La Buona Scuola, il problema è irrisolto

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Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia. La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. L'editoriale di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera.

Fallimento della politica scolastica

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Scuola: diversi da chi?

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Un seminario all'Ius Rebaudengo di Torino. Il tema, assai attuale: Diversi da chi? è un agile documento del Ministero dell’Istruzione dello scorso anno, che affronta la questione interculturale delle nostre classi da un nuovo punto di vista: gli alunni di origine non italiana possono diventare occasione di cambiamento in una scuola “a colori”, laboratorio di convivenza e di cittadinanza.  Se ne è parlato nel corso dell’affollato convegno “Prospettive interculturali all’alba del Terzo Millennio” organizzato dall’Istituto Universitario Salesiano di Torino, il 17 settembre scorso.

Vinicio Ongini, da anni impegnato al MIUR in questo settore,  ha illustrato i 25 anni di documenti e politiche ministeriali, ricordando che nell’anno scolastico 2013-14 gli alunni con cittadinanza non italiana erano più di 800.000 (il 9% del totale della popolazione scolastica),di cui più della metà  di loro nato in Italia. Il 10,7% dei minori residenti in Italia è straniero, per cui è urgente capire a fondo quali siano le difficoltà che devono affrontare questi “nuovi cittadini”, come è emerso da un’indagine Istat sull’integrazione della seconda generazione: lingua italiana parlata solo dal 27% dei ragazzi in famiglia, scarsa frequentazione dei compagni italiani  fuori dalle aule, un indice di ripetenza maggiore rispetto ai coetanei italofoni, mancato senso di appartenenza all’Italia, frequenza delle superiori ridotta prevalentemente agli Istituti professionali  e tecnici.

Che fare? Diverse le proposte emerse dai vari relatori.

Da quelle più ‘pedagogiche’ e provocatorie di un pedagogista come Raffaele Mantegazza: educare al silenzio, alla passività (lasciare che le cose ti vengano addosso), alla solitudine, al non fare (non voler risolvere tutto, non fare a tutti i costi) per accettare la debolezza dell’uomo contro le violenze degli integralismi. A quelle più operative di Roberta Ricucci, docente di Sociologia dell’Islam: rafforzare l’orientamento scolastico, in ingresso e in uscita, rivedere i percorsi di accompagnamento per le famiglie sin dalla prima infanzia, implementare un’educazione interculturale quotidiana; in sintesi, leggere la nuova realtà non  come emergenza, ma come il futuro che è già presente. A quelle emerse dalle buone pratiche della città: teatro, laboratori sulla cittadinanza, preparazione di mediatori culturali,e dai progetti ministeriali che prevedono l’accoglienza di studenti stranieri in scuole di zone che vanno spopolandosi (il 25% dei territori italiani è abbandonato).  Senza dimenticare che anche la letteratura può avere un suo ruolo importante per mostrare lingue e culture diverse a confronto, per rispondere alle grandi domande esistenziali che interessano tutte le culture.

E se la misericordia può essere un anello di congiunzione fra le diverse religioni e culture, dobbiamo stare attenti al rischio- che ha denunciato  Olivero dell’Ufficio Pastorale per Migranti di Torino - della violenza insita nelle religioni, di per sé integraliste. Solo Gesù ha fondato una religione “laica”, perché una religione non può essere di parte se non vuole essere violenta. Tante testimonianze, attraverso le parole dei testi e attraverso le esperienze di vita reale, hanno mostrato che la convivenza interreligiosa e interculturale è possibil: non nel senso di fare la carità, ma come difesa dei diritti di ciascun individuo, diritto al lavoro, alla casa, ecc.. Basta volerlo!

Clara Manca, Cidi Torino, 6 ottobre 2016

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Insegnare logora? Forse no!

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Consapevolezza professionale, con progettazione e competenze trasversali. Si parla (anzi si straparla …) oggi di competenze, un po’ in tutti gli ambiti. In particolare nella scuola, benché persistano i voti-reinseriti recentemente anche nella scuola media- le interrogazioni programmate, la media dei voti, le assenze strategiche … Ma che vuol dire competenza? Ricordiamolo: “un insieme strutturato di conoscenze, capacità e atteggiamenti”. Un po’ difficile da coniugare con il modello tradizionale di scuola, che ancora impera in tante, troppe aule. Per questo, è degno di attenzione il tema di un convegno che si è tenuto a Torino a maggio, ad opera del Cidi (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), una storica associazione di docenti: il Cidi, appunto. Dedicato soprattutto a insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, il convegno è stato il punto di arrivo di un percorso di tanti docenti impegnati a riflettere sulle Indicazioni Nazionali, che oggi dovrebbero guidare la didattica dei docenti, al posto dei vecchi programmi ministeriali più rigidi e prescrittivi. Di questi lavori si è parlato, e soprattutto sono stati condivisi i risultati, nei laboratori pomeridiani, durante i quali è stato possibile anche provare a lavorare su problemi e materiali nell’ottica di un insegnamento competente.

Se si parla di “soggetto competente” il nostro pensiero va subito allo studente, a come dovrebbe essere, senza soffermarsi invece su un’altra prospettiva: l’insegnante competente. Perché per uno studente motivato, in linea con le competenze europee, è necessario un docente “competente”, con una metodologia composita: didattica (saper progettare, osservare, documentare, aiutare, fare domande opportune, gestire l’errore), comunicativa e collaborativa, che consiste nel saper ascoltare, costruire un percorso, dare un feed-back costruttivo; gestionale (saper gestire gruppi, tempi spazi, risorse, ma anche ostacoli), riflessiva, di ricerca. Come dire, il portfolio delle competenze di un insegnante …

Come intervenire per una scuola veramente attenta al discente? Con la progettazione didattica, innanzitutto, che una volta era vista come un’arte o una dote naturale, mentre oggi, in un mondo complesso e pieno di cambiamenti continui, deve divenire una metodologia di “previsione” e di ricerca, e soprattutto modificabile in corso d’opera. Non è proprio quello che succede ordinariamente, come sembra emergere da un’indagine sul rapporto fra programmazione annuale e attività didattica in classe, con una grande separazione fra l’una e l’altra, con lezioni pensate di volta in volta senza una organizzazione dei concetti in maniera gerarchica e una loro organizzazione in una rete di relazioni.

Con apprendimento non si intendono soltanto i progressi che l’allievo compie nella singola disciplina, quanto invece le attitudini, gli abiti mentali, gli interessi che si sono venuti formando in lui. In tale direzione si muovono, appunto, le Indicazioni Nazionali, che intendono il curricolo come l’insieme di conoscenze e abilità disciplinari (curricolo attivo) ma anche di pratiche educative (curricolo implicito). Perciò, per la formazione del soggetto competente si dovrà attivare un curricolo unitario verticale, frutto dell’accordo fra insegnanti delle varie discipline su una metodologia per l’apprendimento attivo e per le competenze di cittadinanza, grazie ad un lavoro comune sulle competenze trasversali. Obiettivo ultimo è, pertanto, non quello di dare singole tecniche e competenze, ma quello di formare ogni persona sul piano cognitivo e culturale attraverso l’azione didattica.

Quanto alla valutazione si può ricordare con Mario Comoglio che la valutazione è la verifica del progetto dell’insegnante!

Che cosa è, quindi, valutabile e progettabile? Non gli apprendimenti che ci saranno realmente. Si possono solo stabilire gli obiettivi, preparando dei contesti nei quali verificare successivamente gli esiti dell’azione educativa: strategie, atteggiamenti, modalità di interazione in classe, ecc., modificabili in itinere, tradotti poi in modalità operative (il “fare” degli allievi), ripetibili e realizzabili in contesti diversi.

In conclusione, è oggi necessario introdurre nelle nostre aule un apprendimento attivo, che si basa su un presupposto: si impara facendo. L’alunno deve essere coinvolto in modo attivo in situazioni problematiche, in compiti di realtà, a partire dalla propria esperienza; lavorare in collaborazione con i compagni; riflettere sui processi (metacognizione) con un conseguente rinforzo cognitivo fino ad autovalutarsi.

Possiamo dire, per concludere, un mestiere difficile, “usurante” quello dell’insegnante, che deve prendere decisioni all’impronta, deve continuamente riflettere sul proprio lavoro (possibilmente con il gruppo “amico-critico”, deve saper cambiare prospettiva per un suo sviluppo professionale tra consapevolezza e competenze.

Clara Manca – Cidi – Torino – 23 luglio 2016

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