Casa Bianca, tregua sui dazi all'Unione Europea

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La relativa tregua attuale della Casa Bianca sui dazi dà un po’ di respiro all’Europa, niente di più: questo resta un mondo post liberale, pieno di nuovi ostacoli agli scambi e di antiche logiche di potenza. Non è neanche più il tempo del clintoniano «it’s the economy, stupid» perché per la politica non conta più solo la crescita, anzi. Fra gli elettori della Brexit l’affermazione dell’identità viene prima del tornaconto materiale e persino l’America usa contro gli alleati la propria potenza commerciale — l’accesso al dollaro, o al mercato — come leva per piegarli politicamente. Chi fa affari con l’Iran è fuori da Wall Street. Chi compra reti di telecomunicazioni dai cinesi rischia dazi contro le auto. Il commento di Federico Fubini sul Corriere della Sera.

Trump detesta l'Europa e lo fa intendere in tutte le salse

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La tirannia democratica di Trump

Heri dicebamus, ieri dicevamo che il voto del Senato americano sull’impeachment di Trump abroga la divisione dei poteri e il loro bilanciamento perché autorizza un capo dell’esecutivo a comportarsi come un estorsore verso un capo di stato estero, condizionando l’invio di aiuti militari e di sicurezza alla sua disponibilità a incastrare con indagini penali un suo rivale politico (“do me a favour”, e intanto sono sospesi i finanziamenti). Questo ieri. Ora dobbiamo dire che Trump si sta comportando come il capo di una banda di malfattori, tutti regolarmente processati e condannati per gravi reati indirettamente o direttamente connessi a comportamenti del presidente sospettati di illegalità, un capobanda che interferisce brutalmente, ripetutamente, pubblicamente con la giustizia federale amministrata dall’Attorney General, un suo lealista da lui stesso nominato che gli ha reso servigi importanti in altri momenti e ora si ribella ai suoi tweet e minaccia di andarsene dopo che tre prosecutor hanno lasciato il caso denunciando la pressione indebita del presidente e uno ha lasciato del tutto il dipartimento di Giustizia. Ce ne sarebbe abbastanza, come nel caso dell’estorsione politica a scopi abusivi contro il presidente ucraino, per una crisi del potere a Washington. Quando Nixon, che era un delinquente politico normale, cercò di torcere il braccio all’Fbi lo scandalo del Watergate toccò un suo culmine, e alla fine il presidente si dimise con scorno certo che sarebbe stato estromesso dal voto del Congresso. 

Trump però non è uno normale, e nemmeno un delinquente politico normale, è una macchina narcisistica di potenza inedita e inaudita; credo si debba risalire all’imperatore romano Caligola, quello che si batté per fare senatore il suo cavallo Incitatus, per una comparazione appropriata. In questa situazione Trump dice: non ho interferito nella giustizia federale (clamoroso rovesciamento e integrale della verità, il suo è un comportamento sotto gli occhi di tutti e tutti i giorni evidente) ma ho il potere legale di farlo, di impicciarmi e dare ordini, sulle pene da comminare, a questo mio consigliere e ministro che è l’Attorney General e ai funzionari del dipartimento. Memento: il condannato che Trump vuole favorire apertamente si chiama Roger Stone, è un suo vecchio amico e consigliori, e la condanna che lo ha raggiunto riguarda gli affari sottoposti a lunga inchiesta del presidente nei rapporti con la Russia Connection (Stone ha intimidito e minacciato un testimone, secondo la sentenza, ha mentito al Congresso, ostacolato la giustizia, dunque teoricamente è uno che “tiene per le palle” il suo capo e referente e vale la pena di essere difeso a spada tratta). Niente, come per l’Ucraina, Trump rivendica e rilancia. Può essere esposto, denunciato, combattuto con mezzi politici e criticato duramente dalla stampa e dalle televisioni, ma nessun meccanismo sembra in grado di metterlo con le spalle al muro nel suo ruolo inciprignito e consapevole, anche inorgoglito, di capobanda che giudica e manda. Solo il voto popolare, distribuito nei collegi elettorali, può estrometterlo. Per il resto, visto che non rispetta la Common law, la Costituzione materiale, e tratta come un dipendente da mettere sull’attenti l’Attorney General e le regole di consuetudine che lo vogliono figura al di sopra delle pressioni dell’esecutivo, Trump nel sistema americano per come si presenta oggi è un tiranno democratico sciolto da ogni riserva di bilanciamento dei poteri e da ogni effettivo controllo. 

Gli americani vedranno come fare, e per ora le prospettive sono quelle di un disperante trionfo di Caligola a novembre. Noi italiani e europei abbiamo un problema. Qui per difenderci dai Borrelli e dai Davigo abbiamo spesso scritto negli anni: ma eleggiamoli questi magistrati, sottomettiamo almeno al Parlamento le priorità di politica giudiziaria, cassiamo questa finzione ipocrita dell’automatismo dell’azione penale, contestiamo l’onnipotenza dell’ordine giudiziario trasformatosi in potere supplente e invasivo che nega l’autonomia relativa della politica. E siamo reduci da polemiche di vario segno contro “l’uomo solo al comando” e la pretesa di conquistare il governo con il voto per esercitare “pieni poteri”. Di fronte allo spettacolo di un uomo solo al comando che esercita pieni poteri nel paese dotato della Costituzione scritta più antica del mondo e che è stato l’insegna in vessillo della democrazia liberale, che cosa dobbiamo pensare? In che cosa abbiamo sbagliato?

Giuliano Ferrara - Il Foglio - 15 febbraio 2020

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Ma Trump si puo' fermare

Come diceva Mark Twain è molto difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro, ma io ne azzardo una. Donald Trump vincerà le elezioni di novembre a meno che il partito democratico non nomini l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg.

Perché? Cominciamo dai motivi per cui Trump ha ottime possibilità di essere rieletto. Tradizionalmente il presidente uscente è avvantaggiato soprattutto quando l’economia va bene, cioè crescita alta e disoccupazione bassa. In questo senso l’economia favorisce Trump, anche deflazionando le mirabolanti descrizioni del presidente secondo cui gli Stati Uniti avrebbero raggiunto una specie di Nirvana. Gli Usa non hanno avuto una recessione per 11 anni, ma di questi 11 solo tre erano con un Trump presidente. Il tasso di crescita durante la presidenza di Trump è intorno al 2,5 per cento ed è simile a quello degli ultimi anni di Obama e al di sotto di quel 3 per cento che è considerato un po’ il punto che divide crescita alta e modesta per gli Stati Uniti e che è più o meno la media della storia recente americana. Non solo, ma questi tassi di crescita sono per ora relativamente deludenti dato il forte stimolo fiscale di Trump. Siamo ben lontani dal fenomenale 6 per cento che prometteva. 

La disoccupazione è ai minimi storici al 3,6 per cento, ma già aveva un trend discendente ed era intorno al 5 per cento quando Trump è salito al governo. I salari stanno finalmente risalendo un poco, circa lo 0,4 per cento sopra l’inflazione. Il mercato azionario è esploso.

Gli aspetti meno positivi dell’economia americana sono di più lungo periodo e meno evidenti per l’elettore medio. A prescindere dalle politiche (anti)ambientali di Trump (per esempio una recente controriforma del sistema di protezione delle acque dolci del Paese) rimane il debito pubblico che continua ad aumentare. Il taglio delle imposte sulle imprese ha un senso perché erano relativamente alte. Ma a questo taglio Trump avrebbe dovuto far seguire un aumento della progressività del sistema fiscale sulle famiglie, riducendo il peso sulle classi medie chiudendo i mille canali con cui i super ricchi riescono a pagare relativamente poche tasse; oltre ad un segnale di giustizia ciò avrebbe anche stimolato di più i consumi. 

Dal lato della spesa Trump ha fatto ben poco. Il programma di assistenza medica pubblica gratuita per tutti gli anziani ricchi e poveri (Medicare) è una bomba ad orologeria per il bilancio. Nulla è stato fatto. Invece Trump sta attaccando Medicaid il programma di assistenza medica gratuita per i meno abbienti che è un problema fiscale molto inferiore. Perché? Ovvio, gli anziani votano Trump, soprattutto in alcuni stati cruciali come la Florida, i molto poveri no, i quali, anzi spesso non votano del tutto. 

C’è poi l’aumento della ineguaglianza negli Stati Uniti. Nel 1980 l’uno per cento più ricco deteneva il 10 per cento del reddito totale, oggi il doppio, circa il 20 per cento. La metà più povera deteneva sempre nel 1980 il 21 per cento del reddito totale, oggi circa il 13. È straordinario che in un Paese con un tale andamento della disuguaglianza una buona parte degli elettori continuino a favorire il partito repubblicano e che in un anno elettorale Trump stia addirittura promettendo tagli al welfare americano. I motivi sono due: uno di natura culturale/storica, l’altro contingente alle politiche attuali dei due partiti e dei candidati democratici. 

La prima ragione è che gli americani al contrario degli europei sono molto più propensi ad accettare la disuguaglianza come una necessità ed entro certi limiti la ritengono «giusta». Secondo la World Value Survey (un sondaggio d’ opinione molto prestigioso) più del 70 per cento circa degli americani ritiene che i poveri non sarebbero tali se si impegnassero di più ad uscire dalla povertà, e queste possibilità di mobilità sociale ci sono. Il numero di europei che ha queste opinioni è poco piu della metà (il 40 per cento). L’idea del «sogno americano» su cui questo Paese si è formato storicamente rimane saldamente nel cuore di molti americani anche più di quanto la realtà lo confermi oggi. Ovviamente Trump non fa che battere su questo punto, auto elogiandosi per la rinascita del «sogno». L’altra ragione deriva dalle strategie dei due partiti, vincenti quelle dei repubblicani disastrose quelle dei democratici. Il partito repubblicano ha abbracciato il culto della personalità per Trump, il quale si vendica senza pietà di chi non è d’accordo con lui. Anche l’ala del partito cosiddetta del «nord est», cioè l’ala della élite urbana, esalta un presidente che la protegge dalle temute redistribuzioni fiscali. Lo accetta anche a costo della sua mancanza di rispetto per le basi del costituzionalismo americano che sta creando precedenti assai pericolosi per la democrazia americana. 

Il partito democratico è allo sbando. Le primarie sono iniziate con una dozzina di candidati di cui una buona parte sono sconosciuti che non fanno che creare confusione. Il disastro organizzativo dell’Iowa è stato imbarazzante. Tra i veri contendenti ci sono due estremisti (per gli standard americani) Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Il primo si dichiara apertamente socialista (un «non starter» per gli Stati Uniti) ed è un ideologo stile Corbyn che con toni esaltati ed esagerati promette di tutto senza spiegare come finanziare le sue straordinarie promesse. Trump tifa apertamente per lui perché sa che se lo mangerebbe in un boccone se vincesse le primarie democratiche. La Warren ci dice invece come pagare per le sue promesse: forti tasse sulla ricchezza, e tasse sui redditi alti (ma non altissimi) fino al 75 per cento. Un programma perfettamente accettabile in Francia, ma che non la porterebbe da nessuna parte negli Usa, e infatti sta andando malissimo. (Non a caso i suoi consiglieri economici sono due professori francesi della università di Berkeley, ottimi economisti ma con poco senso della politica americana). Il candidato dei moderati doveva essere Joe Biden, ma appare sempre meno energico, (Trump lo chiama con qualche ragione «Biden il lento»). Sembra privo di idee e «vecchio» non solo nel senso anagrafico del termine ma nel senso di «vecchio establishment»; ha perso nettamente le prime gare in Iowa e New Hampshire. Buttigieg è un fuoco di paglia: dopo aver ottenuto qualche migliaio di voti in quei due piccoli Stati parla come se fosse un nuovo Obama non dicendo nulla di concreto a parte, vaghe, noiose e ripetitive promesse di «cambiamento». Prima si ritira e smette di dividere il voto moderato meglio è per lui e per il suo partito. È invece apparsa sulla scena una ottima senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar che io vedrei con molto piacere come presidente ma probabilmente non ce la farebbe da sola contro Trump. Rimane allora la meteora Bloomberg che ha scelto una strategia innovativa: ignorare le primarie iniziali dei piccoli Stati e concentrarsi su quelle dei grandi che arriveranno fra qualche settimana, facendo uso della sua ricchezza senza fondo che lo rende libero dai finanziatori. Ce la farà a vincere la nomination? Difficile da prevedere, ma le cose si cominceranno a chiarire fra meno di un mese con il super Tuesday con primarie in molti Stati grandi. Se Biden si ritirasse prima del super Tuesday dopo qualche altra delusione nelle primarie, (Nevada e South Carolina) e trasferisse i suoi voti a Bloomberg, e se quest’ultimo, Bloomberg, scegliesse relativamente presto la Klobuchar, come vicepresidente, (che è di origini umili e bilancerebbe il profilo del super ricco newyorkese) vincerebbero le primarie. 

Stravincerebbero se la Warren, quando si ritirerà, decidesse di trasferire i suoi voti a Bloomberg, dato che è vicina alle posizioni politiche di Sanders ma personalmente non lo sopporta. Tutto ciò richiederebbe nel partito democratico un minimo di coordinamento che invece non esiste. Forse una parola di Obama in questa direzione sarebbe molto utile anche per sanare i contrasti tra gli afroamericani e Bloomberg createsi quando era sindaco di New York. Insomma, credo che un ticket Bloomberg e Klochubar sia l’unico che potrebbe battere Trump e Pence.

Alberto Alesina - Corriere della Sera - 15 febbrao 2020

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