Il secondo virus

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I virus oggi in giro per il mondo sono due. Per uno, il Covid-19, speriamo che prima o poi una cura e un vaccino si trovino (e chissà se quel giorno i «no vax» si scuseranno). L’altro è un pericolo per le nostre democrazie. È un virus che, oggi aiutato dal Covid-19, attacca la democrazia liberale e si manifesta in almeno quattro forme: Putin, Trump, autocrati stile Erdogan e Orbán ai nostri confini e i sovranisti europei. Insomma, il populismo nelle sue diverse manifestazioni. Per questo la cura, fortunatamente, la conosciamo: rafforzare la democrazia liberale e i «checks and balances» tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Il rischio è serio. E non solo perché il rifiuto della scienza, che accomuna i populisti, ha fatto perdere all’inizio della pandemia settimane preziose, ad esempio in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, con morti che avrebbero potuto essere evitate. Donald Trump fino ai primi di marzo diceva che negli Stati Uniti tutto era sotto controllo, che erano i democratici ad esagerare e che un miracolo e la primavera avrebbero fatto sparire il virus. Oggi ci sono quasi 300 mila contagiati negli Usa e alcune proiezioni prevedono tra i 100 mila e i 200 mila morti nei prossimi mesi. Alcuni populisti, ad esempio in Ungheria, hanno sfruttato la pandemia per sospendere la democrazia. Trump stesso usa falsità o mezze verità per denigrare i governatori democratici di vari Stati, in particolare quelli come il Michigan che saranno cruciali nelle prossime elezioni. Il virus come strumento di campagna elettorale. In un momento di emergenza nazionale un vero leader riunisce la nazione, Trump la divide ancor di più. C’è addirittura chi teme per la regolarità delle elezioni di novembre. La Costituzione americana proibisce di spostarle ma da Trump e dal partito repubblicano oggi ci si può aspettare di tutto. Se si diffondesse, il virus del populismo renderebbe gli europei irrilevanti e impoveriti. I sovranisti, con la «scusa» dell’immigrazione (problema serio ma esagerato strategicamente) vogliono distruggere l’unione europea e sostituirla con tanti orticelli apparentemente sovrani ma in realtà alla mercé di Russia, Stati Uniti e Cina. Paesi europei relativamente piccoli finirebbero per combattersi fra loro in guerre commerciali, con tariffe, svalutazioni competitive, concorrenza fiscale. Un gioco a somma ampiamente negativa che abbiamo già sperimentato negli anni Venti e Trenta, fra le due guerre mondiali, e che ha prodotto un disastro. Proprio per evitare il ripetersi di quelle catastrofi si è iniziato, negli anni Cinquanta, il processo di cooperazione europea. Sparita l’Europa, come vorrebbero i sovranisti, Stati Uniti, Russia e Cina deciderebbero da soli le sorti della umanità: da come proteggerci contro i cambiamenti climatici, alle regole del commercio fra nazioni, dal destino dei regimi a loro non graditi, alla dimensione degli eserciti. Putin e Trump sperano che l’Europa si disintegri per eliminare un concorrente e lavorano insieme per raggiungere questo obiettivo. Con l’aiuto degli autocrati ai confini dell’Europa creano instabilità e incertezza illudendo i sovranisti nostrani che la democrazia liberale sia un po’ «passé». Invece dobbiamo rafforzarla, altrimenti potrebbe aprirsi un periodo assai buio per le libertà individuali e per le nostre economie. I «falchi» del Nord Europa sembrano non capire che qui non si tratta di disquisizioni tecniche su Eurobond o Mes, ma di compiere scelte che determineranno la sopravvivenza, o meno, dell’Europa. Se al di là dei dettagli l’Europa non dimostrerà che a uno choc comune (il virus) è capace di rispondere in qualche modo comune avrà finito di esistere. Che i leader di Germania e Olanda, e non solo loro, non lo capiscano è straordinario. Soprattutto in un mondo in cui l’unione europea è rimasto uno dei rarissimi esempi di collaborazione fra Stati. Un esempio sul quale dovremmo far leva per rafforzare la nostra posizione nel mondo: altro che aver paura degli intrighi di Putin e Trump. Putin ha sicuramente influenzato le elezioni americane del 2016 per favorire Trump. Pare sia intervenuto di nuovo nelle primarie del partito democratico per favorire Bernie Sanders, un candidato la cui «nomination» avrebbe garantito a Trump la rielezione sicura e una presidenza se possibile ancor più imperiale di quella che sta per chiudersi. Magari con sua figlia Ivanka candidata nel 2024. Il fatto che una potenza straniera interferisca in elezioni altrui è grave e le tecnologie dei social rendono assai difficile evitarlo. Lo stesso Trump ha chiesto aiuto a un Paese straniero (l’Ucraina) per cercare di sabotare la candidatura di Joe Biden, in cambio di aiuti militari pagati dai contribuenti americani. Se Putin interverrà in elezioni di altri Paesi staremo a vedere: ma è quasi certo che i servizi russi pagassero, e forse ancora lo fanno, cittadini europei di varie nazioni perché «postassero» sui giornali online commenti sovranisti e favorevoli a Mosca. Al punto che un quotidiano inglese, il Guardian, per difendersi da queste interferenze, aveva smesso di pubblicare i commenti dei lettori. E appena può, Putin deride la democrazia liberale, definendola un sistema obsoleto. Nel frattempo, come è accaduto giorni fa a Jacopo Iacoboni, giornalista della Stampa, fa attaccare dai suoi generali la libertà di stampa in Italia, forse pensando che fra poco riuscirà lui a limitarla attraverso i suoi amici italiani. Trump sta mettendo a dura prova la democrazia più che bicentenaria degli Stati Uniti, un sistema i cui anticorpi nella storia hanno sempre limitato le ambizioni imperiali dei presidenti. Basta leggere i testi dei padri fondatori della democrazia americana, soprattutto James Madison, per rendersi conto di quanto fossero preoccupati di limitare i poteri dell’«uomo forte», seppur cercando di far sì che la capacità di agire del governo non fosse bloccata dall’opposizione. Trump oggi domina un partito repubblicano preoccupato delle prossime elezioni anziché della Costituzione americana. Durante il suo primo mandato il presidente ha licenziato chiunque si opponesse alle sue scelte. Recentemente si è di fatto auto-nominato capo della giustizia e ha agito di conseguenza, chiedendo con un tweet al ministro della Giustizia, William Barr, di intervenire per ridurre la pena comminata al suo collaboratore e amico Roger Stone. Barr prima ha obbedito, poi rendendosi conto della gravità della cosa e della valanga di critiche ricevute da più di duemila giudici ha «quasi» minacciato le dimissioni. «Quasi» perché il culto per la personalità dell’«uomo forte» Trump e la paura per le sue reazioni pervade il partito repubblicano. Nel frattempo, il presidente ha «perdonato» una dozzina di personaggi condannati per gravi crimini di corruzione o di «insider trading». Trump ha sinora nominato 50 giudici distrettuali, il doppio dei 25 nominati da Obama allo stesso punto della sua presidenza. Il risultato è che in tre tribunali distrettuali, fra i quali quello di New York, uno dei più importanti, le nomine di giudici giovani, tutti conservatori, influenzeranno per molti anni l’interpretazione della legge. Anche la Corte Suprema, con l’arrivo del giudice Cavanagh ha oggi una maggioranza di conservatori. Con le sue nomine Trump sta trasformando anche i servizi segreti, che dovrebbero essere un delicato organo super partes, in un organo partigiano, pieno di amici suoi. La presidenza di Trump sta creando precedenti ai quali futuri presidenti, siano essi repubblicani o democratici, potrebbero appellarsi per indebolire i «checks and balances» della democrazia americana, un virus che si potrebbe propagare ad altre democrazie. Comunque, ma soprattutto se Donald Trump venisse rieletto, i «checks and balances» della Costituzione americana dovranno funzionare al meglio. Perché l’esempio di questa presidenza imperiale potrebbe ispirare negativamente molti altri sia negli Stati Uniti che altrove. Tanto più che a proposito di non democrazie liberali, la storia ci dirà se nel dicembre scorso il partito comunista cinese, che guida un Paese totalmente privo di «checks and balances», non abbia nascosto qualcosa sul virus che avrebbe potuto aiutare il resto del mondo a reagire più in fretta. E anche nei mesi successivi: il numero dei morti cinesi ad esempio non appare più credibile e questo ha messo fuori strada le azioni di contenimento nel resto del mondo.

Alberto Alesia e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera – 5 aprile 2020

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Le Nazioni Unite: “La prova più dura dalla guerra mondiale”

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«È la più grande prova che il mondo deve affrontare dalla Seconda guerra mondiale», dice il segretario generale dell’Onu Antonio Gutierres. Dai 100.000 ai 240.000 morti solo negli Stati Uniti «nello scenario positivo », è la previsione della task force sanitaria della Casa Bianca.

Questi numeri fanno cambiare tono a Donald Trump: ancora una settimana fa auspicava la fine di ogni restrizione entro Pasqua, ieri ha fatto il discorso più angosciante dall’inizio della sua presidenza: «Ogni americano si prepari ai giorni molto duri che ci aspettano. Ci toccherà affrontare due settimane tremende». Il cambio di atteggiamento è totale, anche se non basta per ovviare all’impreparazione che domina a tutti i livelli.

Solo sul fronte economico l’attivismo di Trump sembra voler anticipare i tempi, attutire lo shock e curare la depressione in arrivo prima che sia troppo tardi. Mentre ancora è fresca la sua firma sulla legge di bilancio con 2.000 miliardi di dollari di aiuti alle famiglie e alle imprese, il presidente vuole già raddoppiare l’impegno dello Stato. Pensa a un’altra maxi-manovra di entità identica, stavolta dedicata agli investimenti in infrastrutture e alle assunzioni che possono generare. «Sarà molto grosso e coraggioso – twitta – due trilioni (duemila miliardi, ndr) solo per posti di lavoro e la ricostruzione delle infrastrutture del nostro Paese». L’idea non è nuova, anzi è un vecchio cavallo di battaglia, più della sinistra americana che dei repubblicani. La decadenza delle infrastrutture affligge l’America a tutti i livelli: dagli aeroporti alle ferrovie, dalle autostrade ai ponti, ai trasporti pubblici metropolitani. Più il ritardo nelle infrastrutture digitali, dove la telefonia di quinta generazione vede la Cina in vantaggio. Poi ci sono le infrastrutture immateriali: dall’inefficienza della sanità, fino al declino della scuola pubblica.

Trump prese in prestito questo tema tradizionale dei democratici e cominciò a parlarne nella campagna elettorale del 2016. Non se n’è mai fatto nulla, per insanabili contrasti politici: Trump pensa soprattutto alle grandi opere edili mentre sulla sanità è agli antipodi rispetto ai democratici; il suo stesso partito non ha mai voluto assecondarlo per ostilità ideologica agli investimenti pubblici. Poi c’è stata la vicenda dell’impeachment che ha avvelenato i rapporti tra i due schieramenti.

Ma il coronavirus sta cambiando tutto, rimescola le carte, sconvolge la politica. Lo si è visto con la velocità record di approvazione della manovra da duemila miliardi. «Con gli interessi a zero è il momento d’investire nelle nostre infrastrutture decrepite», dice Trump. E infatti i democratici stanno lavorando su un piano parallelo d’investimenti. Nancy Pelosi, presidente democratica della Camera, nella sua lista della spesa ha già messo la banda larga d’Internet (tuttora carente in alcune parti del Paese), la rete idrica, ma anche il sistema sanitario e misure sociali a favore dei malati. Pensa inoltre a un aiuto per i fondi pensione che avranno dei buchi spaventosi con la caduta delle Borse. Il piano di Trump per adesso non è noto: di sicuro sarà ben diverso da quello a cui stanno lavorando i democratici. Ma se davvero l’entità può raggiungere duemila miliardi, la somma delle due manovre consecutive si avvicinerebbe al 20% del Pil americano.

Federico Rampini – la Repubblica – 2 aprile 2020

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Trump guarda i sondaggi e cambia di nuovo idea: prima le vite poi il business

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Il presidente americano, Donald Trump, ha cambiato di nuovo idea e adesso vuole seguire lo stesso modello adottato negli altri paesi per contenere la pandemia: soppressione, quindi si sta il più possibile a casa e quasi tutte le attività produttive vanno in coma. I contatti dei giornali dentro all’Amministrazione spiegano che il presidente ha cambiato idea perché ha visto che secondo i sondaggi gli americani sono d’accordo con la linea della soppressione e mettono in secondo piano le necessità dell’economia. I rapporti degli esperti che da settimane avvertono Trump del rischio di milioni di morti per l’effetto combinato del virus e della saturazione degli ospedali non avevano per ora avuto alcun effetto e il presidente, scocciato perché la pandemia colpisce l’economia e quindi il suo grande argomento in campagna elettorale, aveva appena promesso che a Pasqua il paese avrebbe riaperto. Del fatto che una fine prematura delle misure di soppressione e una riapertura troppo in anticipo avrebbe vanificato gli sforzi contro il contagio che ormai è fortissimo fra gli americani – gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per numero di positivi al test – non gli importava nulla. I megafoni del trumpismo avevano già cominciato una campagna di disinformazione sui media e sui social, per dire che il rischio è gonfiato e che l’economia non deve fermarsi. Si trattava di una campagna ottusa – e come poteva essere altrimenti? Uno dei propagandisti è arrivato a citare il lento miglioramento dei dati in Italia come segno che il virus è un fenomeno passeggero, senza però dire che il lento miglioramento in Italia è dovuto al fatto che siamo alla terza settimana di lockdown. Così Trump adesso ha cambiato idea ed è d’accordo con la strategia della soppressione, perché è quella che gli americani vogliono. Poco più di un mese fa continuava a dire che il virus entro aprile si sarebbe dissolto “come per miracolo” e che il contagio era “sotto controllo”. “Abbiamo quindici casi di Covid19 – disse in conferenza stampa – ed entro pochi giorni scenderanno a zero”, senza capire che la trasmissione tra asintomatici è un meccanismo perfido e quindi se ci sono quindici casi conclamati è possibile che nel giro di pochi giorni diventeranno mille e non zero. Poi dieci giorni fa era uscito dal ruolo del gran minimizzatore, perché intanto i numeri diventavano catastrofici e le metropoli americane si stavano trasformando in altrettante Wuhan, vedi New York e prossimamente le città del nord dove la curva del contagio è pessima. Con un voltafaccia spregiudicato, si era nominato “presidente di guerra” durante le trasmissioni domenicali e aveva invitato gli americani “a combattere uniti”. Due giorni dopo però c’era stata un’altra svolta e aveva cominciato a dire che “la cura potrebbe essere peggiore della malattia” e quindi va bene la soppressione, ma non più in là di Pasqua – quindi non più lunga di due settimane. Gli esperti avevano protestato molto perché le misure restrittive per funzionare hanno bisogno di tempo, soprattutto se sono adottate in ritardo come è successo negli Stati Uniti. Ma secondo il resoconto che ne danno le fonti, a convincere Trump a cambiare di nuovo linea è stato il combinato disposto dei sondaggi che premiano la strategia della soppressione fino a quando serve e dei rapporti degli esperti che dicono che riaprire prima il paese avrebbe effetti disastrosi. Trump ha allungato il periodo delle restrizioni fino alla fine di aprile e ha detto che potrebbero persino “diventare un po’ più dure”, anche se non dure come quelle in vigore a New York oppure in California dove i residenti hanno l’ordine di non uscire di casa. Al briefing di lunedì ha pure detto che per lui “l’economia è la preoccupazione numero due, al primo posto c’è salvare molte vite”. E poi, come nota il New York Times, è tornato a ripetere che senza misure restrittive il numero delle vittime da Covid-19 in America avrebbe potuto essere di due milioni – e così ha messo la barra molto in basso per chi volesse giudicare la gestione della crisi. Qualsiasi numero sotto i due milioni sarà una vittoria.

Daniele Raineri - Il Foglio - 1 aprile 2020

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