L'Italia stenta ad uscire dalla recessione

I mercati finanziari del vecchio continente continuano a mietere vittime. Naturalmente parliamo del parco buoi. I grossi papaveri no. Quelli riescono a guadagnare sempre. Come recita, del resto, una pubblicità radiofonica. Se che gli indici salgano o scendano, i profitti sono assicurati. Ma non tutti sono in grado di centrare l'obiettivo del guadagno. Tant'è che negli ultimi anni i detentori di grandi ricchezze si sono ulteriormente arricchiti, mentre tutti gli altri si sono impoveriti. A Piazza Affari ha trovato ormai stabile dimora da qualche tempo l'orso. Gli indici volgono all'ingiù e non c'è verso per un'inversione di tendenza. Non tutti sanno che l'andamento dei mercati borsistici riflette, se non addirittura anticipa, il trend di un sistema economico. Che l'Italia sia in grande difficoltà dal 2007 non è più un mistero. Resta incomprensibile come la nostra classe politica non riesca ad affrontare i nodi cruciali che aggrovigliano l'economia e le impediscono di risalire la china. Potrebbero bastare alcune mosse azzeccate dall'esecutivo Renzi, come dimezzare il numero dei parlamentari, dimezzare le loro retribuzioni, dare il via alla spending review suggerita da Carlo Cottarelli, con una sforbiciata alle migliaia di partecipate dagli enti locali, sfoltire l'immensa folla dei dirigenti ( a tutti i liveli) che godono di emolumenti che in questi tempi di crisi si possono definire semplicemente pazzeschi e gridano vendetta al cospetto di milioni di italiani che stentano ad arrivare alla terza settimana del mese (addirittura in certe realtà pubbliche ci sono più dirigenti che impiegati), riorganizzare il sistema delle regioni (da 20 farle scendere a non più di 4), ristrutturare il sistema amministrativo (l'Italia ha 8092 comuni, cui ben 5640 hanno una popolazione inferiore ai 5000 abitanti, dal sito www.comuniverso.it) per adeguarlo ai fabbisogni di una società che è profondamente mutata negli ultimi decenni. Si deve andare verso un accorpamento dei piccoli enti locali. Che senso possono avere comuni con 40, 60 0 anche 100 abitanti?      I margini per adottare un politica economica che sia in grado di assicurare un trend di crescita, con ampi spazi di recupero delle indispensabili risorse, ci sono tutti. Forse il governo Renzi non ha proprio un grande desiderio di "cambiare verso". Così come nessu esecutivo ha avuto il coraggio di riformare il Bel Paese. Prova ne sia è che l'Italia è sempre più nei guai. Che niente stia cambiando é anche questo sotto gli occhi di tutti. E l'andamento di Piazza Affari lo sta a testimoniare. A molti il fatto che crollino gli indici borsistici non suggerisce nulla. Invece i dati sono assai significativi. Un premio nobel dell'economia, il grande Paul Samuelson sosteneva che l'andamento dei mercati finanziari Da noi Piazza Affari), gli indici di borsa, insomma, sono la cartina di tornasole della situazione economica di un Paese. Un esempio per capire: dal 21 aprile 2007, i Unicredit. Intesa e Mps sono. arrivati a perdere oltre il 90% della loro quotazione, del loro valore. Sarebbe come ammettere che questi istituti di credito erano (e uno, il Monte dei Paschi di Siena lo è effettivamente). Cosa hanno fattoi governi Berlusconi, Monti, Enrico Letta e Renzi? Assolutamente nulla. Qualcuno addirittura, quando venivano espresse preoccupazioni per la drammatica situazione economica che ha visto crescere negli ultimi anni la cassa integrazione, il numero degli esodati e la disoccupazione in particolare nel settore privato, ha parlato di "gufi", di "gufare"  rendendosi ridicolo agli occhi degli osservatori più attenti. Già Mario Monti, al'epoca del suo esecutivo, parlava di una luce in fondo al tunnel. Non era l'agognata ripresa. Adesso si briga per la riforma della legge elettorale ma si persiste nel non voler vedere la realtà. Che occorre creare gli incentivi per una vera crescita dell'occupazione, adottando tutti, ma proprio tutti gli strumenti idonei a realizzare l'obiettivo. Incominciando dal'andare a Bruxelles e affrontare a muso duro finlandesi e tedeschi per impostare una politica di investimenti che consenta al Paese di uscire dalla recessione. Nel contempo, a costo di andare rapidamente a elezioni, il premier, anziché polemizzare con sindacati e organizzazioni datoriali, dovrebbe lasciarsi consigliare da persone capaci e non da mezze figure, quali Taddei, Boschi e Madia. Impari la lezione dalla Germania di Gerard Schroeder. E... occhio all'andamento dei mercati finanziari. S Wall Street macina record su record, ci sarà pure una buona ragione. O no?

Marco Ilapi

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Junker, molla la poltrona!

Lo scandalo che sta travolgendo il neo presidente della Commissione Ue, Jean Claude Junker, è di dimensioni ciclopiche. Un uomo che ha sfacciatamente favorito il proprio Paese (il Lussemburgo) essendone stato premier e ministro dell'economia, coe ci racconta Stefano Feltri su Il Fatto Quotidiano, accordando vantaggi fiscali da sogno (come direbbe Flavio Briatore, versione Crozza) a tante grandi aziende. Certo che un'Unione Europea che tollera sperequazioni fiscali mostruose tra Paese e Paese non potrà fare molta strada. O i signori di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte si decidono a fare gli interessi di tutto il Vecchio Continente (o almeno dei 28 Stati facenti parte dell'Ue) o l'Europa sarà condannata ad essere la cenerentola delle economie mondiali. L'unione fa la forza, suggerisce un vecchio proverbio, ma in questo caso, l'Ue si sta scavando la fossa e ha in preparazione l'elogio funebre, il proprio, e quello della moneta unica. A meno che... le economie affacciantesi sul Mediterraneo non rinsaviscano e costringano Angela Merkel ad abbandonare un'assurda linea rigorista. Che ha generato tanti guai. Le riforme, in ogni caso, vanno fatte: quella sul lavoro, sulla giustizia, quelle istituzionali e quant'altro. Riforme a Roma promesse da vent'anni e mai attuate. Renzi ci sta, sinceramente, provando, ma le resistenze appaiono molto forti. In questo contesto si inserisce lo scambio di quasi invettive tra il nostro premier e Junker e la scoperta del comportamento non proprio commendevole del lussemurghese, assurto ad un ruolo che non gli compete per statura morale. Sarebbe gesto egregio se annunciasse le dimissioni da presidente della Commissione Ue. Cameron, Renzi e Hollande dovrebbero mettere sulla bilancia la proposta. Se la sentiranno? Io ho dei forti dubbi...

Marco Ilapi

L'articolo di Stefano Feltri

Commissione Ue, la colpa è tutta di Juncker: è l'ora delle dimissioni?

Il neopresidente della Commissione europea Jean Claude Juncker si deve dimettere? Guardiamo la situazione in astratto:documenti ufficiali dimostrano che il titolare di una delle più importanti cariche europee nella sua passata vita politica è stato responsabile di accordi segreti con grandi multinazionali che grazie a queste intese sono riuscite a sottrarre decine di miliardi ditasse ai Paesi in cui avrebbero dovuto pagarle. Questo è, in sintesi,il risultato dell'inchiesta del Consorzio Internazionale per il Giornalismo Investigativo: 340 aziende hanno spostato una parte delle loro sedi legali in Lussemburgo per fare "ottimizzazione fiscale", cioè per pagare meno tasse usando metodi quasi leciti.

Due di queste corporation – Amazon e Fiat – sono già sotto inchiesta dalla Commissione europea guidata proprio da Juncker. Se si guardano i numeri, probabilmente ha fatto più danni alle finanze pubbliche europee Juncker che qualunque evasore fiscale. Eppure non se ne possono pretendere le dimissioni, come fa per esempio ilMovimento Cinque Stelle. Perché era tutto noto: basta leggere la brochure promozionale del Luxembourg Stock Exchange, la Borsa del Granducato, per vedere che questo ricchissimo staterello non ha pudore nel presentarsi come uno snodo fondamentale per le imprese che devono eludere il fisco. Perfino Finmeccanica ha usato il Lussemburgo per pagare meno tasse allo Stato italiano, suo primo azionista (il nuovo management spiega che in futuro non succederà più).

Quando il Partito Popolare e poi il Consiglio e il Parlamento europeo hanno individuato in Jean Claude Juncker il successore di José Barroso alla Commissione, hanno applicato una specie dicondono fiscale. O almeno morale. L’Europa accetta al suo interno quello che gli economisti chiamano arbitraggio fiscale o, meglio, “beggar thy neighbour” (frega il tuo vicino). La prosperità di nazioni sempre pronte a criticare la bassa competitività dei Paesi mediterranei indebitati si fonda quasi esclusivamente sulle furbate fiscali: Olanda, Gran Bretagna e soprattutto Irlanda hanno fatto della bassa imposizione fiscale la fonte della crescita. Uno sviluppo ammirato e celebrato ma che è soltanto l’altra faccia della colossale imposizione fiscale lamentata altrove, soprattutto in Francia e Italia. Lo scandalo “LuxLeaks” non è una notizia. La sanzione morale che comincia a colpire le aziende che aggirano il fisco in Europa invece è una cosa nuova. Juncker dovrà tenerne conto.

Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano - 7 novembre 2014

Un articolo di Massimo Restelli su il Giornale

Così funziona l'eden delle tasse. Ma chi ci entra non è un evasore

Per staccare il biglietto di ingresso serve un consulente locale che può costare fino a 50mila euro. E i patti permettono di ridurre le aliquote al minimo

Ogni «club» che si rispetti ha una porta d'accesso e quella che devono varcare le aziende e i «paperoni» di tutto il mondo per godere della magnanimità del fisco del Lussemburgo, di fatto tra i meno esosi del Pianeta, è quella della Societè 6 al civico 18 di rue du Fort Wedell

È in questo bureau d'imposition , a due passi dalla stazione ferroviaria, che il funzionario preposto vaglia i decisivi tax ruling.

Si tratta dei «patti fiscali» tra la singola impresa (o privato cittadino) e l'Agenzia delle entrate del Granducato, in cui si stabilisce di comune accordo una tassazione in deroga all'aliquota formale del 29% in vigore nello piccolo Stato europeo. Un sistema ben oliato e che «non ha nulla di illegale», sottolinea Francesco Giuliani dello studio Fantozzi, ricordando come il Lussemburgo non sia un paradiso fiscale in senso classico.

La «generosità» del Granduca costa però molto cara agli altri Paesi del Vecchio Continente in termini di mancato gettito sugli utili e dividendi delle aziende che chiedono asilo nella cittadina. Come dimostrano in modo plastico le decine, a volte centinaia di targhe societarie che affollano i portoni del Granducato: sono 11mila le casseforti domiciliate tra le strade di Lussemburgo e 150 le banche.

Secondo alcune stime l'ammanco totale per gli altri condòmini dell'Eurozona arriva a 1.400 miliardi; da qui le vibrate proteste che gli altri Stati hanno inviato a Bruxelles, ipotizzando che il sistema nasconda aiuti di Stato. Non esistono comunque limiti di fatturato o di altra natura per inoltrare la domanda e sperare che rue du Fort Wedell apponga il timbro «lu et approv é» («letto ed approvato»).

Ogni porta, però, ha una serratura che si schiude soltanto se si ricorre alla giusta chiave. Ecco perché chi decide di prendere casa nel Granducato non può esimersi dallo stabilire un contatto (e pagare la relativa parcella) con uno degli esclusivi e gelosissimi consulenti locali, cui affidare appunto la stesura del tax ruling : i costi una tantum, secondo alcune stime, oscillano tra i 10mila e 50mila euro. Una cifra considerevole ma in un'ultima analisi trascurabile, se questo significa strappare il biglietto d'ingresso per un Paese dalle tasse ridotte all'osso e che non fa decine di successivi accertamenti fiscali.

La stesura dell'atto è preceduta da una serie di incontri tra i legali e il cliente, con una particolarità determinante: a differenza di quanto accade in altri Paesi, è lo stesso advisor di stanza nel Granducato «che redige materialmente il ruling da sottoporre al bureau d'imposition al fine di ottenerne l'approvazione», sottolinea l'avvocato Jean Paul Baroni dello studio Simonelli Associati. In sostanza un efficace lavoro di squadra, che contribuisce alla prosperità del Lussemburgo: i suoi 550mila sudditi sfoderano un reddito procapite di 110mila dollari, il più elevato al mondo, a fronte di un debito pubblico fermo al 23% del Pil. Il ruling è un atto «ispirato alla reciproca convenienza tra il contribuente e il Granducato, che ha così certezza delle entrate e favorisce l'occupazione», riassume Giuliani. Quanto alle tipologie societarie che trasclocano più di frequente, oltre naturalmente alle multinazionali e alle holding (come quella del papà di Luxottica, Leonardo Del Vecchio o della famiglia Ferrero, i proprietari della Nutella), ci sono marchi, brevetti e più in generale i «beni intangibili» o collegati alla proprietà intellettuale. Ecco perché hanno un indirizzo nel Granducato buona parte delle big company italiane.

La cittadina dove l'austerità dei palazzi nobiliari si mescola con la levità dell'architettura moderna, resta poi meta ambita per quanti vogliono schermare i propri averi con piramidi e matrioske: i meccanismi a disposizione sono diversi e possono contemplare scatole cinesi o trust di complessità crescente, ma - prosegue Baroni - i sistemi principali restano il «negozio fiduciario» e quello delle «azioni al portatore». Un modo pratico, per tenere i propri affari al riparo da sguardi indiscreti: la stessa Camera di commercio fornisce una parziale visura sui bilanci, ma difficilmente si lascia scappare informazioni dettagliate sul libro soci.

In attesa di capire quale piega prenderanno gli accertamenti avviati da Bruxelles sul Paese, quello che resta ad oggi è che il Granducato ha garantito la sua prosperità, con un raffinato sistema fiscale e burocratico in giacca e cravatta comunque lontano dagli eccessi dei paradisi fiscali d'elezione come le isole Cayman. Forse all'Italia, e al governo Renzi, converrebbe plasmare un fisco più giusto e meno nemico di chi risparmia o fa impresa. Così da chiudere il recinto prima che tutti i buoi siano irreparabilmente fuggiti.

Massimo Restelli - Giornale - 7 novembre 2014

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Matteo pugnala alla schiena Enrico e conquista Palazzo Chigi

Il premier continua a sostenere che il Paese è con lui. Ma l’Italia non è il 40,8% dei votanti, specie in un’elezione europea dove vota appena il 57,2% degli aventi diritto. Se gli regalassero un pallottoliere, Renzi scoprirebbe che anche nel suo momento di massimo consenso – fine maggio – ha preso meno voti di Veltroni nel 2008, quando il Pd sconfitto da B. totalizzò il 33,2. Così Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano.

Il dietro front di Renzi

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