L’anima negli occhi: Vincent Van Gogh

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Van Gogh. I colori della vita, il titolo della grande rassegna di cui si attende l’apertura sabato 10 ottobre, a Padova, nel Centro Culturale San Gaetano, condensa già nel nome il fascino del colore e della pennellata che hanno reso immortale il pittore olandese. Le tinte giallo, arancione, ma soprattutto  blu, azzurro e verde che si posano vicino al  bianco,  sono una cartina rivelatrice degli stati d’animo dell’artista: raccontano ai nostri occhi, calandoci nel blu, la sua spiritualità e posandoci sul giallo, la  vitalità che lo caratterizzava.  Egli è stato un eterno viandante in un percorso reale fra i paesi  del Belgio e dei Paesi Bassi e dalla città di Parigi alla Provenza. In questi luoghi  si è fermato e ha vissuto: percorrendo prima  a piedi chilometri, con il suo bagaglio di tele e pennelli, mosso dalla ricerca di una verità umana essenziale. Dentro questo viaggio la sua anima ha vagato come la sua matita ed il suo pennello per ritrovare fuori dal buio e dalla notte, la luce e il vero: l’accensione del sole che come un Icaro lo ha illuminato ma alla fine lo ha ferito a morte. Appassionato fin da bambino di uccelli, insetti e piante, cresciuto in una famiglia dove si leggevano  quotidianamente le Sacre Scritture, egli amava la terra, la gente che lì viveva e si curava di essa. Non rimase incantato dalla bellezza comune ma amò  ritrarre uomini e donne che mostravano i segni della fatica e della sofferenza, in particolare i contadini. Le parole di Marco Goldin, il curatore della mostra,  offrono una nuova interpretazione della sua figura: Van Gogh non era pazzo. Si è avvicinato al sole, prima cercandolo, poi fuggendone via. Vi è rimasto impigliato, con un filo che mai più ha districato, stringendolo nella mano.

Fino a quella spiga di grano rimasta nella tasca della sua giacca, sotto il cielo di Auvers, prima di sera. Accanto  a un covone. Sotto le stelle del firmamento … Ha creato con la disciplina della sua anima un mondo inarrivabile, il mondo di un eroe. Colui che arriva a toccare il sole e poi riesce a raccontarne il fuoco e il calore, la luce che abbaglia. E quella luce la fa diventare colore. Un colore che nessuno mai aveva dipinto così prima. … Non ci stupisce quindi la presenza di tre quadri del pittore irlandese Francis Bacon nella prima saletta della mostra, che egli aveva dedicato intenzionalmente all’olandese prendendo spunto da un suo dipinto, Il pittore sulla strada di Tarascona, andato distrutto durante un bombardamento a Magdeburgo, sul finire della seconda guerra mondiale. Era un autoritratto dove la sua immagine, sullo sfondo di campi gialli di grano e illuminata da un cielo azzurro che sembrava staccare i suoi pezzi per riempire le vesti di Vincent e parte delle mattonelle a terra, era fissata come in un’istantanea eterna, fra due alberi che nella loro purezza ricordavano la pittura giapponese. Van Gogh come scriveva al fratello Theo nell’agosto del 1883, sosteneva  di dipingere in segno di gratitudine verso il mondo dove aveva camminato per più di trent’anni, con l’intento di non seguire mode o tendenze ma di esprimere un sentimento umano sincero. Il suo viaggio è stato quello di un eroe e così lo legge Bacon nelle sue tele, dove  egli emerge nella sua solitudine, a volte dal buio, in  altre mentre percorre una terra rosso cupo, gravida di ombre nere. In occasione della mostra che sarà visitabile fino all’undici aprile 2021, uscirà anche la pubblicazione del curatore Marco Goldin, che reca il titolo Van Gogh, l’autobiografia mai scritta, e sarà edita dalLa Nave di Teseo. Il libro trae linfa e materia dalle novecento lettere che il pittore ha inviato e ricevuto  e che hanno permesso di unire  i fili della sua vita allo stesso modo di un’autobiografia scritta da lui stesso. La rassegna di Padova che è sicuramente un’occasione speciale per la città è stata possibile grazie al prestito di settanta opere di Van Gogh tra dipinti e disegni provenienti dal  Kröller-Müller Museum. La direttrice del museo, Lisette Pelsers, ricorda nel catalogo edito da Linea d’ombra, che tra le notevoli opere prestate ci sono: Alberi da frutto tra i cipressi (1888), la più celebre versione del Seminatore (1888), il Ritratto di Joseph-Michel Ginoux (1888) e Il burrone (1889). Ci sono anche tanti disegni, raramente esposti al di fuori del suo museo, che mostrano l’interpretazione del mondo rurale da parte dell’artista, soprattutto all’inizio della sua vicenda artistica. Risulta difficile, osservando i quadri della fine degli anni 80’, dove  le pennellate   di colore  accendono le nostre pupille mentre trattengono con se ancora i lampi del fervore creativo di Vincent, farsi un’idea dell’arte del  pittore ai suoi esordi. Gli anni della sua formazione dalla miniera di Marcasse ad Etten dove i soggetti sono diversi come i luoghi, è il momento in cui  compare l’attenzione e l’amore per gli altri che non lo fanno, come egli ci racconta,  sentire inutile, ma felice. Sono minatori che si muovono sulla neve e sono soprattutto, quelle che noi osserviamo, donne impegnate in varie occupazioni. Nella sezione della rassegna dedicata alla sua permanenza nella città dell’Aja scopriamo  i ritratti dolenti della madre e di Sien Hoornik, una ex prostituta incinta che diventò la sua compagna. Sono gli anni in cui egli si è ispirato soprattutto  agli artisti della scuola dell’Aja o a quella di Barbizon, agli Antichi maestri olandesi e alle incisioni su legno di autori contemporanei. Ne sono un esempio Donne nella neve che portano sacchi di carbone del 1882 che  mostra la fatica di un mondo reso quasi magico nel silenzio di  un paesaggio innevato. E poi i volti, espressivi come quella  Testa di donna del 1883 realizzata su carta velina a penna ed inchiostro nero, mentre gli oli su tela di teste di donne e di uomini dipinti negli anni 1884- 1885, sembrano nascere dall’amalgama di  una creta annerita dal fumo dei camini o imbrunita dal calore, resa verde scuro in alcune parti per un tocco di muschio li accanto: sono i visi forti o soli, di giovani o vecchi. E poi c’è Parigi dove conosce gli impressionisti e approfondisce l’arte giapponese. Il 1887 fu, afferma Goldin, il vero atto di nascita dell’arte moderna del pittore. La sua pennellata  a volte breve, altre lunga, intrisa dalla luce, si differenzia dagli amici francesi e rende la materia del suo quadro percorsa da una corrente. Utile, ancora prima, la lezione di Delacroix che  gli permise di  scoprire la bellezza  di una gamma cromatica più chiara. Quando lascia Parigi per il sud, per la Provenza e arriva ad Arles, in primavera, trova la neve. Quando racconta questo al fratello rileva un fatto singolare, ma per noi quel momento  è sicuramente straordinario per la nuova vena creativa  di Van Gogh.  Corre l’anno 1888, in cui nel tempo di  circa quindici mesi egli esegue duecento quadri,  cento tra disegni ed acquarelli e scrive duecento lettere. Per lui la città di Arles era il sogno di un Atelier del sud, nella casa gialla assieme a Gauguin e Bernard.  Una storia come sappiamo tutti finita male. Il suo fervore creativo dentro la natura ci ha lasciato pagine indimenticabili di pittura come nei quadri già citati, poco sopra, dalla direttrice del  Kröller-Müller Museum o il Ritratto di Armand Roulin. La fine del suo viaggio fra il maggio del 1889 e il maggio del 1990 a Saint- Remy fino al suicidio del 27 luglio nello stesso anno,  si legge nei brani di pittura che egli ci ha consegnato prima di congedarsi. Fra di loro ricordiamo quelle nuvole e i prati che si confondono con i pendii dei monti di Saint- Remy, i campi di grano al tramonto o il covone enorme sotto un cielo pieno di cirri di Auvers- sur-Oise che traduce nell’intensità del colore, l’odissea di un uomo.

Patrizia Lazzarin, 6 ottobre 2020

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Luigi Magnani, il signore della Villa dei Capolavori

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L’ultimo romantico, Luigi Magnani il signore della Villa dei Capolavori. La mostra alla Fondazione Magnani-Rocca a Mamiano di Traversetolo nei pressi di Parma. Colori e figure nei  quadri appesi alle pareti di un’antica dimora si legano  insieme  in un ritmo di arcani rimandi  e originano  vibrazioni nell’animo di chi li osserva. Quelle oscillazioni  si traducono, alla velocità di  un battito d’ali,  in accordi musicali  che  vengono tracciati  sul bianco dello spartito della nostra anima  e, come note di una sinfonia,  interpretano  e disegnano le  nostre emozioni. Dal colore nascono sensazioni  che a loro  volta creano una musica dentro di noi. Si può leggere cosi: L’ultimo romantico, Luigi Magnani, il signore della villa dei capolavori,  il  titolo della mostra che si apre oggi alla Fondazione Magnani - Rocca, a pochi chilometri da Parma, nella verde campagna di Mamiano di Traversetolo. La dimora raccoglie le opere di un grande collezionista nato nel primo decennio del Novecento  e che nella sua parabola esistenziale ha cercato e ha amato il senso del bello nell’arte figurativa, nella musica e nella letteratura. Scrittore, musicologo e  con grosse disponibilità finanziarie, alla stessa maniera di Beethoven che egli adorava e  che componeva catturato dal demone dell’ispirazione, egli cercava nelle opere d’arte un’armonia di suoni, misurata sull’accordo  di linee e di colori.  Viaggiare fra le opere da lui riunite nella Fondazione istituita nel 1977, arredata con pezzi del primo Ottocento che possono gareggiare con una residenza napoleonica, e aperta  al pubblico negli anni Novanta, è precipitare quasi con leggerezza dentro la Bellezza. Nella collezione permanente si possono ammirare, fra i tanti capolavori, la grande tela con La famiglia dell’Infant don  Louis, fratello cadetto del re Carlo III di Spagna,  eseguita negli anni 1783-1784 dal pittore Francisco  Goya, l’Enigma della Partenza di Giorgio De Chirico del 1914 o le atmosfere che annunciano l’alba nel dipinto Falaises à Pourville (Soil Levant) dell’impressionista Claude Monet. Larassegna riunisce accanto alle opere appartenute a  Magnani,  ritratti e autoritratti, provenienti da altri importanti musei   e che raffigurano  letterati, filosofi, studiosi, musicisti,  musicologi e artisti che erano stati suoi ospiti  nella villa di Mamiano  o che aveva conosciuto durante la sua permanenza a Roma.  Diventa un’occasione speciale per veder ripopolate e animate le stanze della signorile dimora con i tanti personaggi appartenuti al  mondo culturale del Novecento, in particolare  di quel momento storico fra le due guerre mondiali. Siamo curiosi di far conoscenza diretta con quei volti che quadri e fotografie restituiscono a noi  nei loro caratteri.  Sono figure  quali Alberto Burri, Carlo Mattioli, Leonardo Leoncillo, Giacomo Manzù, Renato Guttuso, Milton Gendel, Arturo Tosi, Carlo Carrà, Gino  Severini e Giorgio De Chirico. Egli  conosceva beneanche gli artisti Filippo De Pisis, Fabrizio Clerici, Toti Scialoja, Orfeo Tamburi, Arturo Tosi, Fausto Melotti, i critici d’arte Roberto Longhi, Palma Bucarelli e Cesare Brandi, lo scrittore Mario Praz e quello che sarà di lì a poco, nel 1948, unNobel della Letteratura: Thomas Stearns Eliot.  In altri casi sono i documenti e le lettere a rivelarci relazioni come quelle con Bernard Berenson o con Margherita, la sorella della regina Elisabetta.  Luigi Magnani ebbe poi un rapporto speciale con  Giorgio Morandi, ricambiato allo stesso modo dalla stima del pittore bolognese che  aveva appeso  sulle pareti della villa parmense più di cinquanta delle sue opere. Chiacchierate culturali mescolate alla buona cucina allietavano quei luoghi dove erano familiari Eugenio Montale, il critico d’arte Francesco Arcangeli e lo scrittore Giuseppe Ungaretti. Alcune opere raccontano le suggestioni e gli incanti di un’arte che diventa quasi ragione di vita come attraverso le superfici morbide e levigate delLa ninfa nel deserto di Lorenzo Bartolini, o nei rossi e nei blu delle vesti della Madonna delLa sacra conversazione di  Tiziano  o ancora nella classicità senza tempo della Tersicore di Antonio Canova. Il gusto  del Magnani che guardava alla lezione racchiusa nell’antico  e ai messaggi della modernità sono testimoniate dalla qualità delle opere di pittori che da Gentile da Fabriano a Filippo Lippi, da Carpaccio, Durer, Rubens e Van Dick giungono a Renoir, Cezanne, Matisse fino a Burri dando cosi forma concreta alla collezione permanente che possiamo oggi ammirare.  Non amava essere definito un collezionista come riporta anche Stefano Roffi,    uno dei curatori della mostra assieme a Mauro Carrera: dico soltanto che studio, che leggo, che scrivo e improvvisamente non c’è chi non voglia regalarmi quest’immagine di mezzo-antiquario, che non mi corrisponde. Magnani fu un intenditore e un mecenate, che s’incantava solo ai valori della vera pittura, commenta lo stesso curatore. La rassegna esibisce il pianoforte appartenuto all’antico proprietario e anche un’arpa, ma mette insieme anche altri strumenti musicali che giungono da differenti istituzioni museali. Quegli oggetti che riempivano lo spazio mentale di Luigi Magnani, le serate a Villa Nibby a Roma e a Mamiano di Traversetolo e  che ritroviamo,  nel misurare  un tempo, costruito sull’equilibrio  degli spazi di colore, nelle opere che aveva inseguito e cercato. Violini appaiono  ne l’Odalisque di Henri Matisse, strumenti musicali come soggetti ideali nella Natura morta con strumenti musicali di Gino Severini, in quella famosa  di Giorgio Morandinel Citaredo e la Tromba sulla spiaggia di Filippo de Pisis, nella  Natura morta con pianoforte di Renato Guttuso e nei tre Orfeo di Giacomo Manzù: opere a volte  da lui commissionate ai suoi amici artisti. A volte le creazioni tanto inseguite non davano buoni esiti   come con  il ritratto di Giovan Battista Moroni proveniente dal Palazzo omonimo  di Bergamo e che  ora possiamo invece ritrovare nell’occasione della mostra. Il serico tessuto  rosato   che vira al rosso  veste il  giovane uomo e lo stesso colore  sembra spandersi sulle sue gote, e anche al contrario, in un movimento inverso: i  toni  risaltano   di luce accesa a cui fanno da contralto, insieme,  le sfumature grigie e marmoree del fondale e l’ombrosità del paesaggio.  Qui come in uno spartito   le note acute fanno risaltare quelle basse e costruiscono significati.  La mostra  rimarrà aperta fino al  13 dicembre 2020.

Patrizia Lazzarin, 12 settembre 2020

 

 

 

 

 

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Monet e gli impressionisti a Bologna a Palazzo Albergati

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Palazzo Albergati, nel centro  di Bologna, ospita dal 29 agosto la mostra Monet e gli Impressionisti, che come ha  spiegato  il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, svolge una funzione quasi unica   nella situazione di emergenza sanitaria che stiamo vivendo,  anche per il valore del progetto e diventa espressione del grado raggiunto  dal turismo culturale nella città.  Essa che chiuderà il 14 febbraio 2021 è stata realizzata in collaborazione fra il Gruppo Arthemisia ed il Musèe Marmottan Monet ed ha la curatela di  Marianne Mathieu, direttrice scientifica del Museo di Parigi. Dentro la mostra le ninfee rosa e azzurre, i glicini viola, i paesaggi innevati dove si stagliano  le scarne braccia degli alberi e le  scogliere che si gettano nell’acqua, mentre la schiuma delle onde si solidifica in pennellate corpose e  restituisce segmenti di luce, ci affascinano con un’arte che ha saputo raccontare la modernità di un’epoca. Mentre attraversiamo  le sale dell’esposizione siamo incuriositi da queste epifanie di colore che sembrano colare dai quadri e rivestire intere pareti. Il senso di sorpresa ci coglie fin dall’inizio poiché questa è la prima occasione che il Musèe Marmottan Monet,  presta un corpo di opere consistente  e che racchiudono ognuna di esse una vicenda, non solo artistica, ma anche privata. Ci tramandano “brani” poco, o non noti, della vita della grande famiglia degli Impressionisti. Il Musèe Marmottan aprì i battenti nel 1934 per desiderio di Paul, l’ultimo discendente della ricca e influente famiglia Marmottan, che aveva pensato di legare la sua dimora ad un ente culturale per garantirne cosi,  dopo la  sua morte, l’apertura al pubblico e favorire anche un’adeguata tutela a quella galleria di pittura antica, per molti aspetti straordinaria. Sono tuttavia le donazioni di opere di Victorine e Eugène Donop de Monchy nel 1940 che, regalando undici tele che portano la firma di Claude Monet, Berthe Morisot, Pierre Auguste Renoir, Alfred Sisley e Camillo Pissarro, danno inizio alle collezioni Impressioniste del museo. E questo  è comprensibile in mostra, nel ritratto giovanile che Renoir fa alla giovane  Victorine su commissione del padre di essa: un segno di quelle relazioni, amicizie  ed ammirazione che animano  mecenati ed artisti della nuova corrente pittorica. Nel lascito di Victorine ci sono due capolavori di Claude Monet che possiamo ammirare in tutta la forza della loro novità e della loro  bellezza: Il treno nella neve. La locomotiva, un dipinto del 1875 e Il Ponte dell’Europa. Stazione di Saint - Lazare del 1877. Nella prima opera, la Locomotiva sul bianco di una neve che  percepiamo  nella  solidità di un manto ghiacciato, con i suoi fumi scurisce  il cielo e restituisce i colori  di una giornata d’inverno dove tuttavia una macchia di colore  simile a un drappo rosso e quei fari gialli che si staccano sulle superfici scure della macchina, sanno riaccendere con una virgolettata di colore l’intera immagine. Ancora lunghe scie di fumo  nella Stazione di Saint - Lazare che, nelle tonalità del grigio e bianco, si condensano in nuvole leggere che non appesantiscono, ma diventano lo scenario consueto dell’effervescenza della vita moderna, mentre salgono a coprire con le sfumature più chiare le superfici eleganti color avorio dei palazzi cittadini. Nel 1966 il museo ricevette il lascito dell’ultimo figlio di Monet, Michel: più di cento opere, tra cui  grandi quadri con ninfee, diventando così la più grande collezione esistente al mondo dell’artista francese e assumendo  il nome attuale: Musèe Marmottan Monet. Dagli anni  Novanta l’istituzione accoglie anche la prima raccolta di quadri della più famosa pittrice francese impressionista: Berthe Morisot, cognata  e  grande amica di quel celebre Edouard Manet, per cui posò anche come modella fino al matrimonio con il fratello Eugene. Quel frammento di quadro con Berthe distesa, dipinto da Edouard, visibile a Palazzo Albergati, in quel gioco di neri e marroni, dove spicca il colorito chiaro del volto della pittrice e il tratto deciso dei lineamenti, racconta della loro amicizia vissuta anche  nelle sale del Louvre mentre si esercitavano sui quadri di artisti noti. Espressione  dell’amicizia fra pittori è quel ritratto di Julie, la figlia di Berthe, dipinto da Renoir, dove lo sguardo che sfugge  gli occhi dello spettatore non  riesce a celare però la soavità e l’intensità di un volto  che è avvolto in una nuvola vaporosa di capelli  che mutano,  in  toni luminosi, dal rosso al nero. Il pennello di Berthe esprime  la sua delicata sensibilità come nell’opera Donna con  il ventaglio dove, con una ridotta gamma cromatica, che si arricchisce solo nelle piante sul tavolino dietro la modella, riesce a restituirci la consistenza a volte vitrea, a volte morbida degli oggetti e degli indumenti. Molte tele della pittrice ritraggono la figlia Julie spesso in compagnia della cugina Jeannie  come Sul Melo: qui è visibile una pennellata fluida e chiara che sembra congiungere le linee dei movimenti dei corpi a quelle delle piante. Nella pastorella sdraiata, che raffigura un’amica di Julie, la tavolozza nelle striature del colore, azzurro e viola e i tocchi di arancio e bianco disegnano una scena di Arcadia contemporanea, ma soprattutto l’opera incanta  perché la luce sembra costruire le immagini. Luce e acqua, bianco ed azzurro nel Porto di Nizza, sempre della stessa autrice, dove trionfa la tecnica impressionista. Un piccolo quadro che racchiude nella stessa misura bellezza e concentrazione di visione è il  Bosco sulla  Côte de Grâce, Honfleur di Camille Corot. In mostra sono ammirabili, infatti,  quadri che erano appartenuti al lascito di Annie Rouart, nuora di Julie, che possedeva  opere di maestri come Corot o di amici di famiglia come gli impressionisti. Possiamo ammirare anche opere di Paul Signac, acquistate da Claude Monet. Di Monet  cogliamo l’immersione nei colori della natura tra gli spazi di Argenteuil e Giverny e la sua attrazione per la cultura giapponese di cui  reca testimonianza la sua ultima opera dipinta che chiude la mostra: Le rose. Qui i fiori fluttuano nell’azzurro recando con se la leggerezza e i colori della vita. La rassegna Monet e gli Impressionisti rimarrà aperta  per i visitatori tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00.

Patrizia Lazzarin, 29 agosto 2020

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