Trump contro la Cina: "Un incidente nel laboratorio". Gli Usa indagano su Wuhan

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Donald Trump ed Emmanuel Macron sono d’accordo su un punto: la Cina continua a nasconderci tante cose, sul coronavirus. L’intelligence americana indaga sulla pista del "laboratorio di Wuhan", cioè un’origine artificiale del virus, diversa dall’ipotesi più diffusa che lega il primo contagio dall’animale all’uomo ad un mercato alimentare nel capoluogo dello Hubei. «Stiamo facendo un’inchiesta molto completa su questa orribile storia», ha detto Trump. La conferma è giunta dal segretario alla Difesa Mark Esper e dal capo di Stato maggiore Mark Milley: l’intelligence militare americana sta «studiando seriamente» la questione, anche se l’ipotesi di un contagio naturale «rimane prevalente ». La pista non è nuova, in realtà. Non va confusa con una teoria del complotto biotecnologico che circolò a gennaio, quella che imputava il coronavirus a esperimenti di guerra batteriologica condotti in segreto dalle forze armate cinesi. L’idea di un virus fabbricato appositamente come arma, e poi diffuso per sbaglio, non è stata presa sul serio né dall’intelligence Usa né dalla comunità scientifica. Ma quella di cui si stanno occupando adesso i servizi segreti americani è diversa: è l’ipotesi di un incidente in un laboratorio che conduce normali ricerche sui virus, sempre a Wuhan.

La comunità scientifica non esclude che la prima infezione da un pipistrello a un uomo possa essere avvenuta nel corso di esperimenti finiti male o per negligenza nel manipolare animali infettati. Il "mercatino umido" di Wuhan che è stato l’indiziato numero uno, dove i clienti sarebbero stati contaminati a contatto con animali selvatici, in realtà non vende pipistrelli. Ma a pochi metri da quel mercato si trova il laboratorio di ricerca biomedico i cui scienziati lavoravano da tempo sul coronavirus e i pipistrelli. In due saggi pubblicati nel 2017 e 2019 un biologo di Wuhan, Tian Junhua, rivelò di essersi infettato per sua negligenza nel corso delle sue ricerche sui pipistrelli. Il 3 aprile il tema è tornato in primo piano sul Washington Post . Richard Ebright, microbiologo ed esperto di sicurezza batteriologica alla Rutgers University, in un’intervista al quotidiano ha spiegato che «può esserci stato un incidente in quel laboratorio, per esempio l’infezione di un ricercatore, visti i bassi livelli di sicurezza».

Due mesi fa la comunità scientifica venne a conoscenza di uno studio pubblicato e poi eliminato da due scienziati cinesi, Botao Xiao e Lei Xiao, del Politecnico di Guangzhou. «Il coronavirus — si leggeva in quell’analisi — probabilmente ebbe origine in un laboratorio di Wuhan. I livelli di sicurezza vanno rafforzati nei laboratori di biologia batterica ad alto rischio». L’intero articolo apparve sul sito ResearchGate , poi venne rimosso. La spiegazione data dagli autori è che improvvisamente avevano avuto dei dubbi sull’attendibilità della loro ricerca. Dunque senza avallare l’improbabile ipotesi della guerra batteriologica, è possibile una responsabilità umana legata ad attività di ricerca. Un incidente, non un complotto. Questo aggiungerebbe un movente nuovo ai prolungati tentativi delle autorità cinesi di soffocare la verità, fino a rimuovere le tracce delle prime spiegazioni scientifiche. Più di recente questa pista dormiente è stata riscoperta e rilanciata da un reportage della Cnn . A questo punto Trump ha dato l’incarico all’intelligence militare di indagare, e questo s’inserisce nel nuovo peggioramento delle relazioni fra Washington e Pechino. Al contenzioso arretrato fra le due superpotenze si è aggiunto negli ultimi giorni il fatto che le autorità cinesi bloccano nelle loro dogane ingenti quantitativi di materiale medico acquistato dagli Stati Uniti. Anche altri governi hanno alzato il tono di recente nei confronti della Cina. Sulla gestione del virus in Cina «sono successe cose che non sappiamo», ha detto Macron. A Londra il ministro degli Esteri Dominic Raab, che sta sostituendo un Boris Johnson ancora convalescente, ha assicurato che quando la bufera sarà passata la Cina dovrà rispondere a «domande difficili» su «come tutto questo sia accaduto» e «come non si sia potuto fermarlo prima».

Federico Rampini – la Repubblica – 17 aprile 2020

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Declino a stelle e strisce

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A New York, su quello stesso spicchio di prato di Central Park sul quale ora si stende un ospedale da campo tirato su in poco più di 24 ore, Massimo Gaggi, già inviato e vicedirettore, oggi editorialista del «Corriere», ha passato interi pomeriggi della sua vita, prima a giocare con i figli poi a guardarli giocare, quando erano troppo grandi per coinvolgere il papà. New York e l’America sono la sua casa, il suo secondo Paese, il fascino del sogno che si mischia all’efficacia del pragmatismo, libertà e sicurezza, potenza e generosità. Per questo Crack America non è un libro catastrofista e men che meno antiamericano, anzi è il grido di un innamorato che vuole scuotere dalla depressione il suo amato: perché ti trascuri? Perché non affronti quello che non va? Mentre «gli ascensori sociali si sono fermati le disuguaglianze crescono e il “sogno americano” diventa un miraggio», a colpire, scrive Gaggi, è proprio «la rassegnazione della politica e dell’opinione pubblica». E non è un caso se in questa nazione depressa siano decine di migliaia le vittime della dipendenza da oppioidi.

Crack America è stato pensato prima della pandemia che sta cambiando le nostre vite, ma si capisce che aggiornarlo in velocità non è stato complicato perché dentro — e davvero colpisce fino a che punto — c’era già la spiegazione di tutte le crepe e gli squilibri sui quali il virus ha puntato il faro. La strage, scrive Gaggi nell’introduzione, non fa che mettere «brutalmente a nudo la vulnerabilità di un Paese che scivola da decenni sul piano inclinato dell’involuzione del suo sistema politico e del modello sociale». Tutto quello cui stiamo assistendo si capisce meglio leggendo queste pagine. Una «catastrofe umanitaria» causata in gran parte da una sanità a cui è stato applicato «un modello di capitalismo darwiniano», che ha trasformato la salute in un lusso nonostante gli americani spendano «per le cure mediche molto più di qualunque altro Paese al mondo» (il 18 per cento del reddito nazionale). Un sistema sanitario fallimentare in cui una popolazione in cattiva salute — l’america è la patria delle diete, ma anche dei talebani del junk food, dove aumenta il peso medio e diminuisce l’aspettativa di vita: 78,6 anni contro gli 84,5 dell’italia — si rivolge a medici che costano tanto perché devono scaricare sui pazienti una parte del mostruoso debito universitario (1.600 miliardi totali per 44 milioni di studenti ed ex tali) e i farmaci si pagano di più a causa delle pressioni delle lobby. I neri che muoiono in percentuali più alte della media perché obesi, diabetici (lo sono «circa 110 milioni di americani»), poveri. L’integralismo religioso come quello degli evangelici, che nel mezzo dell’epidemia «rivendicano il diritto di continuare a radunare migliaia di fedeli nelle funzioni domenicali». I dieci milioni di working poor, il ceto medio impoverito che lo stesso Gaggi su queste colonne ci ha raccontato mettersi in fila per ritirare le scorte alle banche del cibo. E ancora di più, nel mezzo dell’epidemia, si vedono le conseguenze dell’avere infrastrutture fatiscenti in un Paese che è stato moderno prima degli altri e ora — dalle falde inquinate di Flint «ai treni antidiluviani a una rete elettrica fatta di pali di legno... che al primo incidente lasciano intere città al buio quando non producono incendi paurosi» — è rimasto indietro a tutti. Abbiamo letto dei tanti morti tra gli autisti della metropolitana di New York, la rete più estesa al mondo, che versa però in condizioni terribili e dove quasi tutto è gestito manualmente (e il conto di un necessario ammodernamento potrebbe superare i 111 miliardi di dollari). E ancora, a proposito di infrastrutture, cosa succederà se le scuole dovranno adattarsi a lungo all’insegnamento a distanza, dato che la banda larga lascia scoperte enormi aree dell’america rurale? E che cosa faranno tutti quegli studenti per i quali le aule sono l’unico tetto sicuro, e la certezza di un pasto caldo? C’è da chiedersi se una crisi come quella appena cominciata, che richiederà un enorme intervento del pubblico, cambierà la dominante ideologia anti-statalista, se anche le imprese si impegneranno, dove non riescono i politici, a riformare un capitalismo che sta mostrando tutti i suoi limiti. Qualche segnale di consapevolezza c’è, come il documento firmato la scorsa estate dalla Business Roundtable, con il quale gli amministratori delegati delle grandi corporation hanno ammesso che «per far funzionare bene il sistema economico, le imprese non possono più limitarsi a fare l’interesse dei proprietari massimizzando i profitti nei loro bilanci, ma devono occuparsi del benessere, oltre che degli shareholder (gli azionisti), anche degli stakeholder: i clienti, i dipendenti e, più in generale, tutta la collettività che vive intorno all’impresa». Ma sul palcoscenico del crack americano c’è Trump, che non è il protagonista del libro perché «non è la causa della crisi istituzionale nella quale si dibattono gli Usa, ma una sua conseguenza», e di quella crisi rappresenta però anche l’aggravarsi. Le manovre economiche del presidente, i tagli alle tasse sulle imprese, non solo hanno contribuito alla crescita delle disuguaglianze, ma l’aver usato da parte sua uno strumento emergenziale come «uno stimolo fiscale privo di copertura finanziaria, pagato totalmente con un aumento del debito pubblico — in una fase di crescita economica», ha privato il sistema di «preziose munizioni da usare quando arriverà una recessione da contrastare — quella sì — con interventi di deficit spending». E quel quando è oggi. E oggi è anche la prima emergenza globale in cui l’america non vuole prendersi la responsabilità della propria leadership, lasciando soli gli atlantisti davanti alle avance sempre più suadenti della Cina. Negli Stati Uniti il capitalismo malato fa sognare ai giovani un socialismo di cui non hanno contezza. Ma, come scrive Gaggi, «la cosa più preoccupante è l’atteggiamento rispetto ai valori di libertà e democrazia. Nei sondaggi, in una scala da 1 a 100, i nati prima del 1930 danno alla democrazia un’importanza superiore a quota 70 mentre i millennials... fanno scendere questo indice sotto quota 30 per cento». È un allarme che ci riguarda tutti, perché l’alternativa a «un modello di capitalismo liberale che sta degenerando in un sistema di oligopoli e monopoli anche tecnologici», non è un improbabile risorgere del comunismo sovietico, ma «il capitalismo statalista, illiberale, ma anche spietatamente efficiente della Cina».

Marilisa Palumbo – Corriere della Sera – 16 aprile 2020

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La firma di The Donald sui 70 milioni di assegni per aiutare gli americani

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La firma di Donald Trump su 70 milioni di assegni per sostenere le famiglie in tempi di coronavirus che nelle prossime settimane arriveranno a 70 milioni di americani. Che il presidente stia gestendo l'emergenza Covid-19 con gli occhi fissi alle elezioni di novembre è noto da tempo: tre settimane fa, al varo dello stimolo fiscale da duemila miliardi di dollari, scrivemmo che alla Casa Bianca circolava l'idea di una pioggia di assegni firmati da un Trump benefattore. Ma il progetto era stato poi accantonato per motivi tecnici (per legge gli assegni che erogano soldi federali devono essere firmati da un funzionario del Tesoro proprio per evitare strumentalizzazioni politiche) e anche per l'assenza di precedenti: l'irs (Internal Revenue Service), l'agenzia del Tesoro che gestisce entrate fiscali e rimborsi, si è sempre opposta a interferenze esterne. Anche quelle della Casa Bianca, anche più limitate. Nel 2001 quando, col bilancio federale in attivo, George Bush restituì a ogni contribuente una cifra variabile tra i 300 e i 600 dollari, l'irs respinse la sua richiesta di inserire nella lettera d'accompagnamento una frase nella quale il governo rivendicava il merito di aver messo soldi nelle tasche dei cittadini. Ma Trump, si sa, non si rassegna facilmente. Lunedì sera, racconta il Washington Post, è stato trovato l'escamotage: l'assegno (1.200 dollari per gli individui che guadagnano meno di 75 mila dollari l'anno, 2.400 per le coppie con un reddito complessivo inferiore ai 150 mila dollari) sarà firmato da un funzionario, ma in basso a sinistra, nello spazio riservato alla causale, ci sarà anche la firma del presidente e la scritta «Economic Impact Payment». Polemiche inevitabili non solo per la cosa in sé, ma anche perché la decisione, formalizzata martedì mattina, secondo funzionari anonimi dell'irs (e anche secondo gli esperti) è destinata a ritardare l'emissione degli assegni (ne saranno inviati 5 milioni a settimana). Il Tesoro nega che ci voglia più tempo per ristampare tutto e afferma che i primi assegni verranno recapitati la prossima settimana.questi pagamenti andranno ai cittadini dei quali il governo non ha le coordinate bancarie. Gli altri, 80 milioni di contribuenti, riceveranno i soldi federali direttamente sul loro conto concorrente, senza firme. Nascono, intanto, due commissioni di grandi manager e imprenditori Usa per coordinare gli sforzi per la ripresa economica. Dentro tutti i big, da Cook di Apple a Zuckerberg di Facebook ai capi di banche e industrie. Tutti etichettati come consulenti della Casa Bianca. Alcuni, pare, nemmeno consultati prima.

Massimo Gaggi – Corriere della Sera – 16 aprile 2020

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