Usa-Iran, il gioco di sangue

Il 2020 si è aperto con una nuova escalation di tensione fra America e Iran, pesanti scambi di minacce tra Donald Trump e la guida suprema della rivoluzione islamica Ali Khamenei. Siamo sull’orlo della quarta Guerra del Golfo? O si tratta di una partita a scacchi – insanguinata però, perché le vittime non mancano – per ridefinire le sfere d’influenza nella regione? Il secondo scenario è quello verso cui sembrano propendere le ultime mosse tattiche. Le folle pro-iraniane che avevano assaltato l’ambasciata americana di Bagdad si sono ritirate, seguendo ordini da Teheran, e si sono accampate ad una distanza modesta, tale da configurare una sorta di assedio.

Trump fa la voce grossa ma subito dopo precisa di non volere la guerra. Intanto si avvicina il 17esimo anniversario dell’intervento militare Usa contro Saddam Hussein, voluto da George W. Bush, e una domanda assilla l’America: chi comanda oggi in Iraq? Lo scivolamento di quel Paese nell’orbita degli ayatollah di Teheran è una beffa crudele per gli americani, che in Iraq combatterono una delle loro guerre più lunghe e costose. A posteriori, una guerra perfettamente inutile, anche nell’ottica imperiale dei neoconservatori? Certo è paradossale che un pezzo del popolo iracheno si senta sempre più vicino all’Iran: la prima Guerra del Golfo fu quella che oppose Iran e Iraq dal 1980 al 1988 e fece quasi due milioni di morti. Colpisce inoltre il fatto che l’influenza politico-religiosa di Teheran continua ad espandersi malgrado un’economia a pezzi. Il regime degli ayatollah dà la colpa della crisi interna alle sanzioni americane, anche se in realtà i disagi hanno origini più lontane e affondano le radici nella corruzione del clero-padrone. Le proteste più recenti della popolazione iraniana sono state schiacciate con una ferocia ancora superiore alla norma: probabilmente duecento morti, dopo che il governo ha dato ordine alla polizia di sparare sui manifestanti. Le difficoltà interne però lasciano intatte le aspirazioni strategiche del clero sciita. Dalla Siria al Libano allo Yemen, gli ayatollah continuano a sperperare risorse inseguendo un "neo-imperialismo persiano", con aspirazioni egemoniche su scala regionale. Di fronte hanno un’America indecisa a tutto. Non è un caso se dopo Bush gli Stati Uniti hanno avuto due presidenti – Obama e Trump – concordi su una sola cosa: che invadere l’Iraq era stato un errore. Quella parte del mondo interessa sempre meno gli americani, da quando hanno raggiunto l’autosufficienza energetica. Il petrolio del Golfo è essenziale per altri – Cina e India, Europa e Giappone – non per loro.

Trump, quando ascolta i suoi alleati israeliano e saudita, si lascia convincere però che l’Iran rappresenta una minaccia inaccettabile per la pace, la sicurezza, gli interessi vitali dell’America. Subito dopo scatta il suo istinto isolazionista che gli suggerisce di retrocedere ogni volta che è sull’orlo del precipizio. Vuol essere ricordato come un presidente che chiude le guerre dei predecessori e riporta i soldati a casa, non come un presidente che apre nuovi conflitti. La sua politica nella regione mediorientale diventa: un passo avanti e due indietro. Si trova costretto a mediare fra spinte contrastanti. Il suo elettorato abbraccia in pieno lo slogan America First, anche nella versione più rinunciataria: il mondo vada pure in malora, gli Stati Uniti non cadranno più nella tentazione di volerlo aggiustare mandando soldati in terre lontane. Un establishment potente – a cominciare dai militari del Pentagono – resiste però con tutte le sue forze a questa smobilitazione programmata dell’egemonia americana. Inoltre Trump sconta una sua contraddizione. Una volta abbandonata la ricerca del dialogo con l’Iran – la scommessa di Obama – e avendo imboccato una politica delle sanzioni che vuole strangolare economicamente il regime di Teheran, deve pur mettere in conto che gli ayatollah abbiano un piano B, alternativo alla loro morte politica. La loro teocrazia islamica è una dittatura colpevole di atroci abusi contro i diritti umani. Ma la sindrome dell’accerchiamento alimenta il nazionalismo. Esiste un antico orgoglio persiano, che concilia il disprezzo verso gli arabi con le aspirazioni a ricostruire una grande potenza. È lo stesso fenomeno che lì a fianco spiega Erdogan e il suo sogno ottomano: per quanto l’economia turca soffra per il malgoverno, il Sultano sa come toccare le corde del nazionalismo popolare (anche sconfinando in Siria, Libia, Mar Egeo). Tutto ciò è terribilmente familiare. Un impero che si ritira – quello americano – ne lascia avanzare altri. È un peccato che Trump, pur avendo intuito la forza genuina del nazionalismo a casa sua, non sappia riconoscerla quando la stessa forza opera altrove.

Federico Rampini – la Repubblica – 2 gennaio 2020

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Novembre difficile per Trump

Brutte notizie dalle urne per Donald Trump ma, soprattutto, per i repubblicani che perdono tanto dove si sono appoggiati al presidente (Kentucky) quanto dove non si sono identificati con lui (Virginia). In una logica elettorale tradizionale oggi le campane dovrebbero suonare a morto per un Trump il cui partito, da quando lui è alla Casa Bianca, ha perso tutte e tre le elezioni tenute per il Congresso e negli Stati.

Invece Trump oggi sembra volare verso una probabile rielezione (sempre che non cada prima per l’impeachment). Non è solo l’opinione dei suoi molti fan e degli analisti politici più disincantati: i sondaggi dicono che la pensa così il 56% degli americani. Tra questi, l’85% dei repubblicani, ma anche il 35% dei democratici. Si può non dar peso a questi dati, ma l’inquietudine della sinistra è reale: da settimane politici e giornali progressisti si chiedono se non ci sia ancora tempo per mettere in campo altri candidati meglio attrezzati per tenere testa al leader populista. Tra quelli oggi in campo, Biden appare invecchiato e vulnerabile, mentre la Warren e Sanders propongono, soprattutto sulla sanità, ricette economiche radicali che gli stessi democratici moderati giudicano suicide. Difficile fare previsioni a un anno dal voto, ma lo scenario di fine 2020 potrebbe essere simile a quello, diviso, del secondo mandato di Obama: presidente repubblicano e Congresso in mano all’opposizione democratica.

Uno scenario — quello con presidente repubblicano e Congresso in mano all’opposizione — che porterebbe alla paralisi legislativa e ci sarebbe un Trump sempre più tentato dall’uso delle spallate istituzionali come metodo di governo.

La sensazione che Trump sia difficile da arrestare nasce dalla tenuta granitica del suo elettorato ma anche dal fatto che il presidente, pur avendo indici di popolarità molto bassi ed essendo indietro rispetto a diversi possibili candidati democratici nei sondaggi nazionali, è avanti nel confronto con Elizabeth Warren ed è testa a testa con Joe Biden laddove il voto conta davvero: i sei swing states, gli Stati in bilico da lui conquistati tre anni fa a sorpresa (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Florida, Arizona e North Carolina).

Un peso importante sulla tenuta della sua immagine ce l’ha sicuramente la campagna elettorale permanente condotta dal geniale e diabolico Brad Parscale: un campaign manager abile e spregiudicato nell’acquisire (quattro anni fa grazie alla Cambridge Analytica dello scandalo, oggi attraverso società altrettanto attrezzate) le tecniche più avanzate di microtargeting per individuare gli elettori incerti analizzando, uno per uno, i loro profili psicologici e inviando loro messaggi personalizzati. Nel 2016 la campagna di Trump diffuse oltre un milione di messaggi pubblicitari diversi e spese un milione di dollari al giorno solo su Facebook, mentre la campagna di Hillary Clinton si limitò a poche migliaia di messaggi. Anche oggi i candidati democratici sembrano tutti molto indietro rispetto a Parscale e a un Trump che usa Twitter con brutale efficacia.

Di recente un fuoco di sbarramento per contrastare i tweet del presidente si è levato dall’account di Hillary Clinton su Twitter. Cosa che ha alimentato illazioni su un possibile ritorno in campo a sorpresa dell’ex segretario di

Stato. Trump l’ha già sfidata apertamente a riprovarci, dopo essere già stata battuta da lui e da Obama.

Il presidente è in vantaggio nell’uso dei social media che stanno diventando il veicolo elettorale più importante, ma la sua campagna non trascura l’attività sul campo e i canali tradizionali: la rete dei manager della campagna 2016 nei vari Stati dell’unione non è mai stata smantellata e ora funziona di nuovo a pieno regime. Del resto la presidenza Trump è stata una campagna permanente nella quale lui ha parlato ai suoi elettori anche quando si confrontava con gli altri leader del mondo nei vertici internazionali.

E al messaggio centrale della campagna – ho rispettato gli impegni, ho fatto quanto promesso – ora Parscale ha aggiunto un nuovo slogan: alla fine del video pubblicitario proiettato durante le partite di baseball o di football americano, dopo la rivendicazione di aver fatto quanto promesso creando sei milioni di nuovi posti di lavoro, dimezzando l’immigrazione clandestina e sconfiggendo l’isis, una voce fuori dal campo aggiunge: «He is no Mr Nice guy (non è uno simpatico, cordiale), ma per cambiare Washington ci vuole uno come lui». È la nuova chiave della campagna di Trump: provare a trasformare una sua debolezza – i modi rudi e una mancanza di empatia che lo rendono indigesto anche a chi lo vota – in una qualità positiva: è un tipaccio, è vero, ma se vuoi cambiare davvero Washington serve uno così, visto che i politici sussiegosi, corretti, «presidenziali», non ci sono riusciti. È il messaggio populista di disarticolazione delle istituzioni, depurato dalle fiammate rivoluzionarie di Steve Bannon e confezionato con un’operazione di marketing rassicurante: può funzionare. Sempre che Trump non cada prima sull’impeachment.

La battaglia entra ora nella sua fase cruciale. Non mancheranno scosse e sorprese. A oggi è assai improbabile che al Senato quasi metà del gruppo repubblicano voti con la sinistra per la sua cacciata dalla Casa Bianca. Certo, le ultime elezioni provano che il Grand Old Party si sta autodistruggendo per sostenere un presidente che ha demolito la sua ideologia, dal rigore fiscale al culto del free trade. Una rivolta improvvisa è sempre possibile. Ma poi, dicono gli analisti, quei senatori rischiano di non poter più tornare nei loro collegi: l’america trumpiana li aspetterebbe coi forconi.

Massimo Gaggi - Corriere della Sera – 7 novembre 2019

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Siria, chi combatte contro i Curdi?

  • Pubblicato in Esteri

Sulla “guerra di Erdogan” si rovesciano fiumi d’inchiostro, ma con effetti addirittura risibili. Il grande pubblico non ci capisce letteralmente nulla. A causa di tre effetti. Il primo è l’ipocrisia di chi racconta questa guerra. Il secondo è la difficoltà oggettiva di capire cosa in effetti sta accadendo “sotto il tappeto”, che è la cosa più importante. Il terzo è il disegno di usare questa guerra per rilanciare ancora una volta la propaganda contro la Russia e dirottare l’attenzione dai reali interessi in gioco. Il commento di Giulietto Chiesa su il Fatto Quotidiano.

Siria, quella sporca guerra del sultano di Ankara

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