Riparte l'asse franco-tedesca

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«Quando Francia e Germania non sono d’accordo, l’Europa non avanza. L’una o l’altra possono avere una vittoria di breve termine, ma non dura», ha detto il presidente Macron in una conferenza stampa congiunta con la signora Merkel. «La simbiosi tra la Francia e la Germania è la condizione necessaria, anche se non è sufficiente» per dare nuovo impulso all’Europa. Ci sono anche gli altri partner, «e dobbiamo quindi avere un coordinamento stretto». L'editoriale di Beda Romano su Il Sole 24 Ore.

Con Macron e Merkel l'Ue cambia registro. E Gentiloni?

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Grazie a Macron, l'Ue tra un sospiro di sollievo

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Il Regno Unito entra in una profonda e duratura crisi politica, mentre la Francia vuole chiaramente voltare pagina dopo lunghi anni di marasma e ripartire con il piede giusto. La seconda, più importante, è che questa ripresa della Francia le restituisce un peso in Europa che il Regno Unito ha doppiamente perduto scegliendo la Brexit prima di bocciare, meno di un anno dopo, la Brexit dura voluta da May e presentarsi al negoziato sull’uscita dall’Unione senza sapere cosa vorrebbe ottenere o evitare. L'editoriale di Bernard Guetta sul sito www.voxeurop.eu.

May, flop in Uk, Macron ok in Francia

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Fra arroganza e autocrazie

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        La fallita scommessa elettorale del Primo Ministro inglese Theresa May assomiglia al calcolo del suo predecessore, David Cameron, che aveva puntato su una preferenza dell’elettorato a favore dell’Unione Europea. Anche lui si sbagliò clamorosamente. Entrambi agitarono un fantasma emotivo le cui inconsistenze sono destinate a diventare sempre più macroscopiche nel corso del tempo. I manipolatori dei revanchismi autonomisti che stanno alla base del Brexit (in primis, lo sconfitto Nigel Farage e il più inossidabile Boris Johnson) hanno irresponsabilmente sfruttato latenti e patetiche nostalgie imperiali e una curiosa incapacità di comprendere che il futuro e la sicurezza dell’Europa, Gran Bretagna inclusa, risiedono invece proprio nella UE, quali che siano i molti difetti di quest’ultima, e non certo nel pretestuoso e antediluviano fossile delle cosiddette alleanze atlantiche  o, ancora peggio, in ostinati e anacronistici isolazionismi.  

       La signora May, al contrario, nel suo ardore pro-Brexit, si precipitò immediatamente a porgere le riverenze al neo-eletto presidente americano, sognando così chissà quali futuri benefici e trattamenti di favore commerciali. Visto il velleitario e pericoloso decisionismo dell’attuale capo della Casa Bianca, nonchè i suoi inesauribili e umorali twitters, ogni eventuale futuro vantaggio e trattamento di favore verso la Gran Bretagna sono assai illusori.

       Va qui menzionato che certe recenti dichiarazioni della Cancelliera tedesca Angela Merkel, riguardo alla necessità che gli Europei inizino a rimboccarsi le maniche senza contare su volatili assistenze da fuori (cioè, americane) redimono (solo parzialmente) quest’ultima dalla sua avventata indiscriminata e non regolamentata politica immigratoria. (Per prendere la laurea o essere assunti occorrono esami e tests. Perchà gli stessi criteri non dovrebbero valere anche per l’ammissione d’intere comunità socialmente e culturalmente diversissime e tendenzialmente fondamentaliste?)

       Mentre dunque certe forze politiche britanniche hanno spinto il Paese verso non meglio identificate derive oceaniche, si fanno fortunatamente sempre più numerose e vigorose le voci di un riassetto e maggiore coesione europei (non a caso, Macron ha prevalso sull’isolazionismo lepenniano).

       Ritornando alla Gran Bretagna, David Cameron fece scoppiare l’immane e inutile pasticcio del Brexit, ma poi ebbe perlomeno il buon gusto di dimettersi immediatamente, anche se la sua decisione di ritirarsi dalla vita politica ricorda il memorabile lavarsi le mani di Ponzio Pilato. La signora May, al contrario, nonostante abbia sfasciato  la già fragile maggioranza del Governo, non pare avere nessuna voglia di dimettersi né appare contrita per il suo fallimento elettorale. Tale ostinato e poco onorevole attaccamento alla poltrona assomiglia alla faccia tosta dei CEO delle multinazionali, che continuano a percepire (e pretendere)  i loro colossali bonus anche quando le società da loro dirette stanno naufragando. Dopo aver provveduto a licenziare due comodi capi espiatori del suo gabinetto, pur di formare un governo di maggioranza, il Primo Ministro inglese sta ora cercando improbabili alleanze con l’ultra conservatore Partito Unionista dell’Ulster. Mentre l’alleanza in questione è ancora in alto mare e nasconde trabocchetti di vario genere, non sorprende che alcuni commentatori inglesi utilizzino nei confronti della Signora May i poco cortesi appellativi di dead man walking (morto ambulante) e di zombie. Stando così le cose, quello che allora stupisce è come mai nel suo partito non solo nessuno sembra abbia puntato a suo tempo i piedi per impedirle di porre in atto la sua disastrosa scommessa, ma anche adesso nessuno pare osare chiederne perentoriamente le dimissioni. Ciò è dovuto all’imminente inizio dei negoziati sul Brexit e quindi alla necessità di presentarsi a Bruxelles, anche zoppicando, o invece al fatto che mancano candidati adeguati per la carica di Primo Ministro? Mancanza insomma di statisti? Ciò sarebbe ancora più preoccupante del già caotico scenario attuale.

        Una cosa è peraltro certa: gli entusiasti promotori dell’uscita dalla UE non avevano la minima idea dello scompiglio e sempre più profonda confusione che l’ombra del Brexit sta creando nella vita politica del paese

        Un’altra curiosa indifferenza (o distrazione) del suo partito riguarda inoltre la gestione della sicurezza e dell’ordine pubblico da parte della Signora May durante il periodo (dal 2010 al 2016) in cui la stessa ricoprì la carica di Home Secretary (Ministro degli interni). Può darsi che a Manchester la polizia sia intervenuta nel brevissimo tempo di 8 minuti, come la Signora May non si è stancata di sottolineare, ma rimane il fatto che i tagli negli organici da lei effettuali (20.000 poliziotti) possono solo aver indebolito la capacità di un più capillare ed efficace presidio preventivo della sicurezza da parte delle forze dell’ordine. I recenti episodi terroristici e le inchieste relative hanno confermato che molti degli autori erano già noti negli ambienti della polizia e, cosa sorprendente, furono lasciati sostanzialmente in pace, allo stesso modo di vari più espliciti predicatori integralisti di violenza, come per esempio il noto C arrestato e condannato solo nel settembre 2016, nonostante egli da anni predicasse in modo esplicito un’Islàm ultra fondamentalista e intollerante. Come giudicare simili inspiegabili arrendevolezze?

      Incompetenza, miopia o arroganza? O le tre cose assieme?

      Queste considerazioni additano atteggiamenti, le cui ripercussioni su un’intera società possono avere effetti infinitamente più destabilizzanti e più inacettabili di quando gli stessi rimangono un fatto personale.

       Non è consolatorio ma perlomeno significativo il fatto che analoghe arroganze, questa volta marcatamente autocratiche, fioriscano anche sull’altro lato dell’Atlantico, con un ritmo sempre più serrato.

      Chiunque abbia osservato la recente visita di Donald Trump al Pentagono, all’ingresso del quale lo attendeva il neo Segretario alla Difesa, James Mattis, avrà notato con stupore l’interminabile lunghezza del corteo di macchine presidenziali che precedevano e seguivano la limousine del Presidente. Sindrome da presidenticidi, così radicati nella storia politica americana? Sicuramente, ma non solo. Sembra di assistere a un ritorno di autocrazie di vecchia memoria, tipiche della coreografia della corte di un Luigi XIV, della nomenklatura sovietica d’antan e, cosa imprevedibile, anche di quella nord-coreana attuale. Così, le firme dei decreti presidenziali, che avvengono in un clima da reality-show, assumono la forma di un analogo cerimoniale adulatorio, dove i  cortigiani alle spalle applaudono entusiasticamente. Anche  l’annuncio del ritiro dall’accordo di Parigi sul clima, effettuato nel giardino della Casa Bianca, ha mostrato l’immancabile schiera d’invitati che, compitamente seduti in fila di fronte al podio, hanno applaudito vigorosamente il bellicoso annuncio.

       Insomma, arroganza e incompetenza sembrano qualità quasi democraticamente diffuse, e gli esempi potrebbero moltiplicarsi, includendo figure di vari emisferi, colori politici e rango.

       La democratica (si tratta solo di un eufemismo) diffusione di tali atteggiamenti tuttavia non li giustifica e non ne elimina gl’incombenti pericoli. E’ noto quanto il velleitario decisionismo o dirigismo autocratico del neo-eletto presidente americano stia suscitando confusioni sia a Washington che nel resto del mondo. Il suo ultimo ambiguo frutto è la quasi automatica coincidenza fra la visita di Donald Trump in Arabia Saudita e la rottura delle relazioni diplomatiche di quest’ultima col Qatar, non a caso vicino all’Iran inviso dagli USA. Con una sorta di curiosa simmetria atlantica, il Brexit e le avventurose scommesse elettorali britanniche sopra citate non solo hanno introdotto nel Paese analoga incertezza ma stimolato anche tensioni separatiste e messo a nudo la persistenza di significativi problemi identitari di fondo.

       In attesa di capire l’esito di questo sciatto serial politico, vale la pena di menzionare come ovviamente i Laburisti sperino di rientrare presto al potere. Tutto ciò non significa affatto che il loro programma riservi necessariamente ai cittadini britannici l’atteso paradiso. Tutt’altro. In genere, il socialismo sembra aver dato frutti non dannosi soprattutto nei Paesi scandinavi, forse perché le sue forme erano meno impregnate di croste e livori ideologici. A parte una certa ambiguità sulle reali posizioni di Jeremy Corbyn sul Brexit – la politicizzazione ad oltranza di qualsiasi evento finisce per mascherare subdolamente la reale posizione degli uomini politici sui fatti concreti - rimane il fatto che, se non su di lui personalmente, almeno sul suo partito grava un’ombra che, per quanto plumbea, inspiegabilmente appare ignorata. Fu durante il governo laburista che infatti avvenne la partecipazione britannica alla sciagurata e criminale invasione americana dell’Iraq, voluta da Tony Blair e ancora di recente ostinatamente difesa dallo stesso. Ciò, nonostante il voluminoso rapporto Chilcot non lasci dubbi sul fatto che nel 2003 Saddam Hussein non rappresentasse affatto la minaccia che la propaganda bellicista sulle due sponde dell’Atlantico utilizzò per giustificare un’invasione i cui frutti amari continuano a germogliare ancora oggi, anche fuori dall’Iràq.

       Nuovamente, incompetenza e arroganza. O forse solo malafede.

       In realtà, vi è da augurarsi che, quale che sia un nuovo governo, riformato o prodotto da nuove elezioni, non siano ancora una volta l’arroganza o la demagogia a prevalere.

Antonello Catani, Atene

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