L’equazione variazioni climatice - Gli incendi

Uno studio internazionale che ha coinvolto l’Istituto di geoscienze e georisorse del Cnr mostra come il clima influenzi gli incendi boschivi e l’ampiezza delle aree bruciate determinando la quantità di vegetazione secca che può alimentarli.  Lo studio è  frutto di venti anni di raccolta dati ed è stato pubblicato sulla rivista Earth’s Future.

Nella mappa qui sopra leggiamo il rapporto fra  la frazione della variabilità interannuale di area bruciata   in relazione alla variabilità delle condizioni climatiche. Nelle regioni in cui tale frazione è più grande, il riscaldamento globale potrebbe aumentare significativamente l’impatto degli incendi.

Lo studio internazionale che ha coinvolto l’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Igg), guidato dall’Università di Murcia in Spagna, ha permesso di ottenere, per la prima volta, una stima precisa di come i cambiamenti climatici influenzino l’estensione delle aree bruciate dagli incendi.

Sebbene spesso siano le attività umane, intenzionali o accidentali, a innescare gli incendi, è il clima a determinarne la portata. Una volta divampate, le fiamme bruciano un’area che dipende dalle condizioni meteorologiche durante l’incendio, come la presenza di forte vento, ma anche da altri due fattori cruciali: la disponibilità di combustibile, come legna e vegetazione secca, e l’efficacia delle misure di prevenzione e controllo.

Lo studio, condotto su scala globale, mette infatti in evidenza che lo stato e la quantità di combustibile sono strettamente legati alle condizioni climatiche dell’area interessata dagli incendi.

 “I risultati della nostra ricerca mostrano che le condizioni climatiche nel periodo immediatamente precedente l’incendio sono cruciali in ampie regioni del mondo, specialmente negli ecosistemi più umidi, perché determinano lo stato del combustibile vegetale. Tuttavia, anche le condizioni climatiche degli anni precedenti possono giocare un ruolo importante, specialmente nelle zone più aride, perché determinano l’abbondanza della vegetazione che può essere bruciata” spiega Antonello Provenzale, direttore del Cnr-Igg. “In una vasta parte del globo, pari a circa il 77% delle aree continentali soggette a incendi, circa il 60% delle variazioni annuali dell’area bruciata dipende direttamente dalle variazioni climatiche osservate di anno in anno”, continua.

 I risultati sono frutto dell’analisi di venti anni di dati raccolti sia al suolo sia da satellite: lavoro che ha permesso di creare il primo database globale che raccoglie informazioni sugli incendi boschivi da fonti nazionali. “Questo strumento unisce dati provenienti da diverse parti del mondo, offrendo una visione d’insieme delle aree colpite dagli incendi”, afferma Andrina Gincheva, dell’Università di Murcia, in Spagna, e prima autrice del lavoro. “Grazie a questo database gli esperti potranno studiare meglio come gli incendi boschivi stanno cambiando nel tempo e capire quali fattori li influenzano. Queste conoscenze saranno preziose per sviluppare strategie più efficaci per prevenire e gestire gli incendi, una sfida sempre più importante in molte parti del mondo.”

 Naturalmente, anche altri fattori possono influire in alcune aree, come la tipologia e la distribuzione della vegetazione, la capacità di identificare tempestivamente l’insorgenza di un incendio e la rapidità degli interventi di controllo.

“Ancora una volta, si vede come i cambiamenti climatici abbiano un impatto diretto sull’ambiente e sulla nostra società, e come sia necessario affrontare senza indugio la crisi climatica e al contempo predisporre adeguate misure di previsione dei pericoli naturali, per poter intervenire tempestivamente”, conclude Provenzale.

Lo studio è frutto di una vasta collaborazione internazionale che coinvolge, oltre al Cnr-Igg, numerosi enti a livello globale, tra cui l’Università di Murcia in Spagna, l’Università della California, l’Università di Montpellier in Francia, l’Università Australe del Chile, il Centro di ricerca sugli incendi boschivi e i pericoli naturali del Nuovo Galles del Sud in Australia.

Patrizia Lazzarin, 24 luglio 2024

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Figure del matto. Dal medioevo ai romantici

  • Pubblicato in Cultura

Oggetto di studio della storia sociale e culturale, la curiosa figura del pazzo che ha fatto parte della cultura visiva degli uomini nel Medioevo è stata raramente analizzata dalla Storia dell’arte.

Tuttavia tra il  XIII secolo e la metà del Cinquecento, la nozione di follia ispirò e stimolò la creazione artistica, sia nel campo della letteratura sia  in quello delle arti visive. La rassegna che aprirà al Museo del Louvre il 16 ottobre e sarà visibile fino al 3 febbraio 2025,  appare  stimolante e ambiziosa nella sua intenzione di affrontare la figura tipicamente medievale del folle attraverso le sue rappresentazioni.

Per il grande pubblico, l’arte medievale è essenzialmente religiosa. Fu però il Medioevo a dare forma alla figura sovversiva del pazzo.

Sebbene abbia le sue radici nel pensiero religioso, fiorì nel mondo secolare per diventare un elemento essenziale della vita sociale urbana. Per l’uomo medievale, la definizione di pazzo è data dalle Scritture, in particolare dal primo verso del Salmo 52: “Dixit insipiens…” Lo stolto disse in cuor suo: “Non c’è Dio!” La follia è soprattutto ignoranza e mancanza di amore per Dio. Al contrario, ci sono anche “pazzi di Dio”, come San Francesco.

Nel tredicesimo secolo, la nozione era quindi indissolubilmente legata all’amore e alla sua misura o eccesso, prima nel regno spirituale, poi in quello terreno. Il tema della follia dell’amore ossessiona i romanzi cavallereschi come quello di Yvain, Perceval, Lancillotto o Tristano e le loro numerose rappresentazioni, soprattutto nelle miniature e negli avori.

Ben presto, il personaggio del pazzo si intromette tra l’amante e la sua donna: è lui che denuncia i valori cortesi e sottolinea il carattere lussurioso, persino osceno, dell’amore umano. Da mistico o simbolico, il pazzo divenne “politicizzato” e “socializzato”. Nel XIV secolo, il buffone di corte divenne l’antitesi istituzionalizzata della saggezza regale, con il suo discorso ironico o critico accettato.

Nuove iconografie emersero, e il buffone fu riconosciuto dai suoi attributi: manie e ghiribizzi, cappotto a righe, cappuccio e campanelli. Nel XV secolo, la figura del matto si espanse enormemente, legata alle feste carnevalesche e al folklore.

Questo personaggio sovversivo entrò a far parte degli oggetti di uso quotidiano: divenne un elemento nei giochi di scacchi e una figura nei giochi di carte, oggi nota come jolly.

I pazzi non sono confinati tra le mura del palazzo: nelle città si possono trovare durante le feste in costumi dai colori sgargianti, con orecchie d’asino o cresta di gallo. Danza e canta, prendendosi gioco degli spettatori e seminando il dubbio: chi, lui o chi lo guarda, sono i veri sciocchi?

Associato alla critica sociale, il pazzo divenne veicolo per idee sovversive e giocò un ruolo nei tormenti della Riforma. Nel periodo tra Medioevo e Rinascimento, la sua figura divenne onnipresente, come dimostrano le opere di Bosch e Bruegel.

Nell’era moderna, il pazzo istituzionale sembra svanire, sostituito nelle corti europee dai giullari o dai nani. L’evoluzione della follia si manifestò in forme meno controllate dall’Illuminismo in poi.

L'”elogio” della follia scomparve gradualmente nell’Età dei Lumi, quando la Ragione salì alla ribalta e la figura del pensatore filosofico crebbe di importanza. La figura marginale che simboleggiava il disordine e l’anarchia fu relegata al passato.

Il folle riemerge qualche secolo dopo, all’inizio del XIX secolo. L’arte romantica, la nascita della psichiatria e gli esperimenti degli artisti con l’inconscio e il bizzarro riportarono in vita il personaggio. Tuttavia, il pazzo non era più un intrattenitore pubblico: da quel momento in poi fu un personaggio tormentato e misterioso, alternativamente spaventoso e terrificante.

La mostra riunirà più di 300 opere d’arte in un percorso cronologico e tematico: sculture, opere d’arte tra cui avori, scatole e bronzetti, medaglie, miniature, disegni, incisioni, dipinti su tavola e arazzi.

La mostra si concluderà con un’evocazione della visione ottocentesca del Medioevo attraverso il prisma del tema della follia, ma con la luce tragica, persino crudele, che le rivoluzioni politiche e artistiche gli hanno dato.

L’esposizione è sostenuta dalla Etrillard Foundation e dalla New York Medieval Society. I Commissari sono Elisabeth Antoine-König, Curatore Generale del Dipartimento di Arti Decorative e Pierre-Yves Le Pogam, Curatore Generale del Dipartimento di Sculture del Musée du Louvre.

Patrizia Lazzarin, 23 luglio 2024

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Il Rinascimento a Brescia

  • Pubblicato in Cultura

Come si viveva nel Cinquecento in una delle città più popolose dell’Europa moderna? Quali sentimenti animavano gli uomini? A chi si chiedeva protezione? Quale era il ruolo delle donne? Quali libri si leggevano, quale musica si ascoltava? Come veniva inteso il  rapporto con la natura e con l’antico? E l’amore? E la morte da che parte stava? Cosa rese la pittura bresciana straordinaria e la pose come base della rivoluzione artistica di Caravaggio?

A queste domande e anche a molte altre risponde la mostra Il Rinascimento a Brescia.  Moretto, Romanino, Savoldo. 1512-1552, di Fondazione Brescia Musei che ha la  curatela di Roberta D’Adda, Filippo Piazza e Enrico Valseriati e vuole  restituire al pubblico di oggi lo spirito di un’epoca.

Troppo spesso il Cinquecento bresciano di Moretto (1498 circa – 1554), Romanino (1484/1487 – 1560) e Savoldo (1480 circa – post 1548) è stato raccontato come un episodio isolato, confinato nella storia dell’arte.  Questa rassegna  dimostra come e perché la pittura raggiunse risultati sorprendenti, facendosi linguaggio precursore di maestri come Moroni e Caravaggio e divenendo base della straordinaria tradizione della cosiddetta pittura della realtà.

Il Cinquecento a Brescia è eccentrico, tormentato da tensioni religiose e dai drammi della guerra, tra il lusso delle famiglie nobiliari di una città ricca e potente, l’operosità di molti e il fermento culturale.

In mostra vedremo dipinti, oggetti, libri, armi, strumenti musicali che diventano testimoni di un periodo che si apre con il brutale Sacco della città nel 1512, la crisi sociale, economica, morale che ne consegue e prosegue con la rinascita, colma di inquietudine così come di un  desiderio di un nuovo tempo di pace e prosperità.

Brescia nel 1506 è una città di circa 60.000 abitanti, tra le venti città più popolose del continente europeo, più di Roma e più di Madrid; è uno dei centri nevralgici della Repubblica di Venezia in terraferma, un grande emporio commerciale e produttivo.  Questi dati non solo danno conto della convergenza di interessi esistenti su Brescia, uno dei maggiori centri economici, sociali e culturali dell’Europa del tempo, ma fanno meglio intendere cosa significò il 1512 quando le truppe francesi, condotte da Gaston de Foix, saccheggiarono la città uccidendo circa 8.000 uomini e donne, incendiando e distruggendo.

 La notizia divenne ben presto globale e si trasformò in spavento collettivo. Una tragica anticipazione di quello che sarebbe stato, di lì a pochi anni, il più violento e simbolico saccheggio dell’Europa moderna, il Sacco di Roma nel 1527.

Un capovolgimento dell’ordine costituito che ebbe ripercussioni immediate a Brescia: migliaia di vittime, distruzione di case, chiese e patrimonio, violenze e stupri, fuga di molti, interruzione di cantieri e il rallentamento brutale dell’economia e, ovunque, in termini di paura.

Diverse anche le conseguenze a lungo termine: la città non tornò più a essere altrettanto popolata, assestandosi intorno ai 40.000 abitanti e venendo presto superata da altri centri europei.  Conobbe un periodo di profonda crisi sociale, morale, religiosa. Un trauma che, come capita, generò fermento: si avviò infatti un ‘nuovo clima’ che questa mostra vuole raccontare attraverso le opere, perlopiù pittoriche, e gli artisti che vissero in quegli anni tanto complessi quanto intensi.

Difficile oggi comprendere appieno un’epoca lontana 500 anni, possibile ed affascinante è però viaggiare lungo la storia grazie a una serie di testimonianze, in particolare artistiche, molti indizi e diverse suggestioni.

 Il volto di questo progetto ma anche il termine cronologico, è Fortunato Martinengo.  Il nobile bresciano nasce infatti in quel 1512 e muore nel 1552. Fortunato Martinengo è un conte, scrive poesie, è un musicista, fonda l’Accademia dei Dubbiosi e prende parte ai movimenti ereticali dell’epoca. Vedovo in giovane età, il suo ritratto dipinto da Moretto – in mostra grazie allo straordinario prestito dalla National Gallery di Londra – è uno dei più affascinanti del Cinquecento, con una posa che ricorda la tradizione della melanconia, trasognata e misteriosa e riesce  a sintetizzare lo spirito del tempo.

 Oltre al luogo di nascita sono  molti i punti di contatto tra i tre pittori Moretto, Romanino e Savolgo,  così come molte sono le diversità. Savoldo è il più anziano e quello che forse più si distacca dagli altri due, anche per la sua lunga permanenza a Venezia. Egli  sviluppa un linguaggio poetico non sempre di facile lettura e raffinate ricerche illuministiche. Romanino è certamente l’interprete più spontaneo e, con l’andar del tempo, più “ruvido” della scena artistica, anche grazie alla sua capacità di mettere in scena contesti di verità di popolo e scene affollate. Moretto viene celebrato da Vasari come “delicatissimo ne colori e tanto amico della diligenza”, straordinario interprete del naturalismo lombardo e, come Romanino, riceve e recepisce stimoli provenienti dalla cultura figurativa nordica, padana, toscana e veneta.

A Brescia il ’500 è un’epoca in cui, oltre agli artisti, risaltano personalità carismatiche, anche in ambito religioso e intellettuale. Sono gli anni di Angela Merici, amica di Moretto e in contatto con Romanino, fondatrice nel 1535 della Compagnia di Sant’Orsola, della poetessa Veronica Gambara, e di Agostino Gallo che teorizza il rapporto armonico con la natura, rispecchiato in molti dipinti.

 Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto scrive Ariosto nel 1516: il periodo è appassionante, sono gli anni precedenti al Concilio di Trento, delle grandi inquietudini religiose, gli anni di Pietro Bembo e di Tiziano e del soggiorno a Bergamo di Lorenzo Lotto che in una lettera chiama Moretto, nel 1528, fratello.

La mostra che aprirà il 18 ottobre e sarà visitabile sino al 16 febbraio 2025, sarà ospitata presso il Museo di Santa Giulia. Sarà  accompagnata da una serie di itinerari in città e si propone come occasione per immergersi in un periodo storico per comprenderne gli aspetti artistici e umani. Un percorso tra arte, storia, filosofia e religione che svela un Rinascimento che ha saputo celebrare le donne, che ha identificato nella natura uno spazio di armonia e una fonte di possibile sviluppo e  che non è rimasto indifferente ai primi fermenti di riforma religiosa.

L’esposizione è resa straordinaria grazie alla presenza di prestiti provenienti da alcune tra le più importanti istituzioni internazionali come il MET di New York, la National Gallery di Washington, il Getty Museum di Los Angeles, oltre a New Orleans, Allentown, National Gallery di Londra, Kunsthistorisches di Vienna e Szépművészeti di Budapest. Dall’Italia giungono opere dalla  Pinacoteca di Brera, Castello Sforzesco, Accademia Carrara di Bergamo, Museo di Castelvecchio di Verona e  Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli, insieme a prestiti dal territorio lombardo e, in mostra, parte del patrimonio di Pinacoteca Tosio Martinengo e della Diocesi di Brescia che conservano alcuni tra i più importanti corpora di opere di Moretto, Romanino e Savoldo.

I visitatori sono infatti invitati a completare l’immersione nel Cinquecento bresciano sia attraverso un percorso in città, tra edifici sacri e non solo, e tra questi, la Chiesa dei Santi Nazaro e Celso che conserva il Polittico Averoldi di Tiziano – giunto a Brescia nel 1522 – sia nelle sale della Pinacoteca cittadina, con le grandi pale d’altare di Moretto e Romanino.

Il progetto permette inoltre ad alcune opere, dopo secoli, di tornare in città: è il caso dello Stendardo dei Disciplini dipinto da Moretto, in prestito da Possagno, già di proprietà di Antonio Canova, anche oggetto di un restauro realizzato in occasione della mostra. L’esposizione è accompagnata da un catalogo edito da Skira con testi di Letizia Barozzi, Barbara Bettoni, Marco Bizzarrini, Roberta D’Adda, Marco Faini, Querciolo Mazzonis, Fabrizio Pagnoni, Ester Pietrobon, Alessandra Quaranta, Barbara Maria Savy e  Elisabetta Selmi.

Dipinti Sensazionali, Chi cerca trova, Rinascimento in Musica, Una città «geniale», La Scienza dei Colori, sono solo alcuni dei titoli delle attività educative previste per scuole di ogni ordine e grado, famiglie e adulti.

Patrizia Lazzarin, 22 luglio 2024

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