Declino a stelle e strisce

A New York, su quello stesso spicchio di prato di Central Park sul quale ora si stende un ospedale da campo tirato su in poco più di 24 ore, Massimo Gaggi, già inviato e vicedirettore, oggi editorialista del «Corriere», ha passato interi pomeriggi della sua vita, prima a giocare con i figli poi a guardarli giocare, quando erano troppo grandi per coinvolgere il papà. New York e l’America sono la sua casa, il suo secondo Paese, il fascino del sogno che si mischia all’efficacia del pragmatismo, libertà e sicurezza, potenza e generosità. Per questo Crack America non è un libro catastrofista e men che meno antiamericano, anzi è il grido di un innamorato che vuole scuotere dalla depressione il suo amato: perché ti trascuri? Perché non affronti quello che non va? Mentre «gli ascensori sociali si sono fermati le disuguaglianze crescono e il “sogno americano” diventa un miraggio», a colpire, scrive Gaggi, è proprio «la rassegnazione della politica e dell’opinione pubblica». E non è un caso se in questa nazione depressa siano decine di migliaia le vittime della dipendenza da oppioidi.

Crack America è stato pensato prima della pandemia che sta cambiando le nostre vite, ma si capisce che aggiornarlo in velocità non è stato complicato perché dentro — e davvero colpisce fino a che punto — c’era già la spiegazione di tutte le crepe e gli squilibri sui quali il virus ha puntato il faro. La strage, scrive Gaggi nell’introduzione, non fa che mettere «brutalmente a nudo la vulnerabilità di un Paese che scivola da decenni sul piano inclinato dell’involuzione del suo sistema politico e del modello sociale». Tutto quello cui stiamo assistendo si capisce meglio leggendo queste pagine. Una «catastrofe umanitaria» causata in gran parte da una sanità a cui è stato applicato «un modello di capitalismo darwiniano», che ha trasformato la salute in un lusso nonostante gli americani spendano «per le cure mediche molto più di qualunque altro Paese al mondo» (il 18 per cento del reddito nazionale). Un sistema sanitario fallimentare in cui una popolazione in cattiva salute — l’america è la patria delle diete, ma anche dei talebani del junk food, dove aumenta il peso medio e diminuisce l’aspettativa di vita: 78,6 anni contro gli 84,5 dell’italia — si rivolge a medici che costano tanto perché devono scaricare sui pazienti una parte del mostruoso debito universitario (1.600 miliardi totali per 44 milioni di studenti ed ex tali) e i farmaci si pagano di più a causa delle pressioni delle lobby. I neri che muoiono in percentuali più alte della media perché obesi, diabetici (lo sono «circa 110 milioni di americani»), poveri. L’integralismo religioso come quello degli evangelici, che nel mezzo dell’epidemia «rivendicano il diritto di continuare a radunare migliaia di fedeli nelle funzioni domenicali». I dieci milioni di working poor, il ceto medio impoverito che lo stesso Gaggi su queste colonne ci ha raccontato mettersi in fila per ritirare le scorte alle banche del cibo. E ancora di più, nel mezzo dell’epidemia, si vedono le conseguenze dell’avere infrastrutture fatiscenti in un Paese che è stato moderno prima degli altri e ora — dalle falde inquinate di Flint «ai treni antidiluviani a una rete elettrica fatta di pali di legno... che al primo incidente lasciano intere città al buio quando non producono incendi paurosi» — è rimasto indietro a tutti. Abbiamo letto dei tanti morti tra gli autisti della metropolitana di New York, la rete più estesa al mondo, che versa però in condizioni terribili e dove quasi tutto è gestito manualmente (e il conto di un necessario ammodernamento potrebbe superare i 111 miliardi di dollari). E ancora, a proposito di infrastrutture, cosa succederà se le scuole dovranno adattarsi a lungo all’insegnamento a distanza, dato che la banda larga lascia scoperte enormi aree dell’america rurale? E che cosa faranno tutti quegli studenti per i quali le aule sono l’unico tetto sicuro, e la certezza di un pasto caldo? C’è da chiedersi se una crisi come quella appena cominciata, che richiederà un enorme intervento del pubblico, cambierà la dominante ideologia anti-statalista, se anche le imprese si impegneranno, dove non riescono i politici, a riformare un capitalismo che sta mostrando tutti i suoi limiti. Qualche segnale di consapevolezza c’è, come il documento firmato la scorsa estate dalla Business Roundtable, con il quale gli amministratori delegati delle grandi corporation hanno ammesso che «per far funzionare bene il sistema economico, le imprese non possono più limitarsi a fare l’interesse dei proprietari massimizzando i profitti nei loro bilanci, ma devono occuparsi del benessere, oltre che degli shareholder (gli azionisti), anche degli stakeholder: i clienti, i dipendenti e, più in generale, tutta la collettività che vive intorno all’impresa». Ma sul palcoscenico del crack americano c’è Trump, che non è il protagonista del libro perché «non è la causa della crisi istituzionale nella quale si dibattono gli Usa, ma una sua conseguenza», e di quella crisi rappresenta però anche l’aggravarsi. Le manovre economiche del presidente, i tagli alle tasse sulle imprese, non solo hanno contribuito alla crescita delle disuguaglianze, ma l’aver usato da parte sua uno strumento emergenziale come «uno stimolo fiscale privo di copertura finanziaria, pagato totalmente con un aumento del debito pubblico — in una fase di crescita economica», ha privato il sistema di «preziose munizioni da usare quando arriverà una recessione da contrastare — quella sì — con interventi di deficit spending». E quel quando è oggi. E oggi è anche la prima emergenza globale in cui l’america non vuole prendersi la responsabilità della propria leadership, lasciando soli gli atlantisti davanti alle avance sempre più suadenti della Cina. Negli Stati Uniti il capitalismo malato fa sognare ai giovani un socialismo di cui non hanno contezza. Ma, come scrive Gaggi, «la cosa più preoccupante è l’atteggiamento rispetto ai valori di libertà e democrazia. Nei sondaggi, in una scala da 1 a 100, i nati prima del 1930 danno alla democrazia un’importanza superiore a quota 70 mentre i millennials... fanno scendere questo indice sotto quota 30 per cento». È un allarme che ci riguarda tutti, perché l’alternativa a «un modello di capitalismo liberale che sta degenerando in un sistema di oligopoli e monopoli anche tecnologici», non è un improbabile risorgere del comunismo sovietico, ma «il capitalismo statalista, illiberale, ma anche spietatamente efficiente della Cina».

Marilisa Palumbo – Corriere della Sera – 16 aprile 2020

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