Le case farmauceutiche ostaggio di Trump?

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Scrive il Financial Times: il “nazionalismo”, applicato ai vaccini, rischia di rallentare la lotta al coronavirus. Lo abbiamo già visto con l’influenza suina del 2009, quando i Paesi più ricchi del mondo quasi si azzuffarono per firmare accordi con le case farmaceutiche, lasciando le nazioni più povere in coda alla lista. L’Australia arrivò a impedire a un’azienda farmaceutica locale di esportare dosi negli Usa fino a quando tutta la popolazione australiana non fosse immunizzata, mentre l’amministrazione Obama diede la priorità alla distribuzione nazionale, in deroga alla propria promessa di donare vaccini ai Paesi più in difficoltà. Il commento di Giulia Belardelli su Huffington Post.

Il vaccino contro il Coronavirus nelle mani di Trump? Un problema per l'Europa

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Dr. Fauci e mr. Trump

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Un’influenza” è stato a lungo il ritornello del presidente degli Stati Uniti Donald Trump), ha messo la lotta al Covid-19 nelle mani espertissime di un luminare della immunologia come Anthony Fauci, 79 anni, italoamericano di Brooklyn, scienziato e funzionario pubblico. E’ lui il Colin Powell, tanto per assecondare la nostra metafora bellica. Suo aiutante di campo, Deborah “Debbie” Birx, distaccata dal dipartimento di Stato dove ha lo status di ambasciatrice, medico militare, sotto le armi dal 1980 al 1994 fino a raggiungere il grado di colonnello, grande esperta, anche sul campo, di virus ed epidemie. Nel 2014 è stato Barack Obama a nominarla alla testa del piano di emergenza per la lotta all’Aids da lui voluto. Ciò poteva renderla sospetta a Donald Trump, ma per lei ha garantito il vicepresidente Mike Pence che l’ha introdotta alla Casa Bianca per coordinare la task force messa in piedi allo scopo di combattere il Covid-19.

Fauci-Birx, il generale e il colonnello, una coppia solida, esperta, affiatata, eppure ha dovuto sudare sette camicie prima di convincere il presidente che la faccenda si stava facendo davvero seria. Tanto da non evitare gli errori iniziali (messaggi pubblici contraddittori, ritardi persistenti nei test e nelle forniture sanitarie necessarie), per colpa dei quali gli Stati Uniti sono precipitati nell’inferno della pandemia e battono giorno dopo giorno ogni record di vittime tra infetti, malati e morti. Ancor oggi il team di scienziati si trova in contrasto con il primo cerchio dei consiglieri politici ed economici che hanno messo in discussione l’accuratezza dei loro modelli, fino al punto da negare l’evidenza, lamentandosi in privato della loro enorme influenza.

Il gioco del potere non si ferma davanti alla morte. E l’entourage trumpiano è perennemente diviso tra i lealisti e gli esperti sui quali viene gettata l’ombra del sospetto. L’ultimo caso riguarda il rimedio miracoloso, l’idrossiclorochina utilizzata, tra le altre cose, contro la malaria. Trump ci crede in base a quelli che egli stesso chiama “aneddoti”. Fauci è contrario: non si fida, non ci sono risultati clinici validi. In realtà, anche qui è in atto un braccio di ferro per ottenere le grazie del sovrano, perché a insufflare il presidente è il cerchio magico formato da fedelissimi come Rudy Giuliani, Larry Ellison e Laura Ingraham, tutte personalità di valore, ma digiuni di immunologia: il primo è un avvocato ed ex magistrato, campione della lotta alla mafia; il secondo, fondatore di Oracle è un guru high tech; la terza non sa nulla di preciso e di tutto un po’, è una conduttrice di Fox News la rete televisiva conservatrice, e proprio lei ha più degli altri l’orecchio di Trump. La settimana scorsa, racconta il Washington Post, ha accompagnato alla Casa Bianca due medici ospiti abituali della sua rubrica in tv, ferventi adoratori della colorochina.

Forse hanno ragione, però Fauci non si piega e non esita a contraddire Trump anche in pubblico, durante i briefing per la stampa. Lo scienziato riprende il presidente il quale trattiene a stento la sua irritazione. Il primo dice che il vaccino è ancora lontano e la situazione non può che peggiorare, il secondo sostiene che ci siamo quasi e a Pasqua sarà tutto finito. Il battibecco tra i due è diventato una situation comedy televisiva, anche se bisogna dire che Trump, impaurito e incerto, è pronto a cambiare rapidamente idea, più presto del solito. “Abbiamo discusso vigorosamente con il presidente di non ritirare queste linee guida dopo 15 giorni, ma di estenderle e ascoltarle”, ha raccontato Fauci alla Galileus Web: “Il dottor Birx e io siamo entrati insieme nell’ufficio ovale, ci siamo chinati sulla scrivania e abbiamo detto: ecco i dati, diamo un’occhiata. Il presidente li ha guardati, ha capito, e ha semplicemente scosso la testa replicando: ‘Credo che abbiamo da fare’”. Il vantaggio è che The Donald, sebbene detesti essere contraddetto (fin da quando era piccolo sostengono i suoi biografi), apprezza l’approccio diretto e chi gli tiene testa lealmente. Una volta ha ricordato l’abilità di Fauci come giocatore di basket, definendo lui e la Birx “grandi geni”, un po’ per celia un po’ per sincerità. La dottoressa colonnello ha un approccio meno frontale, forse perché, sostengono le malelingue, essendo di nomina politica può essere cacciata in ogni momento. In realtà, è proprio la sua formazione militare a spiegare un atteggiamento ispirato a disciplina e obbedienza alla catena di comando, diverso da quello scanzonato e irriverente del proprio mentore.

Il tono è certamente meno terra terra alla corte di sua maestà britannica, ma le tensioni tra politica e scienza non sono minori, anzi sono aggravate dal conflitto interno allo stesso mondo della medicina. All’ombra della “immunità di gregge” che aveva conquistato il primo ministro Boris Johnson desideroso di mostrarsi ancora una volta degno del suo mito Winston Churchill, si svolge lo scontro tra gli scienziati di Oxford e quelli londinesi dell’Imperial College. I primi, guidati dalla professoressa Sunetra Gupta, sostengono, cifre alla mano, che la mortalità del Covid-19 è inferiore rispetto alle stime ufficiali e il visus, il Sars-Cov-2, è meno aggressivo di quel che sembra. Gli altri, guidati da Roy Anderson e sostenuti dal suo protetto Neil Ferguson, hanno rigettato lo studio oxoniense considerandolo “fondamentalmente speculativo”. E mentre gli esperti si schiaffeggiavano a suon di rapporti e contro-rapporti, il governo esitava, gli ospedali si riempivano di malati, la pandemia colpiva a ritmo accelerato, come in Italia, come in Spagna, forse anche di più. C’è chi insinua che dietro lo scontro tra Oxford e l’Imperial College ci siano antiche rivalità: il trait-d’union sarebbe Anderson il quale vent’anni fa, quando era a Oxford, fece pesanti apprezzamenti sull’allora giovane collega Sunetra Gupta, arrivando a sostenere che aveva ottenuto la cattedra perché andava a letto con il capo dipartimento. Ne seguì uno scandalo, Anderson ci rimise il posto e si trasferì a Londra. Non sappiamo se abbia perdonato, certo non ha dimenticato. In ogni caso, alla fine, anche BoJo si è convinto a seguire l’Imperial College, pagando personalmente il prezzo della hybris. La politica al primo posto, ma quando la politica non è in grado di conoscere la realtà, quando in politica prevale l’incompetenza e quando vince la presunzione? Che fare allora, una volta delegittimato chi è in grado di sapere? “Conoscere per deliberare”, il monito platonico di Luigi Einaudi risuona in questi giorni, ovunque, e naturalmente anche in Italia.

Una volta scoppiata la crisi del 2008, la regina Elisabetta con il candore che solo una sovrana può permettersi, chiese ai massimi esponenti della London School of Economics perché mai non avessero capito quel che stava accadendo. Ricevette una risposta compita e contrita, piena di spiegazioni razionali e di una conclusione anch’essa candida, cioè sincera: non abbiamo capito, ci siamo sbagliati. L’episodio torna attuale ora che si scatenano le polemiche sul collasso dei sistemi sanitari e proprio nei loro punti più alti: Milano, Londra, New York. Ci vorrebbe qualcuno altrettanto sincero da porre la stessa domanda e qualcun altro così onesto da rispondere “ci siamo sbagliati”. Invece è tutto un rimpallo di responsabilità: la regione Lombardia, alla quale spetta la gestione della sanità, se la prende con Palazzo Chigi il quale replica elencando giorno dopo giorno le incongruenze e i ritardi di Milano. Intanto, il Veneto gonfia il petto arrogandosi un modello più efficace. Bella forza, replicano i lombardi, da voi si è abbattuto un temporale, su di noi un uragano. E sì che anche il governo giallorosso si è affidato a un quartetto di esperti: Walter Ricciardi, consulente numero uno, proviene dall’Università cattolica e dal policlinico Gemelli, attore per diletto, politicamente vicino a Luca Cordero di Montezemolo ai tempi di Italia Futura; accanto a lui Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità; Angelo Borrelli, un funzionario pubblico, capo della Protezione civile, è il controllore supremo; Domenico Arcuri, sceso in campo per ultimo, fa il commissario straordinario. Insomma, due medici e due amministratori. Nemmeno loro si trovano sempre d’accordo, le dichiarazioni televisive sono talvolta contraddittorie, i messaggi confusi, ma bisogna capire che Fauci-Birx, il generale e il colonnello, hanno dovuto sudare per convincere il presidente che la faccenda si stava facendo seria.

La politica al primo posto, ma quando in politica prevale l’incompetenza oppure quando vince la presunzione, come si fa?

Anche in Italia, ora che appaiono barlumi di speranza e serve una road map per la fase due, sono tornati gli scontri tra politica e scienziati nessuno possiede la ricetta, finché non ci sarà (se ci sarà) il vaccino o finché non verrà trovato un cocktail di farmaci efficace, come per l’Aids.

L’idea di mettersi nelle mani di personalità super partes è senza dubbio corretta. Tuttavia questo continuo ripetere “lo dicono gli scienziati, ci affidiamo alle loro decisioni” può sembrare un modo per diluire le responsabilità ultime che sono di chi decide sullo stato d’eccezione. Ora che appaiono barlumi di speranza ed è arrivato il momento di scegliere se e quando riaprire le gabbie in cui siamo rinchiusi da un mese, politica e scienza tornano a dividersi. Prima è cominciata la cacofonia. Poi il dissenso. Ricciardi è netto: “Sconsiglio l’apertura di fabbriche e scuole”. Conte replica: “Non siamo in Cina, la gente non può stare troppo a lungo in casa”. Gli industriali premono: “L’economia deve ripartire”. I sindacati frenano: “La salute innanzitutto”. Gli unici a tacere, sconfitti dalla falce nera del Covid-19 sono i no vax. Ma non per molto, siamo pronti a scommetterlo.

La gestione del dopo, la riapertura progressiva, è ancora più difficile. Passare dalla strategia della soppressione a quella del contenimento flessibile è rischioso (a Singapore siamo alla terza ondata, a Hong Kong alla seconda, in Cina il virus si sposta da un distretto all’altro) e soprattutto estremamente complesso, richiede controlli a tappeto e la mobilitazione di una struttura sanitaria oggi sotto stress e in pieno collasso nelle regioni più colpite, dalla Lombardia all’Emilia. Affinché riesca occorre una collaborazione stretta tra tutte le istituzioni e la politica, ci vuole soprattutto fiducia negli amministratori e negli esperti. Torniamo così a Clemenceau. Si potrebbe replicare che la pace è troppo seria per lasciarla ai governi, del resto il vecchio radicale francese fu tra i protagonisti del rovinoso trattato di Versailles che nel 1919 emarginò l’Italia vincitrice e aprì la strada a Mussolini, ma soprattutto umiliò la Germania, innescando quel sentimento di rivalsa cavalcato dai nazionalisti e da Hitler. Allora, attenti al primato della politica, che ha le sue ragioni anche se la ragione talvolta non riesce a comprenderle.

Stefano Cingolani  - Il Foglio – 13 aprile 2020

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L’esempio in Europa

A qualunque costo! Che cosa sarebbe accaduto all’euro se nel luglio 2012 Mario Draghi, anziché dire che la Banca centrale europea avrebbe difeso l’euro «costi quel che costi», avesse annunciato un numero, una quantità anche immensa di acquisti di titoli pubblici? I mercati lo avrebbero messo alla prova e, speso quell’ammontare, alla Bce non sarebbero rimaste che due strade: perdere la propria reputazione e andare oltre il limite che aveva annunciato, oppure abbandonare l’euro. Qualunque strada avesse scelto, la moneta unica non ci sarebbe più. Analogo è oggi il problema di come usare il bilancio pubblico per far fronte all’epidemia del Covid-19. È sbagliato partire da un numero massimo di tagli di tasse e aumenti di spesa. Non sappiamo di quale intervento ci sarà bisogno per arginare l’effetto dell’epidemia sull’economia. Quando rallenterà la diffusione del contagio? Dovranno essere estese le zone rosse? Quanti Paesi, e quanto a lungo, proibiranno ai nostri imprenditori di viaggiare, frequentare le fiere, incontrare i clienti? Nessuno oggi lo sa. Il governo ha già annunciato misure per 3,6 miliardi di euro. Basteranno? Probabilmente no anche nelle ipotesi più ottimiste. Come si può pensare che un intervento che vale lo 0,2 per cento del Pil riesca ad arginare uno choc che ha fermato interi settori, dal turismo alle fiere, e intere province? Come nell’esempio della difesa dell’euro non bisogna annunciare un numero, ma un obiettivo irrinunciabile. Innanzitutto, costi quel che costi, medici e ospedali devono essere posti in condizione di funzionare. Si chieda ai primari dei reparti di che cosa hanno bisogno e gli venga concesso nel più breve tempo possibile. I dipendenti di imprese che a causa dell’epidemia hanno visto svanire gli ordini devono essere protetti, che godano dei benefici della Cassa integrazione o no, che abbiano contratti a tempo definito o a tempo indeterminato. Idem per gli autonomi la cui attività non sia nella forma di una società a responsabilità limitata. Le tasse dovranno intanto essere rinviate nelle zone rosse e gialle, poi si vedrà. Le imprese non devono fallire a causa dell’epidemia: ciò significa ampia liquidità per far fronte alla caduta della produzione. In altre parole occorre evit"re che allo choc all’offerta, causato dall’interruzione delle catene produttive (ad esempio perché il fornitore cinese di un pezzo essenziale non produce più), si sommi uno choc alla domanda, causato dalla caduta dei consumi privati, costi quel che costi. La politica economica non è in grado di riparare uno choc all’offerta, ma di impedire che ad esso si sommi una caduta della domanda, questo sì. Gli Stati Uniti lunedì scorso hanno messo in campo la Banca centrale annunciando un taglio dei tassi di interesse. È stato un intervento contro-producente perché nessuno crede che con tassi di interesse ormai vicino a zero (o addirittura negativi nell’area dell’euro) la politica monetaria sia lo strumento da usare. Mi aspetto che a breve il presidente Trump annunci un grande programma fiscale, un intervento sulle tasse, simile nella dimensione a quello messo in campo da Barack Obama nella primavera del 2009 e che valeva quasi 5 punti di Pil. Nell’eurozona un simile intervento dovrebbe e"sere deciso dall’unione europea. Ma purtroppo siamo ancora lontani da poter attuare una politica fiscale comune. Il commissario europeo Paolo Gentiloni nell’intervista di ieri al Corriere ha fatto chiaramente intendere che Bruxelles non bloccherà interventi giustificati dalla gravità dello choc. Ma devono essere interventi realistici e mirati alla difesa e al rilancio dell’economia. Infine dovremmo ricordarci che le crisi offrono anche opportunità spesso non disponibili in tempi normali. Il piano fiscale straordinario che il governo si appresta ad annunciare dovrebbe essere accompagnato da qualche intervento strutturale. La Cassa integrazione in deroga potrebbe essere estesa stabilmente a tutti. C’è la difficoltà che alcuni lavoratori oggi non pagano il contributo che finanzia la Cassa. Si potrebbe pensare a una fase straordinaria in cui essi accedono ai benefici della Cassa anche senza avervi contribuito, seguita da un ritorno alla normalità in cui cominciano a pagare i contributi. Ma il punto che tutti hanno diritto alla Cassa potrebbe essere acquisito. Rispondere alla crisi significa non solo difendersi ma anche puntare lo sguardo più avanti. I tanti progetti di semplificazione finiti nei cassetti dei ministeri potrebbero essere resuscitati. Nelle difficoltà di queste settimane si è capito quanto sia importante poter lavorare a distanza, dalle scuole, alle università, alle imprese. Per le aziende, e non solo, questo si chiama «industria 4.0». Approfittare dell’emergenza per dare al Paese il segnale del quale ha bisogno: «Siamo pronti, a qualunque costo» a reggere alla crisi e, soprattutto, a ripartire.

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera – 5 marzo 2020

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