Juti Ravenna, il pittore solitario “si racconta”

Juti Ravenna, il pittore solitario “si racconta”

“Conosco pochi artisti che lo siano come Juti Ravenna …

ha scelto per vivere Venezia, la città più artistica d’Italia … E come Venezia va soggetta a tutti i capricci della natura, nebbie, umidi, scirocco e alta marea … così questo pittore subisce tutte le dure difficoltà del vivere, immemore delle sue esigenze, preoccupato piuttosto che non manchi il mangime per i suoi pappagallini che tramutano in una foresta brasiliana con i loro gialli, verdi e cobalto e coi loro cinguettii d’amore la sua squallida soffitta che è come un piombo del Palazzo Ducale …”

Cosi scriveva il 10 ottobre del 1942, il giornalista e scrittore Giovanni Comisso sulla Gazzetta del Popolo, nel lungo articolo dal titolo Il pittore solitario riferendosi all’amico e artista Juti Ravenna. Ne rivelava così  la personalità non di facile interpretazione e la qualità del suo fare pittorico.

Le opere di Juti Ravenna che abbiamo l’opportunità di conoscere fino al 4 febbraio, nell’ampia retrospettiva a lui dedicata al Museo Bailo di Treviso, con oltre 100 dipinti, disegni, bozzetti e acquerelli, ma anche con documenti e foto d’epoca e oggetti a lui appartenuti,  ci conduce sala dopo sala dentro una passione per la pittura durata tutta una vita.

Ravenna nasce a Spadacenta, frazione del comune di Annone Veneto, nel 1897 e muore a Treviso nel 1972, città che lui amava già prima di sceglierla come luogo di residenza e spazio dove trarre l’ispirazione per rinnovare la sua arte, come capiamo leggendo le  memorie di lui tramandate.

Il trasferimento a Treviso, a contatto con una natura esuberante, ricca di alberi e fiumi, fece subentrare in lui una prepotente e calda sensualità: dopo i prediletti grigi, rosa e violetti stesi sulla tela in finissimi accordi nel periodo veneziano, ecco i colori vivi e splendenti, in liberi e arditi accostamenti. Non si trattava però di un orgiastico e confuso abbandono, ma di una felice esplosione contenuta entro i limiti del più rigoroso controllo.”

Le parole sono di Giuseppe Mesirca che si è occupato  anche del libro autobiografico di Ravenna “Una vita per la pittura”. La mostra, curata da Eugenio Manzato ed Eleonora Drago segue  un percorso cronologico che fa tesoro anche del nucleo di opere che appartengono al Museo Bailo, a cui si uniscono  i prestiti di collezionisti privati.  

La rassegna realizzata in occasione dei cinquant’anni dalla morte del pittore è accompagnata dalla pubblicazione di un catalogo edito da Scripta Edizioni, il quale  contiene anche una serie di contributi che approfondiscono aspetti meno noti della figura di Ravenna, come gli esordi giovanili, i primi anni veneziani e il lungo periodo di attività a Treviso. All’interno si troveranno  alcuni saggi che si soffermano  sulla produzione sacra dell’artista e in particolare quelli che spiegano i  rapporti con gli amici, artisti e intellettuali, come Giovanni Comisso.

La studiosa Daniela Chinaglia ci svela, in quest’occasione, i sentimenti e le difficoltà di vita del pittore che con semplicità e candore aveva  annotato, come era solito fare in occasionali foglietti, le  vicende quotidiane  per poi nella maturità tentare di disfarsene. Fu la moglie Rina che riuscì ad evitarlo e a nascondere quegli stralci di diario che noi conosciamo oggi, grazie anche al tempo dedicato da Daniela Chinaglia allo studio degli archivi dell’artista. La studiosa  si era laureata sul finire degli anni ’70 con una tesi su Juti Ravenna.

L’animo del pittore tuttavia la cogliamo in primis visitando la mostra.  Immaginiamo il  suo sguardo posarsi sugli specchi d’acqua dei suoi quadri, dove si riflettono case che costruiscono geometrie di paesi galleggianti. Treviso, il Sile , Casier … e ancora paesaggi dove le luci della vegetazione e le nuvole, sagome disegnate e tratteggiate con colori imprevedibili, si specchiano sul fiume. Tanti ritratti e riflessioni … pause, cambiamenti: la sua pittura si trasforma negli anni. Scorci di luoghi e scene di vita e di ambienti. Maternità: dialogo muto e intenso con il figlio. Donna gigante alla fonte che riempie il quadro con  la sua imponenza: monumento dell’umano. Il panneggio delle vesti, nelle sfumature che passano dal grigio marrone al viola  sembrano costruire tridimensionalmente la figura. Gli oggetti attorno diventano concreti, tangibili. Umanità e materia si confondono in un esperimento alchemico.

Juti Ravenna, innamoratosi dell’arte fin da giovanissimo, già durante una licenza nel corso della prima guerra mondiale ha modo a Firenze di scoprire gli Impressionisti.  Dal 1919 frequenta l’Accademia di Belle Arti di Venezia e negli anni successivi trasferisce il suo studio a Ca’ Pesaro, cominciando ad esporre. Nel capoluogo lagunare conosce Gino Rossi e Pio Semeghini e con altri condivide l’amore per l’isola di Burano e per le vedute tra acqua e cielo. La prima personale, nel 1924 a Cà Pesaro, è curata a Nino Barbantini.

 Seguono le partecipazioni alla Quadriennale e a diverse mostre di rilievo in Italia e all’estero. La sua prima Biennale è del 1928, presenza puntualmente ripetuta sino al secondo conflitto, per riprendere nel 1949 e ancora nel ’50 e nel ’72. Nel ’51, con Virgilio Guidi vince il Premio Burano, ma già dal ‘47 aveva scelto di abbandonare la laguna per approdare a Treviso, città che frequentava sin dagli anni ’30 e dove contava molti amici. E Treviso che lo ha adottato ha dedicato a lui la rassegna che lo vede protagonista.

 Patrizia Lazzarin, 8 gennaio 2024

 

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