Capire quale società dobbiamo ricostruire

Stiamo vivendo in un grande esperimento collettivo. Con il lockdown, 4 miliardi (!) di persone in tutto il mondo vedono stravolte le loro abitudini quotidiane e si trovano scaraventate in una condizione di gravissima incertezza. Un dato per tutti: negli Stati Uniti, le domande per i sussidi di disoccupazione sono già schizzate a oltre 10 milioni. A traballare sono i pilastri stessi della vita sociale su cui si fonda la nostra «sicurezza ontologica» (Giddens): la ragionevole aspettativa che ciascuno di noi ha di sapere quello che si può aspettare dalle persone e dalle istituzioni che lo circondano. Se il «mondo» nel quale la vita quotidiana si svolge è una realtà dotata di senso, continuità e stabilità, quello che sta accadendo ne costituisce una radicale messa in discussione. In queste settimane nelle nostre società si sta sedimentando un’enorme quantità di angoscia. Dove, con questo termine, si deve intendere quel sentimento di incertezza che ci paralizza (etimologicamente angoscia viene da angere, stringere, soffocare: la stessa sensazione di quando manca il respiro e si sente oppressione al petto). Una vera e propria interferenza nel senso di continuità dell’esistenza. Certo, sappiamo che il responsabile di tutto questo è il virus Covid-19, invisibile e sfuggente. Ma oltre ai tanti aspetti che ancora ignoriamo sulla dinamica del contagio e della malattia, quello che ci angoscia è che non sappiamo quando quest’epidemia finirà, quando avremo una cura o un vaccino e soprattutto cosa tutto questo comporterà nella vita di ciascuno. Di certo, i morti sono ormai già così tanti da aver toccato le cerchie familiari o amicali di molti, mentre non si contano quelli che hanno già visto il proprio reddito azzerato. Nel suo libro Angoscia e politica Franz Neumann ha sostenuto che la diffusione di questo stato d’animo fu alla base del sorgere del nazismo nella Germania degli anni Venti. La ragione sta nel fatto che l’angoscia crea uno stato ansiogeno tale da innescare potenti dinamiche di aggiustamento. Una diagnosi che non dobbiamo dimenticare se non vogliamo finire travolti dall’accumulo di tensione di questi giorni. Potremmo dire che l’angoscia ha bisogno di essere scaricata a terra. Un modo è quello di trasformarla in paura. Cioè in un oggetto concreto, delimitato, sufficientemente identificabile su cui concentrare la rabbia accumulata. Sta qui il pericolo di cavalcare, in giorni come questi, le fake news di chi accusa ora i cinesi ora gli americani di aver creato il virus. Nel quadro psicosociale nel quale viviamo, usare questi argomenti significa incamminarsi sulla via pericoloservono, sa che porta a fabbricare un nemico contro cui prendersela. Col rischio di favorire l’escalation bellica. Un’altra via passa dalla ricerca di un capo capace di prendersi cura di noi e di ciò che non possiamo controllare. Ne ha parlato Erich Fromm in Fuga dalla libertà: gli stati di angoscia collettiva sono spesso il preludio di una svolta antidemocratica. L’autoritarismo, che già si diffonde in vari paesi, diventa improvvisamente accattivante come via per calmare l’ansia che sovrasta interi popoli. Se si riconosce la portata della destabilizzazione psichica che la crisi sta portando questi due esiti nefasti non possono essere esclusi. Per questo, mai come in questo momento è fondamentale non fare passi falsi e imboccare fin da subito una via diversa. Sulla base di quello che sappiamo, si può suggerire di tenere presente tre linee di lavoro, prima di tutto, istituzioni autorevoli coese e ben funzionanti, in grado di dispensare quel senso di appartenenza e protezione di cui tutti sentiamo bisogno. Litigi, polemiche, incertezze sono intollerabili. Qui a contare è soprattutto l’azione di governo. Ma ugualmente importanti sono il modo in cui si pone l’opposizione e l’efficacia delle istituzioni che gestiscono l’emergenza, in primis la protezione civile e la sanità. E che dire dell’europa se non che la sopravvivenza dell’unione è legata alla sua capacità di porsi come un grembo protettivo? Qualunque scelta si faccia, non ci sarà appello per le istituzioni di Bruxelles.In secondo luogo, occorre identificare obiettivi comuni. Non facciamoci illusioni. Non ci basterà né sarà possibile semplicemente tornare al passato. Il problema che abbiamo davanti è sì quello di ricostruire. Ma in assenza di macerie. È perché non ci sono ponti, strade e case distrutte che occorre capire quale società edificare. Tenere aperte le imprese è vitale. Ma ugualmente decisivo è capire dove e come investire per rigenerare una economia che non potrà che essere diversa da quella che abbiamo conosciuto. Infine, non si deve dimenticare che l’angoscia tende a generare stati depressivi. Dopo queste settimane, non basterà dire alla gente di darsi da fare. Alcuni reagiranno in modo iperattivo. Molti, invece, non ne avranno la forza. Per tornare a vivere occorrerà credere di nuovo nel futuro, darsi un perché. Una partita che si vince solo sbloccando le persone, rimotivandole e soprattutto creando condizioni favorevoli all’ebrezza generativa della libertà. E questo sarà particolarmente vero per gli under 40. Questa, in effetti, è la partita della loro vita. E noi più adulti possiamo e dobbiamo solo essere al loro servizio.

 Mauro Magatti – Corriere della Sera – 8 aprile 2020

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Il «populismo industriale» e i suoi effetti negativi

Il disagio che si registra in molte democrazia occidentali — che si traduce politicamente nella crescita dei movimenti populisti — è il sintomo delle difficoltà che le società contemporanee stanno incontrando nell’adeguarsi ai mutamenti del modello produttivo.

Veniamo da una stagione — efficacemente descritta da Bernard Stiegler col termine di «populismo industriale» — dove i consumi hanno progressivamente messo da parte la centralità del lavoro: nella sua dimensione economica (con la riduzione della quota di valore aggiunto distribuito al lavoro); professionale (con l’instabilità e la precarizzazione diffusa) e esistenziale (con la fine, salvo che per pochi fortunati, della capacità del lavoro di essere luogo privilegiato di realizzazione e partecipazione).

La frattura del 2008 sta determinando un aggiustamento profondo che si produce lungo due principali direttrici. Dietro la spinta di una digitalizzazione che diventa sempre più capillare e profonda, si accentua il contenuto cognitivo di molte attività lavorative. Il panorama delle professioni sta cambiando e mentre alcune spariscono, altre ne nascono. Con un differenziale importante in termini di competenze (digitali ma non solo). Un processo destinato a cambiare in profondità il modo di lavorare. Perché — come mostra una recente ricerca del Mckinsey Global Institute — se è vero che solo una quota limitata di lavori sarà completamente sostituita, oltre il 60% delle attuali attività professionali è destinato a subire profonde trasformazioni. La seconda direttrice è l’impatto territoriale del mutamento in corso. I nuovi lavori a più alta competenza si concentrano nelle aree metropolitane e comunque nelle regioni a elevata integrazione funzionale. Ciò concretamente significa che mentre alcune aree crescono (in Italia Milano e buona parte, anche se non tutto il Nord), altre declinano, rischiando in alcuni casi una vera e propria desertificazione economica. L’aggiustamento al nuovo modello economico sta producendo dei vincitori (persone a medio e alta qualificazione per lo più nelle grandi città) e dei perdenti (occupati dequalificati e precari per lo più concentrati nelle periferie e nelle città di provincia). Con l’inevitabile conseguenza della crescita di forti sentimenti reattivi, come mostra con evidenza la geografia dei recenti andamenti elettorali di numerosi paesi avanzati.

L’Italia soffre in maniera particolare questa trasformazione perché ha vissuto nel modo più becero la fase del populismo industriale. In primo lupo, paghiamo il ritardo accumulato dal punto di vista della formazione, sia a livello tecnico che universitario. La qualità — umana e non solo professionale — della persone oggi è un fattore indispensabile per poter sperare di prendere parte ai processi economici del XXI secolo. In secondo luogo, il Paese soffre della mai risolta questione territoriale. Oggi la penisola ê più disgregata di 30 anni fa. E i problemi non toccano solo il sud, dove la situazione era e rimane molto grave; ma anche le tante zone interne e le moltissime città di provincia che non riescono a entrare nei circuiti della crescita. In terzo, luogo, quella italiana rimane una economia basata su una fitta rete di piccole e medie imprese, vero punto di forza della nostra economia. Il problema è che, a fianco dei campioni del Made in Italy — che il mondo intero ci invidia — sono ancora troppe le realtà che si limitano ad una strategia di mera sopravvivenza, con scarsa innovazione e pochi investimenti. Dove il lavoro dequalificato, instabile e in nero — insieme all’evasione — permette di galleggiare senza però nessuna prospettiva di futuro. Un modello basato sullo sfruttamento (anche ambientale) che l’arrivo dei 5 milioni di migranti oggi residenti nel nostro paese (vero e proprio esercito industriale di riserva) ha favorito.

L’aggiustamento alle nuove condizioni della concorrenza è difficile ovunque. Rimane il che sia possibile associare tutti i gruppi sociali e tutti i territori al nuovo modello economico. Un obiettivo che richiederebbe politiche coraggiose e lungimiranti che si scontrano però con gli interessi di breve termine, le resistenze sociali, le fatiche e la rabbia di buona parte della popolazione. Persino laddove ci sono condizioni più favorevoli, le difficoltà sono evidenti.

È chiaro allora perché per l’italia si tratta di anni particolarmente delicati. Siamo in ritardo e soprattutto siamo presi da un fatalismo depressivo che trova nel blocco demografico il punto di caduta più grave. Uscire da questa spirale negativa non è facile. Per riuscirci occorre una nuova classe dirigente (non solo politica, ma anche industriale, culturale, sindacale...) capace di dire con franchezza a tutto il paese (vincitori e vinti insieme) che nessuno si salva da solo.

Il nuovo modello di sviluppo che, pur tra mille contraddizioni, sta nelle pieghe della trasformazione in corso (delineato di recente anche da «il manifesto di Assisi»), si porta dietro una potenzialità importante: un’economia più avanzata ha bisogno di una società più integrata. Ad oggi, ciò si verifica solo per alcuni e in alcuni luoghi. Il problema è far sì che accada ovunque e per tutti. La via per battere il populismo politico è lasciarsi alle spalle il populismo industriale, mettendo al centro il lavoro e la qualità delle persone e dei territori.

Mauro Magatti – Corriere della Sera – 29 gennaio 2020

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