che aveva l’ardire di dire davanti a tutti: il presidente si sbaglia) e ha ripreso a dire che l’influenza uccide di più della pandemia e pure gli incidenti d’auto, e allora cosa facciamo, vietiamo alla gente di andare in auto? Eccolo di nuovo, il classico Trump: il buon senso era una parentesi, l’eccezionalismo americano secondo questo presidente è fare di testa propria, ignorando le conseguenze sul resto del mondo – noi presunti alleati ormai ci siamo abituati – ma anche quelle sull’interesse nazionale, che sulla carta viene prima di tutto. La dottrina dell’impazienza ostile di Trump grida: siamo “open for business”, l’America non è nata per stare chiusa, quindici giorni saranno più che sufficienti per fermare i contagi. A Pasqua al massimo (prima aveva detto già lunedì prossimo), accada quel che accada, si torna alla normalità. Trump lancia il comando e i soldati rispondono: su Fox News da ieri non si sente che dire “il virus ha ancora qualche giorno di tempo”. Fin dall’inizio Trump ha avuto la presunzione che il virus fosse un problema degli altri e ora, mentre cerca di far dimenticare la leggerezza sciagurata dell’inizio scodellando retorica da guerra, pretende che tutto torni alla normalità secondo i suoi tempi. E’ molto preoccupato – non è il solo – delle conseguenze economiche di questa paralisi, non ultimo perché a novembre vuole essere rieletto e un rallentamento potrebbe essergli fatale. Il programma “15 giorni per rallentare la diffusione” del virus nasce dalle pressioni di commentatori ed economisti conservatori che dicono che si sta esagerando, si finirà per morire di recessione invece che di coronavirus: tra questi spiccano Stephen Moore e Art Laffer, gli autori di “Trumponomics” che il presidente ha cercato di piazzare in posti apicali senza mai riuscirci. Il ritorno alla normalità è una promessa che tutti i leader del mondo vorrebbero fare e mantenere nel più breve tempo possibile, ma ci sono molte ragioni per essere scettici al riguardo. Trump sta ignorando i consigli dei virologi e degli epidemiologi che sono piuttosto chiari: per appiattire la curva del contagio ci vogliono isolamento, tempo e pazienza, cioè il contrario della dottrina dell’impazienza trumpiana. Che infatti diventa impazienza ostile: perché dovremmo farci governare dai medici?, chiedono i conduttori di Fox News, anche quelli che nelle ultime settimane sembravano ravveduti. I medici sono stati messi da parte, mentre da domenica Trump si è messo a rituittare account semisconosciuti che dicono: torniamo a lavorare, riapriamo tutto, altrimenti l’economia implode, e pure il trumpismo (l’interesse economico è l’unico che sta a cuore al presidente populista). Per tornare alla normalità, Trump è disposto a tutto, anche a credere alla possibilità che la clorochina sia la soluzione alla pandemia: il prof. Fauci gli ha detto in faccia e in pubblico “non credo” e infatti ci sono già i racconti del risentimento del presidente nei confronti di questo esperto che gli ruba la scena e la parola. Ma la presunzione più grande di Trump è quella di poter dichiarare l’America “open for business” a suo piacimento: la gestione della pandemia è soprattutto a livello locale, e i governatori sono alle prese con molti contagi e strutture sanitarie deficitari. Sono loro che rispondono alle comunità. Un ex funzionario dell’Amministrazione Trump ha detto al sito Axios: “La politica di far tornare le persone al lavoro troppo in anticipo dovrebbe essere chiamata la politica ‘lasciamo pure morire gli anziani’”. Ma nella dottrina dell’impazienza ostile di Trump, tutta fretta e lotta contro qualcuno, questa è una promessa di normalità.

Paola Peduzzi – Il Foglio – 25 marzo 2020

Leggi tutto...

Un leader per l’America

  • Pubblicato in Esteri
Il presidente Trump e il suo sfidante Biden si contendono il ruolo di “presidente di guerra”, il leader che può condurre l’America fuori dalla crisi distruttiva del coronavirus, e al Congresso repubblicani e democratici litigano senza ritegno su un pacchetto di misure economiche di salvataggio da duemila milioni di dollari. Il pacchetto è in discussione al Senato, ma ieri al momento in cui questo giornale andava in stampa le votazioni hanno fallito di nuovo – come tre giorni fa – tra accuse furiose. I repubblicani accusano i dems di bloccare una misura che salverà il paese, i dems vogliono più garanzie per i lavoratori e più controllo su un fondo da 500 miliardi di dollari destinato alle industrie, “non votiamo alla cieca”. Nelle sei settimane da quando è cominciata la crisi da coronavirus in America la Borsa ha perso come non succedeva dal 2008 e milioni di americani sono rimasti senza lavoro e costretti a casa per le quarantene che si stanno estendendo da stato a stato. Biden e Trump hanno entrambi difetti gravi per poter aspirare davvero al ruolo di leader nell’emergenza. Biden non è presidente e non è nemmeno ancora il candidato ufficiale del Partito democratico, quindi non può esercitare alcuna leadership. Anzi, l’arrivo della pandemia ha mandato a casa tutta la sua campagna elettorale e lo ha fatto virtualmente sparire dalle notizie. Le primarie sono state interrotte, all’ultimo turno in Illinois l’affluenza degli elettori è stata molto bassa e altri sette stati le hanno rimandate. Biden non può più fare comizi, non può girare fra la gente, non può fare quello che i candidati presidenti fanno di solito ed è uno svantaggio per uno come lui che gioca meglio di persona ed è molto poco digitale. Il primo tentativo di fare un comizio online è andato male per problemi tecnici qualche settimana fa. In questi giorni è nella casa di Wilmington, nel Delaware, dove gli uomini della sua campagna hanno trasformato una stanza in uno studio da dove Biden intende trasmettere in streaming messaggi quotidiani. Il primo ieri è andato male: a un certo punto perde il filo del discorso, s’interrompe e fa cenno con la mano di alzare qualcosa perché è troppo basso. Crede che la mano sia fuori campo, ma si vede. I trumpiani, che non vedevano l’ora di dargli del demente senile, hanno cominciato a ululare di soddisfazione sui social media. La campagna di Biden aveva fatto una buona cosa registrando un video di Ron Klain, il coordinatore dell’Amministrazione Obama durante l’epidemia di ebola, che spiega in modo professionale cos’è il Covid-19 e perché Trump ha commesso molti errori – e il video ha fatto già quattro milioni di spettatori su YouTube. Il live streaming di Biden da quello che si è visto non è la soluzione per reinventarsi una campagna elettorale grippata dal coronavirus. Intanto Trump e il governatore democratico dello stato di New York, Andrew Cuomo, fanno ciascuno una conferenza stampa al giorno davanti a un paese che comincia, in ritardo, a essere ansioso – e le loro conferenze sono senz’altro più convincenti di uno streaming live dal Delaware. Trump ha tirato fuori davanti ai giornalisti la definizione di “presidente di guerra” perché gli deve sembrare un buon modo per reimpostare la sua campagna elettorale ora che ha perso gli argomenti sui quali contava molto: lo splendido stato di salute e dell’occupazione e i record in Borsa sono spariti, travolti dalla pandemia; e la chance di trovarsi davanti un avversario socialista come Sanders è sparita pure quella. Trump ha adottato un nuovo tono. “Avete un leader che combatterà sempre per voi e non mi fermerò fino a quando non vinceremo. E la vittoria ci sarà. Nessun americano è da solo se siamo uniti”. I sondaggi lo premiano, come succede a ogni leader durante una crisi, e un dieci per cento in più di americani approva come sta gestendo la situazione rispetto a una settimana fa. Ma il presidente fino a pochi giorni fa ha minimizzato l’allarme pandemia come una cosa che non sarebbe davvero successa. Il 26 febbraio, meno di un mese fa, disse che “i casi da noi sono soltanto 15 e in pochi giorni scenderanno a zero” e poi fece dichiarazioni dal podio e su Twitter come “è tutto sotto controllo” e concetti simili. La Casa Bianca di fatto o non ha capito oppure ha tentato fino all’ultimo di non dare risalto alla questione e questa sconnessione dalla realtà ha fatto reagire il paese in ritardo.

Daniele Raineri – Il Foglio – 24 marzo 2020

Leggi tutto...
Sottoscrivi questo feed RSS

Newsletter

. . . .